Ha i capelli
d’oro degli Æsir
For my dreams I hold
my
life
For wishes I behold
my
night
The truth at the end
of
time
Losing faith makes a
crime
I wish for this
night-time
to last for a lifetime
The darkness around me
Shores of a solar sea
Oh how I wish to go
down with the sun
Sleeping
Weeping
With you
(Sleeping sun
–
Nightwish)
Loki è
bello e
gradevole nella figura, malvagio nell’animo, molto volubile
nei modi.
Egli portò
gli Asi
ripetutamente in difficili contese e spesso li trasse
d’impaccio con le sue
frodi.
(Edda in prosa)
Capitolo 1
Del tesoro
perduto
Asgard, un altro
tempo
Si dice che
quando Thor riportò ad
Asgard il dio degli inganni in catene, Odino dovette colpire per sette
volte il
pavimento della sala del trono, affinché gli Æsir
facessero silenzio. Un brusio
si era levato di fronte all’Ase dalla Lingua
d’Argento capace d’incantare, col
suono stregato della sua voce, ogni orecchio, concupire ogni mente.
L’astuto
dio aveva le mani legate da ceppi pesanti e un bavaglio di ferro gli
copriva la
bocca sempre pronta a mentire e a pronunciare terribili incantesimi.
Era stato
crudele. Un’ira tremenda gli aveva scosso il petto e il
cuore. L’inganno
orrendo perpetrato a suo eterno danno gli aveva corroso lo spirito e la
mente,
e tutti i Nove Regni erano stati sconvolti dalla sua furia terribile di
figlio
non amato, di erede truffato. Sì, era stato malvagio e lo
sapeva. La corsa
verso l’Hlidskjalf su cui solo il più degno si
sarebbe potuto sedere, si era
rivelata nient’altro che una beffa, una gara truccata in
partenza. Il figlio di
Laufey non sarebbe mai stato degno di governare gli Æsir;
così il dio degli
inganni era stato a sua volta ingannato. Tutto il sangue versato per la
città
d’oro dalle alte torri, tutti i favori, i doni, gli sforzi
fatti per rendere
più potente e solido il trono di Odino, improvvisamente
erano svaniti, scomparsi,
non contavano più nulla. Solo che l’astuto Loki
non aveva messo a disposizione
di Asgard solo il braccio pugnace e la mente svelta, ma anche ogni
fibra del
suo corpo nervoso, asciutto, elegante, ogni pezzo della sua anima
corrotta,
appassionata, bruciata.
Stirò
le labbra in un ghigno perfido
e storto, lupesco. “Allora, Padre, dimmi: che punizione hai
scelto, per me? Per
il figlio che doveva essere re, per la reliquia rubata che hai
sottratto agli
Jotnar?”
Lo disse
compiacendosi di ogni
sillaba, parola, concetto. Con quei suoi occhi dalla trasparenza
smeraldina,
fissò il sovrano travestito da genitore e lo vide per quello
che era: un
vecchio stanco che s’arroccava su inutili questioni, un
guerriero dalla schiena
ormai curva; un giudice ancora severo, tuttavia. E vendicativo. Loki
deglutì e
alzò fieramente il capo cercando, per l’ultima
volta, di liberare i polsi doloranti
e abrasi dal metallo impietoso. “Se è la pena
capitale, quella che mi spetta,
non esitare, Padre. Abbi il coraggio di pronunciare la mia sentenza di
morte.”
Aveva parlato
con voce sicura, priva
d’incertezze, ma nel suo petto qualcosa
s’incrinò.
“No,
Loki. La morte non è la giusta
punizione, per te. Ti accontenterò, mio disperato, perduto
figlio. Avrai un
regno dove sarai il solo padrone e signore: i tuoi sudditi saranno
mostri, la
solitudine ti mangerà il cuore, ma sarai re, Loki.
Sì, io ti maledico e ti
condanno a qualcosa di peggiore, di più tremendo della
morte. Piegherò il tuo
animo protervo, arrogante, sconsiderato, crudele, folle. Passerai il
resto dei
tuoi giorni esiliato in un luogo protetto da rune molto, molto lontano
da qui,
dove forse potrai riflettere su ciò che hai fatto, o
maledetto dagli Æsir
tutti. Non sarai mai più libero; rimarrai per sempre schiavo
del tuo dolore,
della tua arroganza, di te stesso.
Portatelo
via.”
Così
avvenne.
Si racconta che
la prigione del dio
degli inganni fosse situata su Midgard, al centro di una grande,
immensa
foresta persa nel cuore di un continente antico.
C’è chi dice che si trattasse
di un palazzo di meravigliosa bellezza, che assomigliava alla perduta
Asgard.
Altri, sostenevano che un incantesimo potente, recitato da Odino in
persona,
celasse alla vista degli uomini quell’intrico magnifico e
terribile di torri e
stanze. La gente cercò a lungo la prigione del dio. Come
tutti i mostri e le
bestie, si diceva che fosse a guardia di un tesoro immenso,
incredibile, così grande
e prezioso da non avere eguali in tutto il mondo. Scossi
dall’avidità, eccitati
al pensiero dell’oro e delle gemme lì custodite,
in molti partirono alla
ricerca del castello perduto. Alcuni, forse bugiardi, certamente pazzi,
dissero
di averlo trovato: raccontarono di labirinti fatti d’oro e di
un lupo feroce e
famelico che sbranava gli uomini che osavano avvicinarsi al suo
padrone. Altri
sostennero di essere stati rinchiusi nelle segrete del dio per
cent’anni interi
e di un drago enorme che dormiva nei sotterranei, ma nessuno
tornò mai con
niente più di qualche storia oscura e una manciata
d’incubi.
Così
passò il tempo. La gente cercò
disperatamente per molti anni ancora la dimora del dio perduto e
bandito dal
suo regno immortale; bagnò con il sangue la terra intorno
alle foreste fitte
che si diceva celassero la costruzione stregata e, infine, come tutte
le cose, dimenticò
il tumulo e le grotte e il palazzo e persino il nome del dio degli
inganni si
perse nella memoria. L’oblio lo accolse con la sua ombra.
Questo si racconta.
♥
Foresta di
Hallerbos, Belgio, 1882
Non si
può finire in Belgio per
seguire quattro pagine di un’edizione secentesca trovata su
una bancarella che
si rifà, a sua volta, a un testo ancora più
antico che nessuna biblioteca di
Londra sembra possedere. Non si insegue una leggenda che è
meno di una favola
perché l’edizione in questione ha quattro pagine
in più della sua unica sorella,
finita chissà come a Boston. Sigyn fermò il
cavallo tenendosi con una mano il cappello.
In tasca teneva l’unico frammento reale di una storia di
magia inventata da
qualche genitore per ammonire i figli. Una fibula vichinga, abbellita
da
un’invocazione scritta in caratteri runici che, dicevano,
proveniva
direttamente dal Volga. Con tutta probabilità, il reperto in
questione era
appuntato su uno dei mantelli di coloro che assistettero al sontuoso
funerale
di un capo degli uomini del Nord, assieme allo storiografo Ibn Battuta.
Ecco perché suo padre era sparito. Si era ficcato in testa
che doveva
recuperare un tesoro che si era perso nelle cronache antiche e nei
bestiari
medievali che parlavano di sciapodi
e
di unicorni.
Si era lasciato sedurre dalla voce di un tumulo scoperto da un
taglialegna in
una sperduta foresta ai confini del Belgio e aveva abbandonato ogni
cosa, speso
ogni risorsa quasi mandandoli sul lastrico, per inseguire una chimera
inesistente e vaga come le fiabe che si raccontano davanti al camino,
nelle
sere d’inverno.
Sigyn
pensò alle ultime parole che si
erano rivolti. “Ti
porterò una rosa,”
le aveva promesso sapendo che lei le amava. Non era mai riuscita a
smettere di
assecondarlo in quella ricerca spasmodica e folle ritenendo, a ragione
o a
torto, ora non lo sapeva più, che suo padre cercasse una
leggenda antica per
soffocare la nostalgia feroce che provava dopo la scomparsa di sua
madre. Al
Circolo dicevano che fosse pazzo, invece. Lo accusavano di stare
sperperando
una fortuna e lo trattavano con sufficienza. Sigyn lo sapeva e
conosceva anche
il nome di colui che, tra tutti, più si divertiva a beffarsi
di suo padre. Lord
Theoric di Gastonblury, un uomo tronfio e pieno di boria che credeva di
poter
fare tutto con i suoi soldi e che ogni cosa gli spettasse di diritto;
persino
lei. Sigyn gli aveva riso in faccia, quando le aveva detto che sposarlo
era un
privilegio. Arricciò le labbra con disappunto, al pensiero
della sfacciataggine
dimostrata dall’uomo. Lord Gastonblury in quel momento era
solamente un
pensiero fastidioso che doveva scacciare dalla mente: la
priorità era cercare
suo padre, svanito da troppi giorni. Con un groppo in gola, si
addentrò nella
foresta pregando di riuscire a individuare una traccia, anche una sola,
capace
di suggerirle che il genitore fosse ancora vivo.
Quello che
successe dopo, fu un
sogno, un incubo, entrambi. Sigyn non sarebbe riuscita mai a ricordarlo
con
precisione, e coloro che si inoltrarono con lei nel fitto della foresta
non ne
uscirono vivi. Chi li aveva preceduti, del resto, aveva smarrito il
senno e
dimenticato ogni cosa. Alcune immagini si erano fissate nella mente di
tutti
gli sfortunati esploratori, a dire il vero. Visioni false
cristallizzate nella
testa, tutte uguali, che raccontavano di un bosco diverso da quello
visitato
realmente, dove i rami degli alberi erano così fitti da
oscurare il sole, i
tronchi tanto contorti che pareva fossero cresciuti su una terra
avvelenata,
l’aria così fredda che sembrava di vivere in un
inverno maledetto.
Non esistevano
strade per la Tana del
Mostro, dicevano le quattro pagine nate dal nulla che facevano loro da
mappa e nessun’altra
edizione conteneva. Gli dèi avevano cancellato ogni traccia
o sentiero che
potesse condurre nel luogo stregato. Nei secoli, altre vie erano state
battute
e segnate, ma il tempo e le sventure avevano convinto gli uomini a
occultare
anche quelle. Sigyn non avrebbe saputo dire mai cosa ci fosse di vero,
in
quella storia. S’inoltrò nella foresta
accompagnata da un guardiacaccia, da un
servitore e da alcuni uomini della città vicina che dicevano
di aver visto suo
padre avventurarsi, un mattino di molte settimane prima, verso il
sentiero che
conduceva nel bosco di Hallerbos.
Era
davvero quello il nascondiglio della Bestia? La prigione dove un dio
vendicativo e riottoso aveva, secondo un mito vecchio di mille anni,
rinchiuso il
figlio traditore e bugiardo? Dicevano che fosse un luogo stregato,
magico. Lo
chiamavano il bosco blu,
la foresta incantata, e il motivo era quel tappeto di giacinti che
ricopriva la
terra sospendendo il tempo. Spuntò un cervo, dal nulla.
Prima di sparire nel
silenzio dei rami fitti, li guardò sorpreso. Sigyn
pensò che suo padre era
pazzo: quella era una terra troppo bella per rinchiuderci un dio
sconfitto. La
nuvola di fiori tra l’azzurro e il viola le sarebbe rimasto
in mente per sempre,
unica traccia di quel viaggio assurdo. Mesi dopo, camminando attraverso
corridoi contorti e senza luce, a un tratto si sarebbe fermata, colta
dall’improvviso ricordo della distesa di giacinti e di suo
padre. E avrebbe
provato una fitta di nostalgia.
Fu il fiume che
spariva nella grotta,
l’ultima cosa che avrebbe ricordato con precisione e
nitidezza. Dopo, tutto si
sarebbe trasformato in un incubo dai contorni sbiaditi, governato dal caos. C’era un corso
d’acqua pura e
cristallina, che scintillava in mezzo ai giacinti tenuamente colorati
d’azzurro
e c’era incisa una runa nella pietra. Sigyn smontò
da cavallo per far
abbeverare l’animale e venne attratta da qualcosa. Si
avvicinò al simbolo
scolpito nella roccia e vide un lembo di stoffa che penzolava mesto tra
i rami.
Lo riconobbe come un pezzo del mantello di suo padre e
sobbalzò, di fronte al
segno che marchiava la pietra. Nelle quattro pagine che sembravano
essere lo
scherzo perfido di un editore o di un falsario, era raffigurata la
medesima incisione:
figure stilizzate create da uomini di un altro tempo. Si trattava di un
segno
magico che invitava i viandanti ad abbondare quella foresta incantata
che si tingeva
d’azzurro, persa nel cuore d’Europa, crocevia
bagnato del sangue di popoli che
non si erano riusciti a mescolare tra loro. Se solo lo avesse
ascoltato. Se
solo le rune scolpite sulla pietra non fossero state corrose dal tempo
e
occultate dalla vegetazione, forse Sigyn avrebbe potuto riconoscere i
simboli e
persino pronunciarli. Sarebbe stata in grado di ricordare vagamente
ciò che
diceva ad alta voce suo padre quando lei era bambina e, distratta,
disegnava
mondi fantastici, anziché finire nella grotta. Invece,
questo accadde.
Quello che
invece sapeva con assoluta
certezza, riguardava il tesoro che scintillava nella grotta. Sembrava
la tana
di un drago o la tomba di un re: probabilmente, era entrambe le cose.
Sfiorò
anche lei le coppe e le armi scintillanti e splendenti. Le sue dita
sostarono
un momento di troppo sulle corone e sui gioielli che appartenevano a un
altro
luogo e a un altro tempo, ammirando le cesellature finissime, la cura
degli
intarsi, la lucentezza delle gemme. Non sottrasse nulla alla pietra,
però;
mormorò a mezza voce una filastrocca antica che spiegava
perché non si dovesse
mai rubare l’oro ai mostri e agli spiriti, ma il
guardiacaccia e i servitori
che erano con lei non furono altrettanto accorti. Sigyn li
supplicò di non
trafugare niente. Ricordò loro che erano lì
unicamente per cercare suo padre
che si era smarrito, non per violare una tomba o un santuario, e forse
la sua
voce coprì il fruscio leggero che avrebbe dovuto avvertirla
del pericolo
imminente. Non l’ascoltarono e, quando iniziarono a crederle
e gettarono a
terra le coppe e le corone, le collane e gli anelli, il lupo era
già su di
loro. Il suo ringhio basso li sorprese, le sue fauci li ghermirono
dilaniando e
strappando.
Era una creatura
mostruosa, enorme,
d’altri tempi, che smentiva, con la sua presenza terribile e
la mole innaturale,
la fiducia che gli uomini avevano iniziato a maturare nella ragione e
nella scienza.
Pareva uscito da un bestiario medievale o da una leggenda antica, una
di quelle
miniate con cura e perizia da Simone Martini e dagli altri,
racchiuse nei codici medievali sparsi per le biblioteche
d’Europa, come monito,
speranza, sogno. Sigyn vide un’ombra nera e iniziò
a correre inoltrandosi nei
corridoi oscuri e senza luce del tumulo, insinuandosi ancora di
più nella
tenebra perché l’uscita le era preclusa
dall’animale. L’elettricità che
iniziava a dissipare il buio, le comunicazioni che viaggiavano da un
capo
all’altro di un filo steso dal genio e
dall’inventiva umana, le macchine che
permettevano agli uomini di spostare cose, persone e svolgere il lavoro
di
esseri senzienti: tutto svanì, nella fuga disperata da una
morte che odorava di
leggenda. Il mondo pareva essere cambiato; non esistevano
più mostri né draghi
e quelli che avevano terrorizzato il mondo erano bestie antiche vissute
in un
altro tempo, eppure Sigyn ebbe paura come se si trovasse in un racconto
arcano.
Un dolore tremendo la colse a una gamba. L’animale
l’aveva azzannata e ora
avrebbe dilaniato e sbranato anche lei. Scivolò e cadde;
sentì il fiato caldo
della bestia su di sé, la sua bava che sapeva di sangue e
carne.
Il lupo era
ormai sopra di lei,
quando una figura avanzò tra le tenebre della grotta armata
di una fiaccola
tenue. Con un ordine secco amplificato dall’eco della
caverna, bloccò
l’animale, eccitato dal sangue.
“Aspetta.”
L’uomo
si chinò e prese tra le dita
una ciocca sottile sfuggita all’acconciatura di Sigyn per
valutarne la
morbidezza. “Ha i capelli d’oro degli
Æsir,” mormorò. Fu l’ultima
cosa che la
ragazza sentì; poi svenne e tutto divenne nero –
anche i suoi pensieri.
Fu un singhiozzo
soffocato, a
svegliarla. Il lupo la inseguiva, feroce e terribile e lei continuava a
scappare, perdendosi sempre di più nelle grotte ricoperte di
gioielli, nei cunicoli
freddi e umidi dove quasi poteva sentire il sibilo spietato di qualche
creatura
ancora peggiore. E la bestia, spietata e famelica creatura, continuava
a
rincorrerla con le fauci ancora insanguinate dei suoi compagni.
Fu il crepitio
delle fiamme a tirarla
via dall’incubo. E allora, Sigyn aprì gli occhi e
capì di essere ancora viva.
Girò lentamente la testa di lato, fu scossa da un brivido.
Era in un palazzo in
rovina. Glielo dissero i soffitti altissimi e le pareti un tempo
riccamente
affrescate, ora solo incrostate di colore su cui danzavano ombre
spettrali. C’era
un uomo, poco distante da lei, accanto all’ampio camino. Era
giovane d’aspetto,
e il suo profilo era affilato e bello. Aveva gli occhi chiari e i
capelli neri,
come neri erano gli stivali, i pantaloni e la camicia che indossava.
Fissava
assorto le fiamme che ravvivava, di tanto in tanto, con un attizzatoio.
“Dove
sono? Che posto è questo? Chi
siete?” boccheggiò, ritraendosi istintivamente.
L’altro
non si voltò. “Siamo in ciò che
resta di un grande castello.”
“Mi
avete salvato,” mormorò Sigyn,
stupita.
L’uomo
posò il suo sguardo chiaro su
di lei, scrutandola alla luce rossastra delle fiamme.
“Così pare,” commentò
asciutto. Aveva una voce calda e roca, bella da ascoltare,
pensò la ragazza. Si
accorse di essere coperta con un pesante mantello di lana scura
– il suo? – e
che le sue ferite erano state medicate.
“La
mia gamba,” soffiò, scostando la
stoffa scura. Una striscia di tessuto le copriva la pelle, ma
dell’orribile
ferita che le aveva inferto il lupo non c’era quasi
più traccia. “Credevo fosse
molto più grave.”
Lui le rivolse
un’occhiata distratta,
prima di concentrarsi nuovamente sulle fiamme guizzanti. “Eri
spaventata, hai
perso molto sangue. Ma il taglio non era così
profondo.” Aveva il potere di
calmarla, notò Sigyn, come se nel suo timbro ci fosse un
qualche misterioso
incantesimo. Ma forse fu solo il disperato bisogno di sentirsi al
sicuro, che
la spinse a fidarsi delle sue parole dopo tutto l’orrore che
aveva visto.
L’uomo
alzò i suoi occhi chiari su di
lei. Erano verdi e quasi trasparenti, ma non privi di ombre torbide.
Alla luce
fioca del fuoco, forse la ragazza non se ne accorse. “Questo
posto è maledetto.
La gente lo teme, l’ha isolato dal mondo. Ha impedito che
venissero costruite
strade che conducessero qui e ha cancellato quelle antiche. Sotto
queste mura
dormono creature oscure. Perché siete venuti?”
“Cercavamo
i segni di una leggenda
antica,” mormorò Sigyn stringendosi di
più nel mantello scuro. La stoffa in cui
era avvolta odorava di cuoio, resina e pioggia. Nonostante il fuoco, il
gelo le
irrigidiva le ossa.
Lo straniero la
fissò a lungo, prima
di rispondere. “Ci sono cose che dovrebbero essere lasciate
dove sono. Porte
che non vanno aperte, oggetti che non vanno toccati. Spiriti che non
vanno
svegliati.”
Quella frase le
fece tornare alla
mente di nuovo, con orrore, l’orribile lupo e i corpi
straziati dei compagni. Un
conato quasi la costrinse a rimettere lì, di fronte allo
sconosciuto salvatore.
Ma poi si riscosse, e scoprì, dentro di sé, una
forza che non credeva possibile.
Sostenne il suo sguardo indagatore e parlò con voce
vibrante, sicura. “Siamo
fatti per scoprirlo, il mondo. Non per rimanere chiusi nelle nostre
case, a
tremare appresso a qualche vecchia superstizione,”
s’inalberò, anche se forse,
adesso, non ne era più così convinta.
“Ed
è davvero questo che volevate
vedere?” chiese lo straniero con un tono ironico e amaro
assieme.
Sigyn si
passò una mano sulla fronte
quasi volesse, con quel gesto, scacciare il ricordo delle ore appena
trascorse.
Si rese conto di non saper rispondere a quella domanda e allora ne pose
un’altra. “L’ultima cosa che ricordo
è un lupo enorme che mi stava aggredendo. Come
avete fatto a salvarmi?”
“Gli
ho sparato per allontanarlo,”
rispose l’uomo spostando con la punta del bastone alcune
braci, “e quello è
scappato.”
“E a
trovarmi?” insistette ancora,
“dite che nessun sentiero porta qui.”
“Quanta
curiosità,” commentò laconico
l’uomo, “sembra quasi vi dispiaccia che vi abbia
trovato.” Fece una pausa e un
sorriso sbieco gli attraversò le labbra sottili.
“Siete dei ladri, dei
predoni.” La sua voce mutò e divenne metallica,
severa. “Cercavate il tesoro,
volevate disturbare gli spiriti. Dicono che qui, più di
mille anni fa, fu
sepolto un dio: è il suo corredo funebre, quello che
cercavate?”
Sigyn
pensò al tesoro da cui era
rimasta incantata, ma che aveva solo sfiorato, alle leggende antiche
dietro cui
suo padre si era perso smarrendo il senno. Conosceva le storie, le
aveva
imparate da bambina. I dettagli no, le erano sfuggiti, e per questo era
entrata
nella grotta, ma il mito remoto su cui si poggiava la spasmodica
ricerca del
genitore e di tanti altri prima di lui non le era estraneo. Una fiaba,
lontana
nel tempo e nello spazio, raccontava di un trickster,
un essere magico e ambiguo dotato d’incredibili
poteri, che era stato punito per le
sue molte azioni riprovevoli e
rinchiuso in una fortezza inviolabile, protetta da mille rune. Una
tomba da cui
non sarebbe mai più potuto uscire. Condannato a una vita
sospesa in un mondo
alieno che non gli apparteneva, non avrebbe potuto far altro che guardare. Così era stato
deciso. Il
racconto le salì dal cuore alle labbra, ma Sigyn non lo
pronunciò. Amava suo
padre e aveva attraversato mezza Europa per cercarlo, ma, pur
appoggiando la
sua ricerca, non la condivideva. Lei credeva nella scienza e nelle
arti, nella
volontà dell’uomo di manipolare la natura con la
forza del proprio intelletto,
non nella storia triste e oscura di un dio bugiardo prigioniero nel
mondo degli
uomini.
“Io
no. Non sono in cerca di tesori,
ma di mio padre,” lo corresse e nel suo sguardo
brillò una fierezza che l’uomo
si sorprese nel riconoscere, perché anche lui
l’aveva provata. Prima che la sua
prigionia fuori dal tempo avesse inizio, nei suoi occhi aveva
scintillato una
luce simile. Osservando la ragazza, si avvide che le tremavano le mani
forse
per il terrore che le aveva instillato il lupo. Eppure, nonostante
questo,
proseguì.
“Tuo
padre è un ladro,” sentenziò
sicuro, le labbra stirate in un smorfia di dispetto. “Si
è intrufolato nella
grotta per depredarla, spinto anche
dalla sete di conoscenza, ma, alla fine, l’avidità
ha prevalso. Ha rubato.”
Sigyn
balzò in piedi. “Voi sapete
dov’è! Chi siete, che gli avete fatto?”
L’altro
la prese per un braccio e la
trascinò in uno dei molti corridoi della fatiscente dimora.
La ragazza tentò di
fuggire e di divincolarsi, ma la presa dell’uomo era ferrea e
tentare di scappare
si rivelò inutile. La condusse attraverso un cunicolo
più scuro degli altri
ignorando le sue proteste e le sue grida, finché non
giunsero davanti a una
cella malamente illuminata; solo allora la lasciò andare.
Oltre le grate,
riverso a terra e scosso dalla febbre e da una tosse violenta,
c’era un uomo
che si stringeva in un mantello lacero e gemeva debolmente. Accanto a
lui,
scintillava una rosa fatta d’oro.
Nonostante la
luce fioca, Sigyn
riconobbe il prigioniero e si aggrappò alle sbarre. Un
terrore senza nome
l’avvolse di fronte a quella vista spaventosa.
“Padre! Padre svegliatevi! Sono
io, sono venuta a cercarvi!” gridò. Vide
l’anziano genitore che si riscuoteva
debolmente e si sfregava gli occhi e il suo cuore si spezzò
nel vederlo
improvvisamente così fragile e vecchio. Si rese conto, per
la prima volta nella
sua vita, di quanti pochi anni gli spettassero ancora vivere.
Percepì che la morte
lo avrebbe portato via presto, troppo, come già si era presa
sua madre. Con il
viso rigato da lacrime di pietà e di rabbia, si volse verso
l’uomo vestito di
nero e lo fissò con occhi ardenti. “Che gli avete
fatto? Chi siete?”
Un ghigno.
“Lo vedete da voi. Punisco
un ladro,” le rispose, senza celare affatto la punta di
divertimento che quella
scena drammatica gli instillava.
Il vecchio,
intanto, si era riscosso.
Resosi conto con orrore che la voce della dolce figlia non era un
miraggio o un
sogno, ma realtà, si tirò in piedi nonostante le
gambe malferme e si avvicinò
alle grate prendendo tra le sue le mani morbide e sottili della
ragazza. “Sigyn,
vai via, ti prego! Scappa da questo luogo, corri, presto!
L’ho trovato! È
ancora qui, da mille anni…” boccheggiò.
Singhiozzando,
lei tentò di
abbracciarlo nonostante le sbarre. “Padre, non ti sforzare!
Ti porterò via da
qui, verrai con me a casa!” promise.
Gli occhi del
vecchio esploratore si
riempirono d’orrore. “No! Tu devi fuggire, devi
andare via immediatamente. Io non
posso, il mio destino è rimanere qui, come tutti gli
altri.” Sbatté le
palpebre, confuso. “Non ho saputo resistere al
tesoro,” ammise con una punta di
dispiacere, chinando la testa verso la rosa d’oro ancora a
terra. “Ma tu,”
riprese sfiorando la guancia serica e umida della figlia, “tu
devi tornare
indietro. Non può seguirti… guarda
l’incisione, Sigyn. Questa è la sua casa.
Guarda l’incisione, ti prego!”
La ragazza
scosse la testa, incapace
di comprendere a cosa si stesse riferendo suo padre. Si
voltò per dare un nome alla
paura che annichiliva il pensiero dell’altrimenti brillante
genitore, per
capire cosa avesse potuto ridurre, nel giro di pochi giorni,
l’uomo in quel
terribile stato. Di fronte alla cella, c’era
un’incisione; una versione
conservata meglio di quella che aveva visto appena fuori la grotta. Le
si
avvicinò lasciando a malincuore le dita nodose di suo padre
e ne fu attratta al
punto da sfiorarne i contorni, come se in quell’intaglio
fosse nascosto un
potente incantesimo. L’uomo in nero non disse nulla. Si
limitò a fissarla con
le mani incrociate dietro la schiena avvicinandosi, però,
con passo felpato fin
quando non le fu alle spalle.
Tre figure erano
state disegnate con
tratti spessi. Sigyn sfiorò con dita incerte la pietra
lavorata, seguendone i
contorni. Sentì la voce di suo padre minacciare e
supplicare, ma ogni cosa
svanì mentre toccava l’incisione. Il primo era un
lupo, di stazza enorme e
dalle fauci pronte ad azzannare.
“Fenrir,”
le mormorò all’orecchio lo
straniero.
Il secondo era
un serpente che aspettava
le sue vittime nelle profondità di un lago.
“Jormungander,
il drago marino.”
Il terzo, era la
figura stilizzata di
un uomo. E Sigyn, sfiorandone la sagoma, comprese a quale fine fosse
andata
incontro con suo padre e le si gelò il sangue nelle vene.
L’uomo
in nero le posò una mano sulla
spalla, accarezzando appena una delle sue ciocche d’oro.
“Se pronuncerai il mio nome,
spezzerai l’incanto,”
l’avvertì avvicinandosi e sfiorandole con le
labbra il collo.
Sigyn
tremò per la vicinanza
improvvisa e per il terrore, ma non si mosse.
“Perché ancora non mi hai
uccisa?” domandò invece con un filo di voce.
“Abbiamo
avuto già il nostro tributo
di sangue,” mormorò il dio degli inganni.
“E tu non hai tentato di rubare
niente.”
Lei
deglutì. “Non mentirmi,”
soffiò,
supplicò, senza voltarsi.
“Una
debolezza,” le sussurrò
all’orecchio. “Sono rinchiuso qui da molto tempo.
Troppo.”
Sigyn si
girò lentamente e riconobbe
nei lineamenti affilati e belli dello straniero vestito di nero quelli
dell’iscrizione che aveva scorto nella grotta e non aveva
saputo decifrare e
che ora aveva ritrovato lì, nel labirinto di corridoi e
cunicoli di quel
castello fatiscente.
“Liberalo,
ti prego. È vecchio e
malato,” lo implorò, pallida in volto.
Loki
aggrottò le sopracciglia. “Ha
sbagliato,” sentenziò perfido.
“Come
tutti. Come te.”
L’Ase
le scoccò un’occhiata gelida,
terribile, fredda come una lama di ghiaccio. “Come osi?
Ricorda il mio nome.”
“Lascialo
andare,” lo supplicò ancora
tremando, “la rosa la prese per me, gliela chiesi io. La
colpa è mia, solo
mia.”
“Morirà
qui perché è un ladro.”
C’era
una nota di compiacimento,
nella voce arrochita del dio degli inganni che non sfuggì
affatto a Sigyn. Di
fronte alla possibilità che la spietata creatura potesse
sfogare maggiormente
la sua ira sul genitore, ebbe uno slancio di folle coraggio.
“Prendi me.”
Lo aveva detto
davvero, eppure la sua
voce le risultò estranea, come se fosse stato qualcun altro,
a pronunciarla.
Il dio Loki si
volse verso di lei
inarcando un sopracciglio, chiaramente sorpreso da quell’atto
sconsiderato. “Il
tuo sacrificio è folle e inutile,”
l’avvertì maligno. “Tu sei giovane e non
hai
commesso alcuna colpa. Lui è vecchio, gli restano comunque
solo pochi anni da
vivere. Perché ti vorresti immolare per lui? Che vantaggio
otterresti,
rinunciando alla tua vita? Moriresti qui tra molti anni da oggi. Non
è questo
quello che desideravi, per te stessa. Io lo so, lo vedo.”
Sigyn si accorse
che grosse lacrime
avevano preso a rigarle le guance. “Non posso lasciarlo in
queste condizioni,”
spiegò con voce rotta. “Prendi me. La mia vita in
cambio della sua. È uno
scambio equo, un accordo. Una vita per una vita. A te non
cambierà niente.”
“Una
vita per una vita,” le ripeté
l’ingannatore piegando leggermente il capo di lato.
“Non sai a che stai
rinunciando. Il tuo sacrificio è inutile, doloroso,
francamente stupido,”
sentenziò a denti stretti. “Perderai per sempre la
tua libertà e per cosa? Per
un vecchio pazzo che ha sempre preferito leggere le sue carte sdrucite
che
pensare a te? A un folle che ha dilapidato le sue sostanze per cercare
la mia
tomba maledetta?” Una risata fredda e secca gli scosse il
petto. “Io sono il
dio del caos e degli inganni. Sono il mostro delle fiabe che vengono
raccontate
ai bambini, sono la bestia che ha sconvolto Asgard e Midgard e tutti i
Nove
Regni. Resterò qui fino al Ragnarok.”
“Da
quando a Loki interessa il
destino di una mortale?”
L’Ase
scosse la testa. “Tu non sai
niente. Per gli abitanti di Midgard ho fatto tanto. Molto tempo fa,
forse
troppo, donai agli uomini il fuoco e il
bell’aspetto,” rammentò, stringendo le
palpebre come se cercasse, nella sua mente contorta, il ricordo perduto
da
associare a quell’ammissione. Si riscosse, un lampo divertito
gli attraversò lo
sguardo. “E sia. Questa è la mia prigione e,
d’ora in poi, sarà anche la tua.
Accetto lo scambio.”
Continua...
(lunedì 10)
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