Heart burst into fire_Episode 20
Titolo: Beata
innocenza
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2890 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[
FLASH CONTEST ][ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
20: “BEATA
INNOCENZA”
«‘Ka-san?»
Jason mi chiamò, la vocina ovattata dall’acqua che
scrosciava.
Mi trovavo sotto la doccia, costretto ad
essermi svegliato presto per
andare a
lavoro anche se, per prima cosa, avrei dovuto accompagnare Jaz a
scuola. Sciacquatomi un occhio in cui era finita un po’ di
schiuma,
chiusi l’acqua e,
ravvivandomi i capelli all’indietro per evitare che si
incollassero alla
fronte, arraffai il primo asciugamano che trovai e me lo legai alla
vita, uscendo
dalla
doccia per andare dritto dritto ad aprire la porta. Non ebbi nemmeno il
tempo di farlo che un tornado in pigiama mi si
catapultò
addosso.
«Ehi, ehi, così ti
bagni», lo ammonii
divertito, allontanandolo un po’ da me per
issarlo sotto le braccia, così da poterlo vedere meglio
in viso. Aveva un’espressione imbronciata e il musetto ancora
sporco
di marmellata alle
ciliegie. «Che c’è, Jaz?» gli
chiesi,
riuscendo solo a farlo imbronciare di più.
Si strofinò il viso con una
manina per ripulirselo alla
bell’e meglio, ma riuscì solo ad allargare la
macchia. «La vecchia signora che sta di là ha
detto una
brutta cosa», cominciò, cercando
di gettarmi le braccia al collo per avvicinarsi di più a me.
Non glielo permisi subito per evitare
che si bagnasse
però, vedendo il suo viso intristirsi, fui io stesso a
portarmelo al
petto. Mugugnò un po’ il suo disappunto al
contatto con
la pelle umida, ma poi ci
strofinò contro il viso, portandosi le braccine al petto per
poggiare le mani
sul mio. «Che ti ha detto la signora, Jaz?» provai
a farlo
parlare, visto che
l’espressione era sempre più triste. Di solito
gliela
vedevo solo quando c’entrava Edward: in quelle
rare occasioni in cui veniva a trovarci e poi doveva di nuovo scappare
a
Central.
Cominciando a giocare con le goccioline
d’acqua sul mio
petto,
Jaz chinò il
capo, lasciando che la frangetta mora gli nascondesse gli
occhi. «Mi ha chiesto dov’era la mia
mamma»,
spiegò, percorrendo con un dito un
rivoletto. «Ho detto subito che sei tu, ma
lei ha detto di no». Gli occhietti azzurri si alzarono per
incontrare i miei, tristi, e anche le sopracciglia erano corrugate.
«Ha detto che tu non sei la mia mamma», concluse
con una
nota di dolore.
Fui io, però, ad addolorarmi.
Quello era
proprio un brutto discorso da affrontare. Con Jaz tra le braccia,
uscii dal bagno e mi fermai nel corridoio vicino alla cucina, dove
avrei potuto essere
sentito
senza il rischio d’esser visto. «Può
andare, signora Arman, grazie per aver badato
a Jaz», feci, sentendo lei
fare un po’ di rumore con i piatti usati per la colazione.
«Scusi se non
l’accompagno alla porta, ma non sono presentabile».
Sentii distintamente il suono
d’una risatina, quasi
maliziosa. Proprio una vecchietta arzilla, non
c’era
che dire. «Oh, non si preoccupi, signor Mustang»,
rispose
civettuola. «É un piacere
occuparmi di quell’angioletto, chiami pure quando
occorre». Stavolta la sentii posare gli ultimi piatti per
sbucare
nell’altro corridoio,
collegato all’ingresso.
Chiusa finalmente la porta quando fu
uscita, mi arrischiai ad
entrare in
cucina, con Jason ancora fra le braccia e i capelli che pian piano si
asciugavano da soli. Misi il mio figlioletto in piedi su una
delle sedie, in modo che io potessi guardare
lui e
viceversa. L’espressione triste, però, non aveva
abbandonato
il suo musetto. «Jaz, ti ricordi il discorso delle
‘Ka-san
maschietto e delle ‘Ka-san
femminucce?» cominciai,
vedendolo annuire piano a sguardo chino. Sospirai, poggiandogli le mani
sulle spalle esili non prima
d’essermi sistemato
l’asciugamano. «Tu la mamma ce
l’hai, solo che
per gli altri è un papà»,
provai
a spiegarmi con parole semplici, vedendolo corrugare un
po’ le fini
sopracciglia scure. Da come mi guardò, capii che ero stato
tutt’altro
che chiaro.
«Ma perché se sei
la mia ‘Ka-san, gli
altri credono che sei il mio
‘To-san?» mi chiese difatti, gonfiando un
po’ le guance paffutelle. Ecco che mi stavo nuovamente
impelagando in milioni di domande. Era un po’ troppo curioso
per
essere un bambino
di cinque anni, secondo i miei modesti canoni.
Adocchiai l’orologio, sperando
che fosse almeno quello a
salvarmi, purtroppo per me, però, anche il tempo sembrava
non essere
dalla mia parte. Mancava ancora più
d’un’ora prima
dell’inizio della scuola e quasi due
dall’inizio del mio turno. In poche parole, ero fottuto.
«Allora,
‘Ka-san?» mi
richiamò, tirandomi una ciocca di capelli e, lagnandomi, gli
feci lasciare la presa.
«Jaz, questa è una
cosa che per adesso non posso
spiegarti», mi giocai
quella carta, sperando che almeno per quel giorno accantonasse il
discorso. Speranza vana, in realtà.
«Ma perché
no?»
Alzai lo sguardo al soffitto, esasperato.
«Perché non posso, Jaz, sei ancora troppo
piccolo», mi lasciai sfuggire, e non l’avessi mai
detto. Dovetti subirmi una lamentela alla Edward Elric.
«Io non sono piccolo,
‘Ka-san!»
esclamò, agitando le braccine e rischiando
di cadere, ma per fortuna lo trattenni svelto, poggiandogli un dito
sulle labbra.
«Sei grande, sei
grande», mi affrettai a
dire. «Ma non posso spiegartelo
lo stesso».
Jaz si imbronciò nuovamente e
incrociò le braccia al
petto, fissando i suoi occhi
azzurri in giù. Mi ricordò quasi dolorosamente me
da bambino, con
quell’espressione da cane
bastonato. «Non mi dici mai niente»,
riattaccò,
distraendomi dai miei pensieri.
«Ti dirò tutto
quello che vorrai quando sarai
cresciuto», gli promisi nello scompigliargli i capelli,
appuntandomi di non fargli nessun discorso sul sesso. Quello
l’avrei malignamente lasciato fare ad Edward se
fossimo tornati in
tempo a Central.
Anche se non del tutto convinto, alla
fin fine Jaz annuì,
cosicché potei finalmente
portarlo fino in camera per prendere dei vestiti per me e per lui prima
di
dirigermi in bagno. Lottai non poco per farlo entrare nella vasca,
ritrovandomi a fare
l’ennesima
doccia fuori programma. E fortuna che non mi ero ancora vestito, eh.
Ormai fradicio, mi scompigliai i capelli per liberarli
dall’acqua in eccesso,
voltandomi un po’ per cercare dell’altro shampoo e
la saponetta.
Una domanda di Jaz, però, mi
lasciò con entrambi
i prodotti a mezz’aria una
volta trovati. «Ma tu e ‘To-san fate il bagno
insieme,
‘Ka-san?» Da dove nascevano certi quesiti? Mi
voltai come
un automa, ancora una volta senza risposte. Era vero, certo, quando
Edward veniva a trovarci facevamo il bagno
insieme... e
non solo per lavarci. Ma questo non spiegava di certo il
perché
della domanda, tanto che mi ritrovai
a chiederglielo. Peggio d’un bambino anche io. «Gli
altri
bambini a scuola dicevano che i ‘To-san
e le ‘Ka-san fanno il bagno
assieme», rispose, come se quello spiegasse tutto.
«Anche tu e ‘To-san?»
I bambini non sono
più quelli di una volta,
quella fu l’unica cosa
razionale che riuscii a pensare. Già a cinque anni a
chiedersi
certe cose. Come cambiavano i tempi! Mio malgrado, quindi, mi ritrovai
ad arrossire. Maledetto il mio ventenne che si trovava fuori dai guai,
adesso! «Jaz, lo sai che queste cose non si
chiedono?» feci, sperando che mi
prendesse in parola. Mi sarei imbarazzato troppo a rispondere,
affermativamente o negativamente che fosse.
Jaz corrucciò il visino,
giocando distratto con la schiuma
che lambiva la
vasca. «Che ho chiesto di brutto?» mi
domandò
ancora, mandandomi
all’esasperazione. Non ce l’avrei mai fatta a
vincere contro di lui e i suoi
occhioni azzurri, inutilmente vero.
«Non hai chiesto nulla di
brutto, ma è una cosa
che...» mi interruppi, cercando
le parole adatte. «É una cosa che devono sapere
solo gli Oto-san e le
Oka-san». E non avevo tutti i torti, anche se lui si
imbronciò maggiormente, corrugando le sopracciglia.
«Ma se lo devono sapere solo
le ‘Ka-san e i
‘To-san, perché gli altri bambini
lo sanno?» chiese.
Ecco, ad una logica simile non avrei
saputo rispondere. Mi
grattai il collo, ormai senza sapere come poter sfuggire a quella
situazione. Perché diavolo se n’era uscito con
certi
quesiti,
quella mattina? «Stammi a sentire, Jaz», cominciai,
arrampicandomi
ormai sugli specchi. «Sono
solo le ‘Ka-san femminucce che fanno il bagno con i
‘To-san maschietti,
capito?» Provai a mettergliela su quel piano, sempre con la
speranza che la smettesse di fare domande e si
lasciasse
lavare i capelli in tranquillità.
«E
perché?» fu invece la sua risposta
alla mia affermazione.
Mi lasciai cadere sul pavimento bagnato
con un lamento,
girandomi di
schiena per adagiarmi alla vasca e reclinare la testa
all’indietro, in modo che
potessi guardarlo bene senza perderlo quindi di vista. I miei capelli
sfioravano appena il pelo dell’acqua su cui
galleggiava la
schiuma. «Questo lo capirai tra un paio
d’anni»,
me ne uscii, vedendo il suo faccino
atteggiarsi ad un’espressione vagamente perplessa e
incuriosita. «Quando avrai
la mia età o quella del tuo Oto-san, scoprirai che
è molto divertente fare il
bagno con una femminuccia».
«E non lo posso scoprire
adesso?»
Sorrisi un po’ a quella sua
constatazione. Ah, beata
innocenza. «Adesso no, più in
là»,
dissi, e lui si fece pensoso.
«Quindi, se è
divertente, le ‘Ka-san e i
‘To-san giocano?» mi chiese ancora, e se
non avesse avuto soltanto cinque anni avrei detto che la sua era
malizia.
Mi ritrovai a ridacchiare, alzando un
braccio per scompigliargli i
capelli
bagnati e far schizzare appena qualche gocciolina d’acqua da
tutte le
parti. «Una cosa del genere», feci, sentendo le sue
manine
fra i miei, di
capelli.
«E come giocano?»
cominciò a passare le
dita fra ogni ciocca, prendendo di
tanto in tanto la schiuma per buttarcela sopra insieme
all’acqua. «Giocano come
quando tu giochi con me e i miei pupazzetti,
‘Ka-san?»
Eh, aye... proprio una beata innocenza.
Tirandomi su con i capelli ormai nuovamente bagnati, mi apprestai a
fare lo
stesso con i suoi, vedendolo socchiudere gli occhi infastidito quando
gli
massaggiai la cute con le dita. «Diciamo di sì,
Jaz», esordii
tranquillamente, sebbene di tanto in tanto mi
scappasse qualche risatina per la mia bugia a fin di bene che lui
cercava di
capire.
Jason diede finalmente tregua alle sue
domande, permettendomi di fargli lo
shampoo; gli passai il sapone, così che
potesse cominciare
a lavarsi almeno un po’ per benino, anche se dopo poco
cominciò a giocare con la schiuma, coinvolgendomi
quasi senza che me
ne accorgessi. Più bambino di lui, ne presi una bella
manciata e me la
passai in viso,
soffiando via il restante incitato dalle sue risate divertite e le sue
mani che
battevano a pelo d’acqua.
«Come sei buffo,
‘Ka-san!»
esclamò giocoso, allungando le braccia per togliermi
la schiuma dal naso e passando di nuovo le dita fra i capelli, dove
ne era
caduta un po’. Ridacchiando, riempii anche lui di schiuma,
vedendolo arricciare il
nasino prima
di strofinarsi la faccia nel tentativo di pulirsela.
Il resto del tempo se ne andò
più o meno
così, tra nuvole di schiuma e risate. E, beh... e
l’acqua
sul pavimento. Fu quasi con rammarico che dovetti tornare alla
realtà,
ricordandomi di scuola
e lavoro. Sciacquai Jason da tutta la schiuma che avevamo creato e di
cui si era
praticamente vestito, tirandolo fuori dalla vasca per avvolgerlo
nel suo
accappatoio. A misura di bambino, ma comunque grande. Ed era lui a
sembrare buffo, adesso. Buffo, aye, ma terribilmente dolce.
Cominciai a tamponargli i capelli con un
asciugamano, liberandoli
dall’acqua in
eccesso prima di passare ad asciugarlo completamente senza che si
muovesse come suo solito. Aveva il visino rilassato, come quando era
pronto per il suo
pisolino. «Ehi... hai sonno?» gli chiesi, mentre
gli infilavo
la maglietta.
Con una manica sì e una no,
lui annuì,
strofinandosi un occhio
con il braccio
libero. Mi intenerii alla vista della sua boccuccia
all’ingiù, espressione che adottava
solo quand’era stanco; risi e continuai a vestirlo, passando
presto a me mentre lui se ne
stava
seduto sulla tavoletta del water, a sbadigliare di tanto in tanto.
Infilati i boxer, cercai il mio pantalone, fermandolo alla vita con
la
cintura una volta indossato. Mi stavo apprestando a chiudere la camicia
quando Jaz mi
richiamò di
nuovo.
«Lo voglio anche io,
‘Ka-san»,
mormorò, con la vocina ammorbidita dal sonno.
Lo guardai senza capire, chiudendo gli
ultimi bottoni. «Che cosa, Jaz?» chiesi,
riprendendolo in
braccio, e lui si sporse un po’ oltre la mia spalla,
indicando un punto
dietro di me. Quando mi voltai, non potei evitarmi di ridere
divertito, recuperando
il mio orologio d’argento dal lavandino. «Ti
piace?» chiesi ancora, porgendoglielo.
Jaz cominciò a cincischiarci
e lo caricò, premendo il pulsante
sopra di esso per
aprire il coperchio e sbirciare al suo interno prima di chiuderlo con
uno
scatto e aprirlo di nuovo. «Mi piace tanto tanto»,
ammise, alzando gli occhi
azzurri verso di me. «Me lo
regali?» Lo disse con un tono così speranzoso
che mi dispiacque
dovergli negare
quella richiesta.
«Non posso, Jaz»,
gli risposi, corrugando
un po’ le sopracciglia. «Non
è di Oka-san».
Con il visino imbronciato, lui
tornò a studiarselo, passando un
dito sull’incisione
dell’araldica del Comandante Supremo. «E di chi
è?» mi domandò mesto.
Mi incamminai verso la porta con lui in
braccio, sospirando.
«É del posto dove lavoro, mi serve», gli
spiegai con parole semplici, sentendo
nuovamente i suoi occhi su di me. «Senza quello Oka-san non
può andarci». Gliela buttai sul facile, vedendolo
annuire
mogio. Si attorcigliò la catenella intorno ad un dito,
riporgendomelo subito
dopo.
«‘Ka-san...» chiamò ancora,
concentrandosi sui bottoni della mia camicia. «Ma
se non ci vai una volta a lavoro... ti sgridano?»
Mi guardò con i suoi occhioni
azzurri e non potei
resistere.
Lo abbracciai più stretto, baciandogli con dolcezza la
chioma nera mentre
sentivo un sorriso andare ad incurvare le mie labbra. Ero io quello che
non voleva avere figli una volta, eh? «A dire il vero non lo
so,
Jaz», semplificai il
tutto, sentendo le sue manine
aggrapparsi alla stoffa, come se non volesse lasciarmi.
«Vuoi stare con me?»
mi chiese con voce morbida.
Come avrei potuto resistere ad una
simile richiesta fatta con quel
tono? Se ci fosse stato Edward, avrebbe sicuramente detto che lo
viziavo
troppo. «E come fai per la scuola?» feci invece io,
anche
se sentivo benissimo che, se
l’avesse chiesto, non l’avrei portato per restare
quel giorno con lui. Dovevo essere una madre
più presente,
in fondo. Almeno quando potevo. Un giorno o due a casa da lavoro e
scuola non avrebbe di certo fatto
crollare
il mondo.
«Non posso restare a casa con
te?» ed ecco la
domanda che aspettavo.
Gli sorrisi raggiante, come se volessi
rassicurarlo. Se quel
giorno non mi sarei presentato, il Quartier Generale non sarebbe
andato
a rotoli, no? La mia presenza non era poi così essenziale o
di
vitale
importanza, visto che
scaldavo una sedia e riempivo scartoffie quando mi andava. Nemmeno in
missione mi mandavano più, quindi
figurarsi. «Sai che facciamo, Jaz?» gli dissi,
dirigendomi
con lui
all’ingresso. «Visto che siamo vestiti, ce ne
andiamo al parco, ti va?»
Il suo viso, a quelle mie parole, si
illuminò
di un sorriso. «Sì!» esultò
felice,
gettandomi con impeto le braccia al collo e
scoccandomi un sonoro bacio sulla guancia. «Grazie,
‘Ka-san!»
Vedere quegli sprazzi di allegria e
gioia mi scaldava il cuore.
Lo distraeva, almeno in parte, dalla situazione che stavamo
affrontando,
dato che
vivevamo separati da Edward, in un posto a parecchie ore di distanza.
Uscimmo dal palazzo, lasciandoci andare entrambi a risatine divertite,
uno più
bambino dell’altro. La giornata era una delle più
belle e
assolate che avessi
mai visto nell’afosa
South City, ideale per una passeggiata nel parco fra il verde della
natura. Mi meravigliai non poco a vedere quante coppie fossero
lì
presenti già dal
primo mattino, persino genitori seduti sulle panchine ad osservare i
figli che
giocavano poco distanti. Avevano fatto tutti la mia stessa pensata, a
quanto sembrava.
«Mettimi giù,
‘Ka-san, voglio andare
sullo scivolo!» esclamò Jaz,
attirando anche l’attenzione di una coppia che stava passando
lì vicino. E fui sicuro che quello che mi lanciarono fu uno
sguardo stranito...
Mi chinai per permettere a Jason di
poggiare i piedini a terra,
mettendogli le mani sulle spalle prima di puntellarmi sulle ginocchia,
così da poterlo
guardare meglio in viso. «Jaz, come ti ho detto che devi
chiamarmi fuori
casa?» lo ammonii, ma non
in tono severo.
Abbassò lo sguardo sui
ciottoli bianchi, portandosi le
braccia dietro alla
schiena. «‘To-san», rispose, tornando a
fondere il
suo cielo con la mia antracite. «Però...
perché?»
Oh, no... rieccolo con le domande. Gli
accarezzai la testa
amorevolmente, sorridendogli. «Te lo spiegherò
poi»,
mi risolsi a
dire. «Ora vai a giocare, coraggio».
Con quelle paroline magiche, riuscii ad
evitarmi un’altra
conversazione fatta
solo di quesiti. Quando gli venivano certe curiosità non
sapevo
proprio dove
sbattere la testa. Seguii Jason con lo sguardo mentre lo vedevo
raggiungere le giostrine,
avvicinandomi a mia volta al piccolo spazio gioco prima di
lasciarmi cadere
seduto sulla panchina. Come al solito fu subito attorniato dalle
bambine lì
presenti, e quasi mi
sembrò che se lo litigassero. Difficile non sorridere, a
quella
vista. E quasi fui sul punto di scoppiare a ridere e di farmi guardare
male
dalla donna
che si era appena seduta quando fu lui stesso a scegliere, prendendo -
guarda
caso - la mano di una biondina.
Beata innocenza avevo
detto, eh?
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Farai
felice
milioni di scrittori.
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