I.
DARK COMET’S REIGN
*ascoltatela qui*
And so unexpected came that sad mystic day
no words could have told what now was happening
It fell down quaking the Zephyr's surface
blinding the eyes of a thousand dying men
who were looking at it falling right over them
What seemed to be an astral fireball
was hurling metal, a dark and giant starship
colliding with Zephyr's volcanic grey rocks...
grey rocks!
SPACE AND TIME
BURN IN THE SKIES
DARK COMET'S RIDE
KEEP YOUR FAITH
THE DAY...IT CAME
DARK COMET'S REIGN
DARK COMET'S REIGN!
***
Come
principe ereditario, Kurogane Suwa aveva una serie di compiti sia
all’interno del palazzo reale che al di fuori, nelle vaste
lande del
suo regno.
Vista la sua indole scontrosa e selvatica, preferiva decisamente i
secondi.
Quel
giorno, fortunatamente, apparteneva ad uno di quelli in cui le ronde
dei suoi cavalieri pattugliavano i confini del regno, e i suoi doveri
lo avrebbero tenuto lontano dalla corte per diverso tempo ancora.
Giorni
di cavalcate lungo i versanti boscosi dei monti, di cacce e
appostamenti alla selvaggina, e di vento che sollevava il suo lungo
mantello mentre lanciava al galoppo il suo destriero scuro.
Nonostante
fosse un amante dei combattimenti, e non gli dispiacesse incontrare
occasionalmente qualche nomade malintenzionato con cui menare le mani,
tutto sembrava pacifico, in quel periodo, e Kurogane si godeva il senso
di libertà che quel giro di perlustrazione gli stava
regalando.
I
suoi uomini, dietro di lui, scherzavano allegramente. Era quasi sera;
la strada che percorrevano avrebbe dovuto presto attraversare un passo,
per poi portarli in una piccola valle dove era situato un paesino, loro
prossima tappa.
Avevano cercato di mantenere un’andatura sostenuta
per riuscire a raggiungerlo prima dell’imbrunire, ma sembrava
proprio
che non ce l’avrebbero fatta.
“Niente da fare, per stanotte dovremo accamparci qui
vicino.” Disse a Gantai (*), il suo tenente, con leggero
disappunto.
“Oh,
poco male, capitano.” rispose lui, ammiccandogli con
l’unico occhio che
gli rimaneva (la cicatrice sull’altro lato del viso era
perennemente
coperta da una benda nera)
“Qui sembra tutto tranquillo.
Arriveremo domani mattina, freschi e riposati, e faremo una migliore
impressione sulla gente del paese.”
Kurogane rispose con un
grugnito, ma annuì. E poi, non potevano portare i cavalli di
notte
lungo quella strada di montagna, o avrebbero rischiato di azzopparli.
Si
accamparono distribuendosi in fretta i turni di guardia. Erano una
ventina di soldati, abituati a lavorare e viaggiare insieme, e tutto
sommato, nonostante gli imprevisti, questi viaggi costituivano per loro
una normale e quasi comoda routine.
Kurogane si accomodò nel suo
giaciglio. La primavera era ormai avanzata, e nonostante
l’aria ancora
fredda delle notti di montagna, a lui non dispiaceva dormire
all’addiaccio, tutt’altro.
Attorno, i suoi uomini facevano ancora un discreto rumore, sistemandosi
per la notte.
Anche
se ne apprezzava la compagnia – erano gente in gamba,
guerrieri con cui
aveva combattuto più di una battaglia e a cui avrebbe
affidato la sua
stessa vita – rimpiangeva i tempi in cui poteva scappare di
nascosto
dal castello per filarsela tra i boschi e rimanervi per giorni interi,
finché una pattuglia di guardie non veniva a scovarlo,
rovinando
l’avventura.
I suoi genitori non si erano mai arrabbiati sul serio,
ma con il tempo erano riusciti a fargli comprendere che cosa
significasse il termine
“responsabilità”. Una lunga serie di
doveri da
non disattendere… soprattutto finché
c’erano loro a comandarglielo.
Trattenne
un sospiro. Avrebbe soltanto voluto poter cavalcare libero, la sua
spada al fianco, inseguendo le sue avventure. Suwa non aveva bisogno di
lui…
Attese che tutto nel campo fosse silenzioso, se non per il
respiro pesante degli uomini addormentati e per i piccoli movimenti dei
soldati di guardia, e poi si addormentò a sua volta.
Quando una
forte luce gli attraversò le palpebre, svegliandolo
all’improvviso, il
suo primo pensiero fu che doveva già essere giorno
inoltrato, e che..
accidenti! Come diamine aveva fatto a dormire così a lungo?!
Poi sentì il grido di Gantai accanto a lui, e
spalancò gli occhi.
Il cielo bruciava.
Non era un incendio, perché non sentiva caldo…
anzi, l’aria era quella gelida ed umida dell’alba.
Ma i suoi occhi erano pieni delle fiamme che vedeva sopra di
sé.
Era come se il sole si fosse staccato dalla volta celeste e stesse
precipitando su di loro, inesorabile e… sempre
più vicino.
Scattò
in piedi, mettendo mano alla spada e sguainandola davanti a
sé, per poi
rendersi conto che era un gesto totalmente inutile.
La sfera di
fuoco si ingrandì, e la luce era tale che dovettero tutti
distogliere
lo sguardo. Pochi istanti dopo, il boato. Un boato immenso, che
durò a
lungo, terribilmente a lungo.
La terra tremò, e il suono si
ripercosse per le valli scuotendo le fondamenta dei monti attorno a
loro. L’aria e i detriti gettarono a terra i soldati,
storditi
dall’esplosione, e dopo la luce accecante, tutto divenne
improvvisamente scuro.
Occorse del tempo, prima che Kurogane
riuscisse a mettersi in ginocchio. Era ancora troppo rintronato per
alzarsi in piedi, e non riusciva ad aprire gli occhi, le palpebre
cementate dalla polvere.
Le orecchie rombavano ancora per il boato, e quando tentò di
tirarsi su crollò a terra senza nemmeno rendersene conto.
Tuttavia,
non gli sembrava di essere ferito, anche se si sentiva troppo confuso
per poterne essere sicuro. Cercò a tentoni la spada accanto
a lui,
senza successo. Imprecò.
Prese la stoffa di un lembo interno della
camicia e si pulì gli occhi con rabbia. Faticò ad
aprirli, ma dopo un
po’ riuscì ad abituarli alla luce. Gli dolevano
per via della polvere,
e gli occorse del tempo per riuscire a mettere a fuoco quello che gli
stava intorno. E quando finalmente poté vedere, non ne fu
affatto
contento.
I suoi uomini giacevano a terra attorno a lui, storditi ma
apparentemente salvi. I cavalli, legati, nitrivano imbizzarriti poco
distanti, ma sembravano incolumi anche loro. Fortunatamente, si erano
accampati su un colle lì a fianco, e questo li aveva
salvati: la strada
che percorrevano era franata, i massi che ancora stavano rotolando per
il pendio che conduceva al passo, in alto sopra di loro.
Al di là,
si levavano nubi di polvere, gettando un cono d’ombra sul
pendio dove
si trovavano, mentre il sole si innalzava dietro le creste dei monti.
“Ehi, svegliati!” fece avvicinandosi a Gantai, che
giaceva ancora semisvenuto a poca distanza da lui.
Questo si mise faticosamente a sedere, sbattendo le palpebre, sconvolto.
“…è…il
sole…ha…”
“Tsk. Non era il sole. Quello è ancora
lì.”
Gantai si prese la testa tra le mani. “…e che cosa
diamine era, allora?”
Kurogane
lo lasciò, tornando ad alzarsi in piedi, e posando lo
sguardo sugli
altri uomini che lo osservavano, neri di sporco e dubbiosi.
“Qualsiasi
cosa fosse, è finita in quella valle. E non prevedo niente
di buono per
il villaggio che dovevamo visitare, maledizione!”
Kurogane strinse i
pugni, guardandosi intorno con aria bieca, alla ricerca della sua
spada. La trovò ai piedi della collinetta, semisepolta dalla
ghiaia.
Imprecando,
osservò la strada che avrebbero dovuto percorrere per
arrivare al
passo. Era improponibile portarci i cavalli. Inoltre, c’era
il pericolo
che muovendosi avrebbero potuto causare altre frane.
Cercò di ragionare lucidamente, ma la sua mente era ancora
offuscata.
“Statemi
a sentire – disse alla fine, brusco – i due di voi
coi cavalli più
veloci torneranno seduta stante a palazzo. Controllate che i cavalli
stiano bene, e non perdete un solo attimo lungo la strada.”
Mentre i due in questione si affrettavano verso i loro destrieri,
Kurogane soppesò i restanti uomini.
“Dieci
di noi andranno lì sopra a vedere che diamine è
successo. Gli altri
staranno qui ad aspettare. Se per il tramonto non siamo tornati, fate
in modo di avvertire la gente qui intorno, e i sovrani.”
Naturalmente,
lui faceva parte del gruppo che sarebbe andato in avanscoperta.
Nonostante il potenziale pericolo, e il fatto che lui fosse il
principe, nessuno osò obiettare. Lo sguardo del loro
capitano non
ammetteva repliche ai suoi ordini… più che mai in
quel momento.
In poco tempo, lui, Gantai e gli altri furono pronti, e cominciarono
lentamente ad avventurarsi lungo l’impervia salita.
L’ascesa
richiese molto più tempo del previsto, perché
dovevano procedere cauti,
tentando di attraversare solo zone in cui i massi sembravano abbastanza
stabili, e più volte furono costretti a tornare indietro per
cambiare
percorso. Quando finalmente raggiunsero il passo, il sole era quasi
allo zenit.
Lo spettacolo che si parò davanti ai loro occhi era peggiore
di un incubo.
La
nebbia di detriti si stava diradando, aiutata dal vento che aveva
cominciato a soffiare, ma solo per mostrare che la valle stava andando
a fuoco: in lontananza, si innalzavano pinnacoli di fumo nero, e le
fiamme avvolgevano le campagne che ricoprivano il fondo della vallata.
Poi,
a malapena visibile attraverso la cappa di fumo e polveri che stagnava
sul fondovalle, c’era qualcosa. Un oggetto che sembrava un
enorme masso
emerso dal terreno. Nero come la notte, ingoiava i pochi raggi di sole
che, penetrando la coltre di fumo e polveri, riuscivano a colpirlo.
“Cosa diavolo è… quello?”
fece uno dei soldati.
Kurogane, in tutta risposta, cominciò a scendere, non dopo
aver sfiorato significativamente l’elsa della sua arma.
Una
volta arrivati a fondovalle, si divisero. Sarebbero andati in cerca dei
sopravvissuti, e di qualsiasi indizio che potesse far capire loro che
cosa era accaduto.
Il primo lo trovarono Kurogane e Gantai. Era
più alto di loro, e nero come l’oggetto che ora
avevano perso di vista,
tra gli alberi e i saliscendi del fondovalle.
Un masso sottile ed appuntito, conficcato nel suolo come una gigantesca
punta di freccia.
I
due guerrieri lo osservarono diffidenti. Era perfettamente levigato,
liscio in maniera innaturale. Kurogane lo sfiorò pensieroso,
prima di
lasciarselo alle spalle.
Incontrarono un piccolo fronte di incendio.
Poco
oltre, c’erano le macerie di una fattoria. Il tetto, di cui
ormai non
rimanevano che poche assi consumate dal fuoco, e le mura principali
erano sgretolati, mentre su un fianco i mattoni erano squarciati da un
secondo pezzo di quello strano metallo, che era penetrato
nell’abitazione distruggendola.
L’incendio che doveva essere
divampato andava già spegnendosi. Kurogane si rese conto che
erano
rimasti privi di sensi molto più tempo di quanto lui non
avesse
calcolato.
Si affrettarono tra le macerie, ma solo per trovarvi
alcuni cadaveri carbonizzati. Quando era successo il disastro, dovevano
essere ancora addormentati, ed erano stati colti del tutto di sorpresa.
In
quello che doveva essere stato un letto matrimoniale, si distinguevano
le sagome scure di tre bambini. Kurogane li guardò, gli
occhi scuri,
pensando che forse, per fortuna, la morte li aveva colti nel sonno.
Avrebbero voluto fermarsi per sotterrare i corpi, ma non
c’era tempo.
Proseguirono
nella perlustrazione. Si imbatterono in altri detriti, e in altri
cadaveri. Incontrarono anche un paio di famiglie di contadini che,
miracolosamente scampati all’esplosione, cercavano di
allontanarsi dai
focolai di incendio ancora brucianti.
Erano terrorizzati, e da
loro i due soldati non riuscirono ad ottenere resoconti coerenti di
quanto era accaduto. Per tutti, una delle stelle del firmamento si era
schiantata nella valle. Esattamente dove una volta sorgeva il villaggio.
Li
incoraggiarono a proseguire verso il passo, e ripresero ad avvicinarsi
all’oggetto. L’aria era intrisa del tanfo del fumo
e della cenere.
Gantai risalì un colle, alla ricerca di un punto per vedere
meglio i dintorni, e richiamò Kurogane con un fischio.
“Non ha senso, capitano. Tanto vale tornare
indietro.” Gli disse, non appena l’altro
l’ebbe raggiunto.
Kurogane
strinse i pugni, ma non replicò. Poco avanti a dove si
trovavano loro,
il bosco che stavano attraversando cessava di colpo, e si apriva un
cratere colmo di tronchi di legno carbonizzati, al centro del quale
svettava il masso nero. L’immobilità era totale,
interrotta qua è la
solo dallo spezzarsi dei tronchi degli alberi distrutti dalle fiamme.
“Qualunque cosa ci fosse stata qui, non ce
n’è più traccia.”
“…maledizione.” fu il solo commento del
principe alle parole del tenente.
Scesero
dalla collina in silenzio. Lo spettacolo del cratere, spaventoso e
imponente allo stesso tempo, li aveva tenuti incollati sul posto a
lungo. Ora, il sole cominciava già ad avviarsi dietro le
cime dei monti
circostanti.
“…dovremmo tornare indietro.” disse
Gantai, semplicemente.
Kurogane
annuì, brusco, lo sguardo sempre rivolto in direzione del
cratere,
anche se non riusciva più a vederlo, nascosto
com’era tra gli alberi.
Come se stesse dicendo a qualche nemico invisibile di uscire allo
scoperto, perché era pronto ad affrontarlo.
Poi, i suoi occhi vennero attirati da qualcosa. Qualcosa di un bianco
candido, seminascosto tra i tronchi e le foglie.
Socchiuse le palpebre, cercando di capire se si trattava di una pietra.
Ma sembrava decisamente stoffa.
Si avviò con decisione da quella parte, facendosi strada con
la lama tra i cespugli del sottobosco.
Si
fermò soltanto quando, sparita alla sua vista a causa dei
rami, la
stoffa non ricomparve sotto i suoi piedi. Dal tessuto bianco e sporco
di terriccio spuntava una mano dalle dita lunghe e candide. Kurogane si
chinò a spostare alcune grosse felci, fino a scoprire il
corpo di un
giovane riverso a terra.
Lo voltò lentamente, rivelando un viso coperto di sporco,
che a malapena celava il pallore cinereo della pelle.
Gli
ripulì la faccia, scostando dalla fronte ciocche di capelli
biondi
impastati di sangue e polvere, e gli tastò il collo con le
dita.
Poteva sentire il sangue pulsare flebilmente, sotto la pelle.
Lo
sollevò nella maniera più delicata che la
situazione e la sua indole
gli consentivano, e tornò verso Gantai, che fece tanto
d’occhi quando
se lo vede venire incontro trasportando in spalla lo sconosciuto.
“E’ ancora…vivo?” chiese
sbirciandone i lineamenti da oltre il fianco del guerriero.
“Sì. Muoviamoci, adesso.” rispose
brusco, senza fermarsi.
Marciarono a passo sostenuto, allontanandosi il più
velocemente possibile dal cratere.
Kurogane
camminava senza mostrare di sentire il peso del corpo che portava, ma
dopo un po’ si accorse che lo sconosciuto cominciava a dare
segni di
vita, dimenandosi leggermente sulla sua spalla.
Si fermarono e lo
distesero a terra. Lo osservarono per bene: vestiva uno strano vestito
bianco (beh, certamente era stato di un bianco immacolato, prima, ma
ora era ricamato di bruciature, strappi e sporco) dagli orli in
pelliccia, decorato da motivi azzurri. Una fattura piuttosto strana,
per il luogo. Senza contare che i capelli biondi erano una
caratteristica inusuale, per gli abitanti di Suwa.
Aveva qualche graffio qua e là, ma non sembrava ferito
seriamente.
Gantai
prese la sua borraccia d’acqua e ne inumidì un
orlo del mantello,
tamponandogli le tempie e la fronte. Dopo un po’, il giovane
cominciò
ad aprire lentamente gli occhi. Kurogane alzò una mano, a
fargli un po’
d’ombra sul viso.
Mosse la testa di qua e di là, e finalmente le palpebre si
alzarono, a rivelare due grandi iridi turchine.
“Ehi, come stai? Che ti è successo?”
fece Gantai immediatamente.
Il ragazzo roteò gli occhi, guardandosi intorno, senza dar
segno di aver sentito le sue parole.
Kurogane
prese la borraccia del tenente, e la poggiò sulle labbra
dell’altro,
tenendogli sollevata la testa per farlo bere. Questo dischiuse le
labbra, diffidente, ma poi bevve avidamente.
Il principe lo osservò
senza dire una parola, e quando l’altro ebbe finito di bere,
ripose nel
suo zaino la borraccia di Gantai, ormai vuota, e al sottotenente diede
la sua, quasi piena.
Mise a sedere il giovane, che era tornato a
guardarsi intorno con aria stralunata, e gli tastò le gambe
con gesti
un po’ rudi. L’altro nemmeno si ritrasse, e non si
lasciò sfuggire un
singulto di dolore.
“Non hai niente di rotto, quindi puoi
camminare.” decretò allora Kurogane, e senza tanti
complimenti lo
afferrò per le spalle e lo tirò in piedi.
Il biondino barcollò,
appoggiandosi a lui per non perdere l’equilibrio. Il principe
lo
afferrò per un braccio e ripresero la marcia.
Il ragazzo incespicava
spesso, quasi non ricordasse esattamente come si faceva a muovere le
gambe per camminare, ma andava avanti senza emettere un suono di
protesta. Continuava a guardarsi intorno come se tutto quello che stava
vivendo fosse un sogno.
Quando finalmente arrivarono in cima al
passo, il sole stava ormai tramontando. Sotto di loro, gli altri
soldati si erano già raccolti, e all’accampamento
si erano aggiunti
molti dei contadini sopravvissuti alla catastrofe. Kurogane
sospirò,
preparandosi alla discesa. Fece per tirarsi appresso lo sconosciuto, ma
quello rimase fermo impalato sul posto.
Il guerriero si voltò, innervosito, e vide che lo sguardo
dell’altro era fisso sul masso nero, che baluginava in
lontananza.
Alcune lacrime avevano cominciato a solcargli le guance, rigandole di
sporco.
“La… Cometa Nera…” disse con
voce flebile.
Kurogane si accigliò, fissando a sua volta
l’oggetto.
Una stella cometa caduta sulla terra… una stella buia.
Dello stesso colore del lutto e della distruzione che aveva portato.
Kurogane
lo strattonò di nuovo, con decisione, e questa volta il
biondo, volto
su di lui uno sguardo perso, cominciò a scendere dietro di
lui.
Con l’avanzare del buio e i massi pericolanti, la discesa fu
quasi più lenta della salita.
Gantai
apriva la strada, davanti a loro, tentando di trovare quella meno
insidiosa, ma lo sconosciuto inciampava spesso, aggrappandosi a
Kurogane come se ne andasse della sua stessa vita (cosa che, in diversi
punti del percorso, non era poi distante dalla realtà).
Quando infine raggiunsero l’accampamento, era notte.
Una
notte serena, con le stelle che splendevano serafiche nel cielo
limpido, mentre le persone, all’accampamento, lanciavano
occhiate
diffidenti e colme di terrore alla volta celeste.
Anche il biondo guardava per aria, il cielo stellato che si rifletteva
nei suoi occhi chiari.
Gantai
lo osservava perplesso, con in mano una scodella di cibo.
L’altro non
sembrava nemmeno aver udito la sua proposta di mangiare.
“Sembra
aver subito un forte shock… non sa nemmeno dire il suo
nome.” Commentò
a mezza voce con Kurogane, quando quello si avvicinò.
Il guerriero
squadrò il ragazzo, che se ne stava seduto a terra a gambe
incrociate,
il naso all’insù. Gli si piazzò di
fronte a braccia conserte,
fissandolo diritto negli occhi.
“Allora, come ti chiami?”
Il ragazzo lo degnò di uno sguardo appena, e
tornò a guardare le stelle.
“Insomma,
devi avercelo un nome!” cominciò a innervosirsi
Kurogane. Quel giorno,
la sua già scarsa dose di pazienza era stata abbondantemente
superata.
“Ehm.. io, Gantai…” intervenne il
tenente, battendosi il petto per far capire all’altro che si
stava riferendo a se stesso.
“…e
lui Kurogane.” proseguì dando un colpo timido
sulla spalla del
capitano, che gli rivolse un’occhiataccia. Gantai si ritrasse
spaventato “Mi perdoni la confidenza!” si
scusò mugolando.
La scenetta sembrò attirare l’attenzione del
ragazzo, che fissò i suoi occhi sul principe.
“Kuro… Kuropon!” disse alla fine.
Questo gli piantò addosso degli occhi di fuoco.
“KUROGANE!!!”
L’altro
sembrò pensarci su, come a cercare di collegare il nome che
aveva
sentito e quello che avrebbe dovuto uscire dalle sue labbra.
“Kurochan!” si decise alla fine.
“KU-RO-GA-NEEEE!” ribadì
l’altro in un ruggito, mentre alcuni soldati si voltavano a
fissare incuriositi la situazione.
Gantai
fece per zittirlo – il giovane sembrava già
abbastanza traumatizzato di
suo, non era il caso di acuire il problema – ma
inaspettatamente al
biondino sfuggì una risata.
“Ahahah… Kurotan!” fu la sola risposta
in mezzo alle risatine.
Kurogane
si allontanò da lui adirato, ma il giovane lo
seguì con lo sguardo, un
sorriso ancora stampato in volto. Anche una volta che l’ebbe
perso di
vista, i suoi occhi rimasero fissi sul punto dove era sparito, senza
tornare a rivolgersi alle stelle.
*next track: The Age of Mystic Ice*
*= "gantai" vuol dire "benda" in giapponese - Neera (aka Reiko in EFP)
docet XD
|