«La
prossima
settimana?»
«La
prossima settimana.»
«Io
e te. Da soli.»
«Esatto,
fratellino.»
«Tu
sei pazza.»
«No,
ho solo un biglietto in più, non so cosa farne e a te farebbe bene
staccare un po'. Oh, Harry, coraggio, andiamo... Ti serve una
vacanza, devi riposarti, rilassarti, lasciarti un po' andare. Da
quanto non ti prendi una bella sbronza? Dai tempi del college? Ti sei
laureato due anni fa, hai venticinque anni e ti comporti come se ne
avessi settantasette!»
«Gemma...»
«Fratellino...»
«Ho
un libro da scrivere, circa un centinaio di problemi da risolvere e
non posso proprio andarmene da New York in questo momento. Mi
dispiace, ma sarà per un'altra volta, sorellina. E poi non li ho
ancora compiuti venticinque anni... Stronza!»
«Ma
se hai il blocco dello scrittore da mesi e non riesci a scrivere
nulla che ti soddisfi davvero! Sono anni che ti sento parlare di
questo libro e non scriverai in una settimana quello che non hai
scritto in tutto questo tempo, è praticamente impossibile! Il tuo
editore può aspettare – accidenti! – sei tu la diva qui, Harry,
non lui! Il tuo compleanno è la prossima settimana, Harold, e
festeggeremo insieme, ma non qui a New York!»
«Gem,
ho detto no, non insistere.»
«Io
insisto, Haz, insisto eccome. Portati il computer, quaderni,
block-notes, diari segreti, qualsiasi cosa. Scrivi in bagno mentre
fai la pipì o mentre facciamo colazione; scrivi sui muri, scrivi
dove e quando vuoi, ma vieni con me! I tuoi cento problemi non
andranno da nessuna parte mentre saremo via, te lo prometto.»
«Questo
sì che è davvero assicurante.»
«Devo
prenderlo come un un sì?»
«Mi
stai dicendo che accetteresti un no come risposta?»
«Esatto,
non puoi dirmi di no, caro il mio Harry, ma vedrai che ci divertiremo
io e te, insieme, a San Francisco!»
«Gemma,
io detesto San Francisco.»
EIGHTEEN
"Our
love was mad for movie screens"
Sette
e cinquantatrè del mattino ed Harry Styles pensava alla resilienza.
Se solo l'avesse avuta anche lui la capacità di far fronte in
maniera positiva agli eventi traumatici della sua vita, sicuramente
quei suoi cento problemi non sarebbero mai esistiti (o forse
sarebbero stati solamente trenta o forse quaranta), ma in realtà
negli anni era giunto alla cinica convinzione che la resilienza non
esistesse e che bensì si trattasse solamente di un finto concetto
filosofico invetato su tumblr da ragazzine con la mania dei tatuaggi.
Erano trascorsi due giorni dalla telefonata di sua sorella, due
giorni che aveva vissuto all'insegna del panico cercando di
rassegnarsi all'idea della sua imminente partenza per San Francisco,
senza riuscire davvero ad esserne realmente entusiasta. Non gli
piaceva l'idea di lasciare New York per più di una settimana
andandosene dietro a quella iperattiva di sua sorella e sarebbe
volentieri rimasto a casa per portare avanti il suo romanzo. In
realtà un romanzo non esisteva e nessun editore gli aveva offerto un
contratto; Harry correggeva bozze per una casa editrice
semi-sconosciuta che pubblicava romanzetti di dubbio gusto e romanzi
rosa che non avrebbe letto nemmeno la più disperata delle
casalinghe. Harry però (proprio perché nelle storie più belle c'è
sempre un però) stava cercando di riscrivere la sua prima storia,
quella che aveva buttato giù tra una notte bianca e una giornata di
studio quando era ancora al college. All'epoca ancora scriveva
servendosi di un quadernetto rilegato in pelle e l'idea di scrivere
al computer gli provocava una nausea così forte da poter fare
concorrenza a una donna incinta. Aveva scritto lì, in quel piccolo
diario di bordo – come lo chiamava suo nonno – la sua
prima storia, quella che un giorno avrebbe tanto voluto pubblicare,
ma non aveva idea di dove fosse da quando il suo quaderno era andato
perduto assieme ad altri foglietti che conservava gelosamente come
reperti da museo. Aveva cercato ovunque, in ogni angolo della sua
casa e in ogni scatolone senza mai riuscire a trovare il suo piccolo
ma preziosissimo tesoro. Pensò di averlo perso durante il trasloco o
in aereo e trascorse intere giornate al telefono con l'agenzia di
traslochi e la compagnia area, chiedendo se per caso qualcuno avesse
ritrovato un quaderno nero, ma ben presto dovette rassegnarsi al suo
destino e venne a patti con l'idea di averlo perduto al college,
ovvero dove chiunque avrebbe potuto trovarlo e ridere di lui e della
sua storia. Per circa un anno mezzo si era arreso e aveva creduto che
tutto fosse perduto per sempre ma, correggendo tutte quelle bozze
prive di valore, se era ingenuamente convinto di poter riscrivere il
suo romanzo e di inviarlo ad alcune case editrici con le quali era in
contatto per il suo lavoro. Poteva farcela, si era detto una mattina
alle ore sei dopo una sbronza memorabile (sua sorella infatti si
sbagliava a pensare che la sua ultima sbornia risalisse ai tempi del
college) perché, se tutte quelle persone prive talento riuscivano ad
essere pubblicate, ce l'avrebbe fatta anche lui che di telento ne
aveva eccome (o almeno così gli avevano detto e ripetuto in tanti).
Così aveva acceso il pc, aveva creato un documento senza nome, lo
aveva aperto ed era rimasto a fissare la pagine bianche per ore,
senza scrivere nemmeno una parola. In quel momento realizzò che non
sarebbe mai riuscito a riscrivere la storia così come l'aveva
partorita a soli diciotto anni e questo lo spaventava come la
peggiore delle sue paure – il buio – , allontanandolo per
sempre dal suo sogno di diventare uno scrittore. Per giorni interi,
dopo quella mattina in cui aveva scoperto di non riuscire più a
scrivere, aveva fissato la pagina bianca provando a scribacchiare
qualche parola fugace che cancellava subito dopo, pentendosi di
averci provato e soprattutto di aver fallito come il più stolto
degli ingenui. Ogni giorno, ogni notte, per mesi e mesi aveva provato
a riprendere in mano quella storia che aveva perso, ma cancellava
sempre tutto, ancora rincorso dal ricordo della prima stesura che
aveva amato in ogni sua singola parte. Per tutto quel tempo non aveva
fatto altro che tentare di rimettersi in gioco, sicuro al cento per
cento di poter scrivere una versione migliore della precedente. Non
ci era riuscito. Aveva sempre eliminato tutto, giorno dopo giorno,
parola dopo parola, frase dopo frase, sino ad arrivare al momento in
cui Gemma lo aveva chiamato per costringerlo a partire insieme a lei.
Dire di no a sua sorella era difficilissimo, se non impossibile, e
proprio per questo motivo Harry si trovava ad affrontare un viaggio,
che non aveva mai avuto l'intenzione di fare, verso una città che
probabilmente era anche l'unica in tutti gli Stati Uniti d'America
che non riusciva proprio a farsi piacere: San Francisco.
California,
terremoti, la faglia di Sant'Andreas, catastrofi naturali, pioggia,
nebbia, maltempo e il Golden Gate Bridge che nei film ad alta
tensione crolla sempre; San Francisco per Harry era l'emblema del
panico e del disagio, il suo, anche se qualche anno prima, quando
ancora andava al college, c'era stato e si era anche divertito molto,
così tanto che in futuro aveva rinnegato – arrivando anche ad
odiare – quei momenti di pura felicità e autentica spensieratezza.
Ancora
a letto – troppo pigro per alzarsi – e fingendo di non badare
allo stato di disordine nel quale la casa perpetrava al di là della
sua coltre sicura di coperte e lenzuola, Harry si lamentava della
piega vergognosa che aveva preso la sua vita. Un viaggio a San
Francisco che non voleva fare, un libro da riscrivere, orribili bozze
da correggere, una casa da riordinare, tre lavatrici da mandare e una
sorella da ospitare. Gemma viveva nel New Jersey (ed Harry non andava
mai a trovarla perché per un newyorkese, anche se di adozione, era
come andare nel terzo mondo) e aveva di sua spontanea volontà deciso
– ovviamente senza prima chiedere il permesso a lui – di invadere
letteralmente casa sua per i giorni precedenti alla loro partenza,
così che il fratello non potesse farla franca e quindi decidere di
non presentarsi all'aeroporto il giorno per il quale era previsto il
volo.
Inutile
dire che Harry l'avesse insultata piuttosto pesantemente non appena
la sorella lo aveva informato di questa sua tirannica presa di
potere, ma ormai lei aveva deciso così ed era difficilissimo, se
non impossibile, farle cambiare idea. Ma in fondo, Harry, gli
voleva bene proprio per questo e adorava passare del tempo con lei,
perché Gemma riusciva sempre a dire la cosa giusta al momento giusto
e gli dava sempre degli ottimi consigli.
Adorava
un po' meno, però, dover fare le pulizie di casa e sentirsi come una
casalinga disperata quando l'arrosto si brucia e i panni in lavatrice
stingono rovinando l'intero bucato. Accidenti! - lui era un
uomo e ne avrebbe fatto volentieri a meno di tutte quelle faccende
domestiche per le quali non era assolutamente portato. Harry non era
mai stato un grande fan delle gender roles, ma
le
faccende domestiche potevano tranquillamente tenersele le donne.
Si rendeva perfettamente
conto di essere uno stronzo e le più femministe ed indipendenti
delle sue amiche non tardavano a ricordagli che probabilmente era
colpa di tutti quei romanzi rosa che corregeva, dove ovviamente
l'uomo è una presenza tossica dalla mascolinità fragile e la donna
ha sindrome della crocerossina. Probabile e Harry avrebbe fatto
carte
false pur di liberarsi di quelle trame da sedicenne alle prese col
primo amore.
Sconsolato
si alzò e si diresse verso la cucina con l'intenzione di mangiare
qualcosa perché il suo stomaco non si limitava solo a brontolare, ma
lo minacciava di esplodere se non avesse fatto colazione al più
presto. Riempì la sua tazza verde, la più grande che aveva, ci
rovesciò dentro una manciata di cereali al cioccolato e il latte (a
differenza di sua sorella lui era fermamente convinto che il latte
andasse versato dopo aver messo i cereali nella tazza) e dopo aver
afferrato un cucchiaio a caso dal lavandino cominciò a mangiare
lentamente. Erano appena le otto e aveva già voglia di tornarsene a
dormire mandando a farsi benedire il lavoro, le pulizie di casa, il
suo romanzo e anche quell'irritante pettegola di sua sorella che
riusciva a infastidirlo come ben poche altre persone. Con la tazza
in mano si avvicinò alla finestra e accese la radio. New York era
sveglia da molto ore prima di lui – o probabilmente non era mai
andata a dormire – e le strade erano gremite di persone che
correvano da una parte all'altra per non arrivare a tardi a lavoro, a
scuola, a un appuntamento o da qualsiasi altra parte. A New York
correvano sempre tutti, nessuno si fermava mai e anche la città
correva con i suoi abitanti, cambiava con loro, soffriva con loro e
viveva con loro senza dormire mai, senza fermarsi, non prendendosi
neanche una misera pausa e a Harry quella città piaceva proprio per
questo. Lui si fermava spesso e restava a guardare le vite degli
altri, ché in fondo non avevano poi molto di diverso dalla sua.
Tutti piangevano, ogni tanto ridevano e un po' più spesso si
arrabbiavano proprio come lui e non c'era niente, niente, che
riuscisse a farlo sentire speciale o almeno un po' diverso. Aveva una
storia anonima, un amore finito – magari finito un po' male
– alle spalle e quel sogno di diventare uno scrittore che aveva
perso per la strada insieme alla storia che stava cercando
inutilmente di riscrivere.
Pensò
che Dio, il mondo – magari anche Silente e Gandalf –
dovevano proprio avercela con lui: aveva perso il suo libro,
correggeva bozze orribili che si sarebbero trasformate in celebri
romanzi da quattro soldi, i cereali avevano perso tutto il loro aroma
di cioccolato, la casa era un casino, il bagno impraticabile e come
se non bastasse sua sorella stava per arrivare lì per trascinarlo
con sè a San Francisco.
Forse
era diventato un tantino ripetitivo, ma la sua vita faceva veramente
schifo e la radio, che già a quell'ora trasmetteva le canzoni di
Lana del Rey, non si faceva poi così tanti scrupoli nel
ricordarglielo.
«We
were born to die, ma fottiti vecchia megera!»
Alla
fine aveva ceduto all'incombenza dei suoi doveri e con il CD dei The
1975 a tutto volume si era messo a fare le pulizie di primavera
durante l'ultima settimana del mese di Gennaio. Harry era un po'
così: fuori posto, fuori moda, fuori stagione, fuori di testa.
Aveva riordinato la cucina, lavato i piatti, spazzato a terra,
spolverato in salotto, mandato due lavatrici, lavato il bagno, steso
i panni e rifatto il letto nella stanza degli ospiti nella quale
avrebbe dormito sua sorella. Aveva anche cercato di rendere
presentabile – o almeno accessibile – la sua camera da letto, ma
si era limitato a raccogliere tutti i vestiti disseminati a terra e a
buttarli nella lavatrice. Per i fogli sparsi sulla scrivania e i
mozziconi di sigarette sparsi qua e là non aveva potuto fare un
granchè, se non buttare tutto sperando che che tra quei fogli non ci
fosse nulla di importante.
Dopo
un'intera giornata trascorsa a spazzare, spolverare, lucidare e
sgrassare, Harry si era lasciato cadere sul divano annunciando a
tutti (tutti chi?) che era troppo stanco anche solo per
continuare a vivere. Gemma sarebbe arrivata da lì a momenti e lui
non aveva nessuna intenzione di cucinare qualcosa per lei, non ne era
capace e avrebbe lasciato a sua sorella l'onore di avventurarsi in
cucina per preparare la cena mentre lui sarebbe rimasto lì,
stravaccato sul divano e passando in rassegna tutti i canali TV che
il satellite aveva da offrire. Non guardava la TV da tanto, un po'
perché non ne aveva mai il tempo e un po' perché pensava che fosse
da stupidi come la maggior parte dei programmi che venivano
trasmessi. Roba tipo Big Brother, televendite che servivano
solo a fregare i soldi alla gente che voleva fingere di dimagrire
facendosi venire la dissenteria ingerendo strane miscele proteiche e
telegiornali utili solo nel caso si volesse essere informatissimi
sulla vita privata della famiglia Kardashian-West.
Lasciò
cadere a terra il telecomando che aveva incosciamente afferrato e
sorridendo delle sue abitudini, che non sarebbero mai cambiate, andò
in camera sua a prendere il computer perché di provare non si
sarebbe stancato. Mai.
Aspettò
che il sistema si avviasse, aprì la solita pagina sempre più bianca
e restò in attesa di un segnale che non tardò ad arrivare, perché
appena si fu deciso a scrivere la prima parola – che poi avrebbe
sicuramente cancellato – qualcuno suonò al campanello. Sapeva
perfettamente chi c'era ad attenderlo dall'altro lato della porta e
si affrettò ad aprire proprio perchè non aveva alcuna voglia di
sorbirsi le lamentele isteriche di...
«Harry!»
...
Sua sorella.
«Gemma»
ribatté tetro «Mentirei se dicessi che è un piacere averti qui.»
si richiuse la porta alle spalle senza staccare gli occhi da sua
sorella che passava in rassegna la casa con fare inquisitorio. Era
davvero, davvero terrificante.
«Farò
finta di non aver sentito! Ma – ehy! – questa casa è molto più
pulita dall'ultima volta che ci sono stata! Hai pagato qualcuno o
finalmente hai imparato a fare le pulizie, Harold?» parlava
velocemente, era logorroica come al solito mentre passava il dito sui
mobili e perlustrava il pavimento ricercando anche solo un piccolo ed
insignificante granello di polvere. Era esaurita proprio come la
ricordava, ma gli era mancata così tanto che l'idea di quel viaggio
a San Francisco quasi cominciava a piacergli.
«Sei
sempre la solita, Gem» le accarezzò il viso mentre la ragazza
storceva il naso in una smorfia di disgusto nei suoi confronti, come
al solito «Quasi mi mancavi.» non avrebbe mai ammesso che gli era
mancata davvero, ma era sicuro che in qualche modo lei avrebbe capito
perché erano fratelli e certe cose i fratelli riescono a capirle
senza che vengano necessariamente dette.
«Non
lo ammetterai mai, vero, fratellino?» in punta di piedi si protese
verso di lui per lasciargli un umido bacio sulla guancia. Harry amava
quelle piccole dimostrazioni di affetto tra di loro, perché
riuscivano a convincerlo che il loro fosse un rapporto normale,
quando normale in realtà non lo era mai stato.
«Ammettere
cosa, sorellina?» il sopracciglio inarcato, il viso contratto in una
smorfia causata dalle parole di Gemma.
«Che
non sapresti come fare senza di me. Ah, voi uomini siete tutti
dannatamente uguali! Preferite girare intorno alle cose piuttosto che
affrontare la situazione, siete davvero incredibili e stupidi...
Incredibilmente stupidi, ecco cosa siete! E ora vattene, su su! Vai a
farti un giro e non tornare prima delle 20, stasera cucino io e dopo
cena ti aiuterò a preparare le valigie! San
Francisco
ci aspetta!»
Aveva
quattordici anni quando vide il suo primo film porno. Voleva far
colpo su quel certo Alex che lo aveva fatto innamorare e che, da
quanto era riuscito a capire, non faceva altro che guardarli dalla
mattina alla sera. Durante la pausa pranzo quindi ne parlava con i
suoi amici ad alta voce - per far sì che Alex lo sentisse forte e
chiaro - descrivendo tutto fin nei minimi particolari, ma aveva
ottenuto solo occhiatine da parte delle ragazze più carine (e più
sceme) di tutte la scuola. I suoi amici lo avevano guardato
disgustati mentre Alex non lo aveva degnato di un solo sguardo.
"Forse è etero" pensó rassegnato. Quello che Harry aveva
sapientemente omesso, infatti, era la natura dei film porno che
guardava con tanto interesse dalle due alle quattro di notte quando
tutti a casa sua dormivano. Erano per lo piú film porno gay coreani.
Raramente guardava film porno con etero e ancora più raramente
quelli porno lesbo. Forse non sarebbe mai diventato un regista di
film porno come aveva più volte confessato ai suoi amici, ma a
quattordici anni Harry Styles era senza dubbio un esperto di
filmografia pornografica ed era anche cosí ben informato sul sesso
gay, da poterlo fare anche ad occhi chiusi. La sua prima volta con un
uomo - perché sì, aveva avuto anche delle avventure con delle donne
- era avvenuta peró solo tre anni più tardi, quando ormai ne aveva
giá compiuti diciassette. Era successo con il suo insegnante di
religione e Harry non lo aveva mai raccontato a nessuno. Le ore
cinque del pomeriggio e una punizione che si era andato a cercare,
alzandosi in piedi urlando contro il suo professore che
l'omosessualità non era una malattia e che i gay non avevano bisogno
di essere curati. Ma di cure forse ne aveva bisogno il signor Smith,
dall'omosessualità repressa in malo modo, che se lo era scopato in
fretta furia contro la cattedra dell'aula di scienze. Harry di
quell'episodio non ne aveva mai fatto parola con nessuno e aveva
mantenuto il segreto, trattenendo a stento lacrime e urla e
graffiandosi la pelle punendosi così per aver offerto il culo a un
uomo che disprezzava e che lo disprezzava. Una settimana dopo il
professor Smith si licenzió e venne in fretta rimpiazzato. Per
Harry fu l'inizio della fine. Camminava per i corridoi e si
sentiva osservato, spiato e spogliato di tutti i suoi vestiti, della
sua dignità. Gli sembrava che tutti fossero a conoscenza del suo
piccolo grande segreto e non riusciva ad entrare nell'aula di scienze
senza provare una gran voglia di vomitare.
Una
settimana dopo qualcuno gli diede fuoco.
Ma
non era stato lui.
A
questo pensava mentre, dopo sei ore di volo, si dirigeva con sua
sorella verso l'uscita principale dell'International Airport di San
Francisco. Era stato un volo interminabile e gli era sembrato ancora
piú lungo con sua sorella che, ancora più logorroica del solito,
gli aveva raccontato vita, morte e miracoli di tutte le sue amiche.
Un argomento di conversazione così interessante che svariate volte
nel corso di quelle sei ore, Harry aveva pensato di lanciarsi
dall'aereo senza usare il paracadute. Si sarebbe schiantato a terra
così come tutta la sua vita prima di lui. Cosa aveva da perdere, in
fondo? Nulla, solo la dignità. Di quella ancora nessuno era riuscito
a privarlo, nemmeno quel suo professore di religione che aveva
abusato di lui mentre all'orecchio gli sussurrava che erano malati
entrambi e che insieme sarebbero bruciati all'Inferno per espiare i
propri peccati. Da quando aveva diciassette anni Harry lottava per
restare in piedi e se mai un giorno si fosse concesso il lusso di
crollare a terra, non avrebbe permesso a nessuno di raccogliere i
suoi pezzi perché solo lui sarebbe stato in grado di ricomporre il
puzzle. Era fatto cosí, tremendamente orgoglioso e aveva toccato il
fondo cosí tante volte che di risalire in superficie forse non ne
aveva nemmeno più la voglia.
«Ah,
San Francisco!» almeno Gemma sembrava felice di trovarsi lì «Il
paradiso dei gay!»
I
gay, sempre questi maledetti gay in mezzo ai piedi. Iniziava a
stancarsi di sentirne a parlare e ogni tanto si chiedeva perchè
proprio lui era nato così e non qualcun'alto. Poi peró ragionava e
capiva che lui non aveva nulla di sbagliato, che tutto era
perfettamente normale e che ancor prima di essere omosessuale e di
essere Harry, lui era un essere umano e in quanto tale nessuno aveva
il diritto di discriminarlo o peggio. Gli piacevano gli uomini, sì,
ma non c'era nulla di sbagliato in lui. Al limite poteva esserci
qualcosa di sbagliato negli uomini per i quali aveva perso la testa,
tutti troppo vecchi, troppo ricchi o troppo sposati per poter stare
con uno come lui, che non aveva niente e non avrebbe mai avuto
niente. Aveva avuto il suo grande amore e lo aveva lasciato andare,
non pensava di meritare una seconda possibilità in fondo, perché
tanto sarebbe riuscito a sprecare anche quella.
Chissà
se alla fine il signor Smith era bruciato con qualcuno...
«Ora
andiamo in hotel, lasciamo le valige, facciamo il check-in, ci
rilassiamo, doccia e poi... MOVIDA!»
E
cosí erano partiti davvero e si trovavano a San Francisco.
Fantastico, fantastico davvero soprattutto se come Harry si odiava
quella città come odiavano Giulio Cesare quelli che lo avevano
pugnalato alle spalle.
«Oh
Harry, coraggio! Dì qualcosa! Hai perso la lingua, per caso? O l'hai
lasiata a New York?»
New
York – santo cielo! – la sua New York! Ma non potevano
restare lì per fare un po' di vida loca? Aveva la fortuna di
vivere nella Grande Mela, la città che non dorme mai, eppure si
trovava comunque bloccato a San Francisco per fare un po' di
squallido turismo omosessuale (all'insaputa
di
sua sorella che cercava di trovargli un buon partito da anni).
E
poi dov'era il pulsante per spegnere Gemma? Avrebbe dovuto chiamare
sua madre per chiederglielo, altrimenti sarebbe impazzito e di farsi
internare in una clinica psichiatrica a quasi venticinque anni
proprio non ne aveva voglia. Non che avesse molto altro da fare nella
sua vita, fatta eccezione per la correzione di quelle bozze orribili,
ma la clinica psichiatrica sembrava comunque un rimedio un tantino
estremo. Forse l'esilio volontario in Iowa sarebbe stato più che
sufficiente.
«Wow,
bella San Francisco, davvero stupenda. Ora possiamo tornare a casa?»
disse quasi catatonico e con un filo di voce. Non voleva urlare e
dare a quegli stupidi abitanti di quella stupida cittá, la
soddisfazione di vedere la scenata isterica di un newyorkese alle
prese con la tanto odiata California.
«Piantala,
o ti prendo a calci nel culo. E invece di lamentarti, vedi di trovare
un taxy.»
Si
era fermata in mezzo alla strada per sistemare la scarpa che sembrava
andargli un po' larga e che aveva decisamente un tacco un po' troppo
alto per una come lei. Un coro di clacson e insulti si sollevó
contro di loro e Harry afferró la sorella per un braccio e la
trascinó con sè, facendo attenzione a non inciampare nella valigia.
«Ah,
i newyorkesi! Si credono i padroni del mondo.» sbottó un passante.
«Io
abito nel New Jersey!» urló Gemma in tutta risposta, mostrandosi
anche parecchio infastidita. Lei non aveva nulla da spartire con quei
cafoni dei newyorkesi e lo avrebbe ripetuto fino al giorno della sua
morte.
«Ancora
peggio!» ribadì l'altro, ancora abbastanza vicino a loro.
«COME
OSA?»
Harry
intanto si guardava intorno, chè tanto lui con le battaglie perse di
sua sorella non aveva niente a che spartire (anche se il passante
aveva pienamente ragione sul New Jersey). I californiani avevano
sempre le stesse facce da stronzi e anche San Francisco sembrava
sempre la stessa; caotica, movimentata e così viva che quasi avrebbe
potuto sentirsi come a casa, come a New York. Qualcosa era
cambiato e anche le strade erano diverse. C'erano mille e mille luci
accese, ma Harry non ne aveva contate cosí tante l'ultima volta che
era stato lì. Sembrava tutto diverso e dal finestrino del taxy,
mentre abbracciava il suo zaino da viaggio, guardava quella città
che tanto aveva odiato in precedenza e senza un motivo. O forse un
motivo c'era e lui non voleva ammetterlo? Era confuso e tutte quelle
luci non lo aiutavano. Dio, se odiava San Francisco. La odiava
con tutta l'anima e tutto il cuore. Era così diversa... senza di
lui.
«Harry,
forse ho capito perchè odi osì tanto questa città. Porca puttana,
i californiani sono più stronzi di nostro padre!» erano ormai
arrivati al loro hotel e sua sorella aveva pagato il taxista
aggiungendo una serie di imprecazioni contro quella città e i suoi
abitanti. Quasi rimpiangeva i newyorkesi megalomani, aveva detto.
Harry
rise e afferró la valigia prima di varcare l'ingresso dell'hotel.
«No,
Gemma, non puoi capire.» mormorò sottovoce per non farsi sentire.
«Harry,
dietro di te! No, non ti girare ora!»
L'aveva
portata a cena in un piccolo ristorantino che conosceva e che gli era
rimasto nel cuore da quando era stato a San Francisco la prima volta
tanti anni prima. Era un posto intimo, tranquillo e adatto per cene
non troppo impegnative, ma comunque eleganti e raffinate. A Gemma era
piaciuto e Harry aveva sorriso. Avrebbe preferito trovarsi lì con
qualcun'altro, ma era passato così tanto tempo dall'ultima volta che
lo aveva visto, che iniziava a pensare di non averlo mai incontrato.
Sua sorella guardava un punto non ben definito sopra alla sua spalla
e lui era curioso di scoprire cosa avesse visto di così
interessante, tanta da attirare tutta la sua attenzione.
«Chi
c'è dietro di me?» chiese perplesso e curioso.
«Louis
Tomlinson!» sibilò a bassa voce, tutta eccitata «Lo scrittore!»
Harry
annaspò e si strozzò con il vino rosso che stava bevendo,
risputandolo nel calice di cristallo che stringeva con molta più
forza rispetto a un solo istante prima. Louis Tomlinson?
Scrittore? Gemma doveva essersi sbagliata, le capitava spesso,
in
fondo di confondere i nomi e le persone. Louis Tomlinson, lo
scrittore. Doveva essere uno scherzo, non c'era altra soluzione.
Voleva girarsi ma al contempo non voleva farlo. E se sua sorella non
si fosse sbagliata? No, non era possibile. Non poteva essere.
«Scrittore?»
ripetè incredulo.
«Davvero
non lo conosci? Diamine, fratellino! Fortuna che lavori
nell'editoria, te! È uno scrittore emergente davvero bravissimo, ho
letteralmente divorato il suo primo romanzo!» Gemma guardava l'uomo,
che per ironia della sorte era seduto proprio a uno dei tavoli dietro
al loro, con occhi sognanti e un'espressione ebete stampata sul viso.
Louis
Tomlinson, lo scrittore.
Era
un incubo quello per Harry e con le mani nascoste sotto al tavolo si
dava dei pizzicotti sulle cosce per capire se stesse davvero sognando
o meno. Con riluttanza scoprì che non era mai stato così sveglio
nemmeno quando ancora frequentava il liceo e alla prima ora aveva
matematica con quella pazza della professoressa Green.
«Primo
romanzo?» ripetè ancora. Ma allora sua sorella faceva sul serio,
non stava mentendo! Voleva andare fino in fondo, voleva saperne di
più. Tremava come una foglia e sudava freddo. Odiava San
Francisco in quel momento più che mai.
«Eighteen!
La storia di due ragazzi omosessuali che si conoscono al college e
capiscono di amarsi, ma uno in realtà impiega più tempo dell'altro
e alla fine – Oh, ma che carina sua moglie! E lui è così
affascinante... Cosa stavo dicendo? Ah, sì! Harry è impossibile che
tu non abbia mai sentito parlare di Eighteen!» erano arrivati
gli antipasti e Gemma si era fiondata sul suo piatto senza nemmeno
degnarlo di uno sguardo. Parlava a vanvera e con la bocca aperta e
non si era nemmeno accorta del viso più pallido del solito di Harry
che rischiava di stramazzare al suolo da un momento all'altro e che
in quel preciso istante pensava di poter morire di crepacuore. Louis
Tomlinson.
Scrittore. Eighteen. Sua moglie.
Quello
stronzo non solo gli aveva rubato il romanzo, ma si era anche
sposato.
Odiava
San Francisco, odiava lui.
Cercando
di mantenere i nervi saldi e senza perdere il controllo si alzò per
andare in bagno, consapevole di avere due occhi blu puntati sulla sua
schiena.
Odiava
San Francisco, odiava lui.
Era
proprio lui, come lo ricordava. Con quelle braccia muscolose e la
statura piccola; le guance scavate e gli zigomi alti; le labbra
rosse, screpolate e quel naso delicato che dava un po' di dolcezza a
quel volto scavato.
Cazzo,
era proprio lui.
E
Harry lo odiava come odiava San Francisco.
Vicino,
sì, ma non abbastanza.
Si
trascinava per le strade da quella mattina presto per seguire quella
bionda pazza di sua sorella che al collo aveva una reflex più grande
del suo viso. A San Francisco c'era il sole e centinaia di macchine
in coda come al solito; era un po' come New York, sì, ma non
abbastanza. I venditori ambulanti ai bordi delle strade
contrattavano per vendere delle copie ben fatte di opere d'arte
famose a prezzi stracciati. Harry si soffermava a guardarli mentre
Gemma camminava spedita verso l'ennesima attrazione turistica della
quale a lui non importava nulla, ma che avrebbe visitato
semplicemente per accontentarla e farla sentire meno in colpa per
averlo obbligato ad accompagnarla in quel viaggio. Harry dal canto
suo apprezzava l'arte in ogni sua forma e ammirava estasiato le
fedeli riproduzioni di quei quadri; chiunque fosse l'autore di quelle
copie, aveva dell'incredibile talento. Avrebbe voluto tanto comprarne
una che raffigurava una celebre pala d'altare del Tiziano, ma un urlo
di sua sorella lo richiamò immediatamente all'ordine. Si scusò con
il ragazzo che gli stava per vendere il dipinto e rassegnato
raggiunse Gemma, ferma davanti all'ingresso di una libreria.
Vicino,
sì, ma non abbastanza.
Avrebbe
tanto voluto pubblicare un libro, scrivere una storia tutta sua.
Quella storia. Ma non poteva, era bloccato ed era incapace anche di
riscrivere qualcosa che un tempo era già stato scritto. E non poteva
neanche più farlo, perché qualcuno aveva già pubblicato il suo
romanzo per lui. Qualcuno di cui lui un tempo si era fidato e che
adesso tornava nella sua vita quasi per sbaglio, per ironia del
destino, per colpa di un viaggio – quel viaggio – in
quella maledetta città che non riusciva neanche più ad odiare. Con
i suoi grattacieli altissimi – come New York, sì, ma non
abbastanza – i suoi maestosi ponti e la sua storia disseminata
di terremoti e catastrofi (proprio come in quei film ad alta tensione
che guardava da ragazzino). La California gli piaceva così tanto che
in un certo periodo della sua vita aveva sognato di trasferirsi
proprio lì, in quello stato, ma odiarla era più facile perché non
aveva la possibilità di viverla come aveva sempre immaginato.
Vicino,
sì, ma non abbastanza.
"Cazzo,
Louis, è tutta colpa tua se –"
Non
aveva mai pensato che qualcuno che non fosse proprio lui potesse
essere l'origine di tutti i suoi mali, ma Louis era sempre stato il
fulcro di tutto, di ogni più piccola ed insignificante cosa. Gioia e
dolore, rimpianti e rimorsi, tristezza e felicità. Abbandono.
Aveva pianto per lui, riso con lui, vissuto per lui e si era
risvegliato una mattina di Dicembre con un biglietto di addio in
quella parte di letto che era sempre stata la sua da quando si erano
conosciuti, a diciotto anni.
E
(lo) aveva perso, sì, Louis Tomlinson era stata la sua più grande
sconfitta.
«Entriamo,
devo comprare una guida turistica altrimenti non riuscirò mai a
orientarmi in questa dannata città. Maledetta California! E
tu, vedi di non perderti!»
Harry
annuì e seguì sua sorella dentro l'immensa libreria. Cinque piani
di libri, stanze vastissime e piene di scaffali, tavolini e ripiani
colmi di libri di ogni genere, tipologia, autore, epoca e prezzo. Si
guardò intorno estasiato per soli pochi istanti e Gemma era già
scomparsa alla ricerca di una guida turistica. Sospirando, Harry si
abbandonò al suo istinto che lo condusse nella sezione dove erano
impilati i libri più recenti, quelli appena usciti e quelli più
venduti. Un libro dalla copertina che ritraeva due ragazzi di spalle
e uniti da una corda attrasse la sua attenzione.
Louis
Tomlinson
EIGHTEEN
Deglutii
rumorosamente e con un peso sul cuore aprì una pagina a caso.
Le
gambe a penzoloni e la sigaretta accesa tra le dita. William non
riusciva a dormire nonostante fosse molto stanco. A tormentarlo
c'erano ancora certi incubi ricorrenti anche se aveva detto a tutti
che da mesi che non gli capitava più di farli; l'ennesima bugia, una
delle tante e William ci era abituato perché mentire era sempre
stato il suo passatempo preferito. E così al farsi torturare in
sonno preferiva restare sveglio fino a consumarsi come una candela
che annega nella sua stessa cera. Seduto sul tetto dove sapeva che
nemmeno Edward poteva raggiungerlo perché ne aveva paura, William
sorrideva nel buio perché gli piaceva allontanarsi da lui, lo faceva
sentire meno drogato, meno dipendente, più autonomo. William spesso
pensava di non riuscire più a fare a meno di Edward e questo
pensiero lo soffocava perché lui avrebbe tanto voluto essere
qualcuno anche senza Edward, ma non poteva. Era come se qualcosa lo
stesse bloccando dall'interno. Doveva riflettere. Forse la durata di
una sigaretta però era troppo breve per capire e avrebbe dovuto
fumarne un'altra, giusto il tempo che gli bastava per convincersi
che
se non aveva Edward, gli rimaneva comunque sempre il fumo e che una
dipendenza in fondo valeva l'altra. E se non erano riccioli allora
era cenere e se non erano mani erano filtri e se non erano occhi era
il fuoco dell'accendino e se non ci fossero stati abbracci, ci
sarebbe stato sempre l'affanno per le troppe sigarette che non
avrebbero mai sostituito le ore spese a far l'amore fino a farsi
male, fino a all'alba che si staglia sul mare.
«Allora sei
qui.»
Lui alla fine era arrivato, arrivava sempre quando capiva
di essere il problema ma anche la soluzione secondo il vangelo
dell'ironia del destino.
«Già.»
Rispose. Non sapeva in
quale altro posto avrebbe dovuto essere, in fondo quel tetto
sembrava
essere l'unico luogo al quale sentiva di appartenere.
«Vieni
dentro con me.»
William chiuse gli occhi e pensò che di far
l'amore quella notte proprio non ne aveva voglia. Potevano contare
le
stelle, magari potevano contarle tutte e lasciarsi solo una volta
aver finito. Aveva una paura fottuta di quello che provava, si
disprezzava perché da solo non ce l'avrebbe mai fatta e la sigaretta
bruciava lenta per lasciargli il tempo di capire che lui senza
Edward
rimaneva su quel tetto, sopra la casa ma non dentro di essa. E
William aveva bisogno di una casa e di braccia che lo tenevano
stretto.
Che più o meno è la stessa cosa.
Lo baciò lento
e incantevole un po' perché ne aveva bisogno, un po' perché quel
sapore di tabacco era troppo forte e un po' perché lo amava troppo e
aveva paura che quell'amore gli scoppiasse nel petto. Aveva freddo
adesso che c'era Edward e la voglia di lasciarsi abbracciare era
così
forte che quasi ebbe l'impulso di cedere.
E se non se fosse
accaduto in quel momento, magari sarebbe accaduto più tardi.
Avevano
ancora tutta la vita davanti e William ancora venti sigarette da
fumare.
Ricordava
quel pezzo; lo aveva scritto una sera che lui e Louis avevano
litigato e il ragazzo era andato a rifugiarsi sul tetto come ogni
volta che qualcosa non andava. Lui era andato a cercarlo per
chiedergli scusa e alla fine avevano fatto l'amore come al solito tra
i libri di poesia e quelli di economia. Non aveva cambiato nulla
della stesura originale, era tutto come Harry lo aveva pensato e poi
scritto. Ogni virgola era al suo posto, ogni parola era dove lui
l'aveva immaginata e le frasi erano le sue, sempre le stesse e la
storia era stata pubblicata proprio così, senza correzioni, senza
aggiunte. Harry l'aveva scritta e Louis l'aveva pubblicata, mettendo
quel suo dannato nome su quella ridicola copertina che tanto bene li
raffigurava.
Una
corda per unirli, una corda a separarli.
Comprò
il libro perché voleva leggerlo, comprò il libro perché finalmente
aveva ritrovato il suo romanzo. Raggiunse sua sorella alla cassa che
non appena gli vide il libro tra le mani sorrise soddisfatta
dicendogli che aveva fatto la scelta giusta perché 'Eighteen'
era il libro più bello che avesse mai letto in tutta la sua vita.
Odiò sua sorella perché se su quella copertina ci fosse stato il
suo nome, la storia non le sarebbe poi piaciuta così tanto. Quel
romanzo raccontava dei suoi anni al college, in quelle pagine era
custodita la sua storia d'amore e non era sicuro che Gemma sarebbe
stata contenta di sapere che quella in realtà era la sua vita, che
quelle erano le sue esperienze e che Louis Tomlinson sarebbe stato
per sempre l'unico stronzo che avrebbe mai amato così tanto da farsi
schifo.
«Non
te ne pentirai, fratellino, è un libro bellissimo... Anche se un po'
triste!» e la seguì fuori dalla libreria senza risponderle perché
se avesse parlato, sarebbe scoppiato a piangere e raccontare la
verità a sua sorella era l'ultima cosa che voleva. Si lasciò
guidare da Gemma che lo portò in giro per la città e scattarono
foto, mangiarono un hot dog, ricordarono la loro infanzia e
chiamarono Anne, perché la mamma è sempre la mamma. Quando
tornarono in hotel il tramonto era già passato da un bel po' e
Harry, affacciato alla finestra della sua stanza, osservava la vita
che andava avanti anche senza di lui.
Per
tutti
quegli
anni non aveva fatto altro che chiedersi se Louis avesse dormito
da
solo come lui, o se avesse trovato qualcun'altro con cui
condividere
il letto. Ogni notte, prima di spegnere la luce e mettersi a
dormire,
Harry si era posto questa domanda e ingenuamente aveva immaginato
che Louis fose solo proprio come lui, a tormentarsi con la sua
stessa
domanda. Evidentemente non era così che le cose erano andate e
Louis
si era sposato, dormiva con sua moglie ogni notte, presto
avrebbe
avuto anche dei figli mentre lui continuava
pensare di non possedere abbastanza coraggio per impegnarsi con
qualcun'altro, se ancora amava Louis come quando aveva solo
diciotto
anni.
Era
a
San Francisco da quasi tre
giorni, il suo compleanno era sempre più vicino e sua sorella
non
gli dava tregua. Lo tempestava di domande, se lo portava ovunque
tipo
un cagnolino ed erano giorni che Harry non riusciva a trovare
neanche un'ora per accendere il computer e correggere alcune
delle
bozze che il suo datore di lavoro gli mandava per email. Non
aveva
più bisogno di scrivere, ora che il suo romanzo lo aveva
ritrovato,
ma un lavoro lo aveva ancora e perdere anche quello non sarebbe
stato
conveniente. Così quando quella mattina alle otto e un quarto si
alzò per andare in bagno a farsi una doccia, decise che avrebbe
mandato un messaggio a sua sorella per dirle che quel giorno
doveva
proprio lavorare e che quindi lei poteva andarsene in giro da
sola
per negozi. Non ne poteva più di tutto quello shopping e
poi aveva una persona da cercare. Si
vestì in fretta, saltò la colazione e uscì dall'hotel
stringendo
in mano la sua copia di 'Eighteen'.
Louis
Tomlinson
quando usciva di casa molto presto, si recava a fare
colazione sempre nello stesso
bar
nel
quale una volta – qualche anno prima – aveva preso un cappuccino
in compagnia di una persona che nonostante tutto gli era rimasta
nel
cuore. Era un'abitudine,
un
gesto essenziale, un ricordo che ancora riusciva a farlo
sorridere.
Ordinava un cappuccino, un waffle
e restava lì ad aspettare che quella persona entrasse, sebbene
sapesse
che non sarebbe mai accaduto.
Ma
quella
mattina lui entrò davvero nel locale e dal suo sguardo Louis
capì che una tempesta era in arrivo e che il sole non sarebbe
tornato a splendere tanto
presto. Stringeva tra le mani un copia di 'Eighteen',
il suo
libro,
il loro
libro
e sembrava deciso a sputargli in faccia – o
in un occhio
– tutta la rabbia che per anni aveva covato dentro sè.
Fu
davanti a lui ancora prima che Louis avesse il tempo di realizzare
che le sue speranze non erano morte invano; Harry era lì, finalmente
era tornato da lui ed era arrabbiato, così tanto arrabbiato che se
Louis non avesse conosciuto i suoi occhi verdi così bene, avrebbe
creduto che forse aveva davvero imparato ad odiarlo.
«Perché
lo hai fatto?» sibilò a bassa voce; le scenate non le aveva mai
amate.
Louis
non rispose.
Harry
sbattè con violenza il libro sul tavolino.
«Perché
lo hai fatto?»
Louis
non rispose.
Harry
respirò profondamente.
«Perchè
lo hai fatto?»
Louis
non lo guardava nemmeno.
«Rispondimi.»
«No.»
rispose tranquillamente, lo sguardo perso.
Harry
uscì dal locale, le mani in tasca e un singhiozzo spezzato in gola.
Lo
trovò seduto su una panchina di Lincoln Park, la stessa panchina
dove si erano baciati, ubriacati con la birra e dove avevano quasi
fatto sesso se non fosse stato per quel guardiano sbucato dal nulla.
Sorrise, Harry sicuramente lo aveva fatto di proposito. Si avvicinò
lentamente e si sedette accanto a lui, senza dire una parola.
«Come
hai fatto a trovarmi?» gli chiese Harry dopo un po'.
«E
tu? Tu come hai fatto?» rispose con un'altra domanda, la stessa che
gli aveva posto lui per primo. Sapeva che Harry lo aveva trovato
perché ancora ricordava tutto quello che avevano fatto insieme
proprio lì, a San Francisco.
«Ti
troverò sempre, Louis» era una frase già detta più volte, ma
nella quale nessuno dei due aveva mai creduto davvero. Harry glielo
aveva promesso, lo avrebbe trovato sempre, ovunque sarebbe andato lui
lo avrebbe seguito, ma non era andata proprio così e c'erano troppi
anni di silenzio tra i due, troppe fughe, troppe parole trattenute
per poter semplicemente seppelire tutto con un abbraccio o con una
nuova promessa di non lasciarsi mai più, o almeno quella di cercarsi
sempre.
«Eppure
ce ne hai messo di tempo per venire fin qui. Quanti anni sono
passati? Quattro? Cinque?» sarcastico, ironico, come era sempre
stato. Harry non lo aveva mai cercato da quando lui lo aveva lasciato
solo quella mattina di Dicembre e non poteva passarci sopra, non
poteva dimenticare. Lui lo aveva lasciato, questo era vero, ma Harry
non lo aveva mai cercato e non aveva nemmeno provato a chiamarlo.
Harry Styles era stata la sua più grande vittoria, ma lo aveva perso
da troppo tempo per poter semplicemente tornare lì dove lo aveva
abbandonato e riprenderselo come se niente fosse accaduto.
«Non
avevo voglia di cercarti.» mentì spudoratamente. Aveva sempre
voluto cercarlo, capire perché se ne era andato e rimettere tutto a
posto, ma non lo aveva mai fatto per paura o perché semplicemente
aveva voluto lasciarlo andare. Lo amava così tanto da averlo reso
libero e con il tempo si era convinto di aver preso la decisione più
giusta.
«Bugiardo.»
era un bugiardo, cazzo se lo era, e avrebbe voluto baciarlo
per lavargli via con l'acqua santa tutte quelle menzogne che
masticava con eleganza.
«Perché
l'hai fatto? Perché hai rubato il mio romanzo e l'hai pubblicato?
Perché l'hai fatto Louis? Sono stanco di te, delle tue fughe, dei
tuoi silenzi. Devi dirmi la verità.» voleva sentirlo davvero,
quello che Louis aveva da dirgli anche se poteva fargli male, anche
se poteva restarne deluso. Voleva saperlo perché da anni viveva
circondato da un muro di silenzio, un muro che solo le parole di
Louis potevano far crollare «Ora.»
«Quella
mattina di Dicembre, quando ti ho lasciato, il diario era nascosto
sotto il tuo cuscino e io l'ho preso perché volevo leggere quello
che scrivevi durante le tue notti insonni. Ho letto le prime due,
tre, quattro pagine e non riuscivo a staccarmi dalla tua storia.
Parlava di me, parlava di te, di quello che avevamo passato insieme e
tu ti stavi per svegliare, così l'ho preso e l'ho portato con me.
L'ho letto, l'ho divorato, l'ho imparato a memoria e un giorno mi
sono svegliato con l'idea di pubblicarlo.» spiegò semplicemente,
come se quello che aveva fatto fosse normale, un'azione che chiunque
al posto suo avrebbe compiuto. La storia che Harry aveva scritto era
intensa, ripiegata su se stessa, come se non volesse lasciarsi
intendere da chi la leggeva e doveva essere assolutamente pubblicata,
così l'aveva fatto lui. Ma non era quello l'unico motivo.
«Quella
era
la mia storia,
Louis! Non ne avevi il diritto!» esclamò quasi urlando, guardandolo
finalmente negli occhi per la prima volta dopo tanto tempo. Lo
sguardo di Louis fuggiva, scappava, correva veloce lontano dal suo
proprio come aveva sempre fatto.
«Era
la nostra storia,
Harry! Parlava di noi, raccontava la nostra vita insieme ed era mia
quanto tua. Tu l'hai scritta, certo, ma io l'ho vissuta proprio come
te. E non venirmi
a parlare di diritti proprio tu, che non hai mai denunciato quel
porco che ti ha violentato a diciassette anni. E indovina un po',
era
un tuo diritto farlo. Ah
no,
scusa, era un tuo dovere.»
non lo aveva ancora perdonato
per aver tenuto sempre nascosto quel segreto che portava con sè da
anni
e probabilmente non l'avrebbe
mai fatto. La loro era sempre stata una lotta a chi i segreti
riusciva a mantenerli meglio e Harry aveva sempre vinto, chè a
nascondere era sempre stato il più bravo, ma Louis no.
Louis sapeva mentire molto
bene, era un bugiardo patologico,
ma la verità non riusciva a farla tacere. Louis scappava di continuo
ma alla fine tornava sempre indietro. La loro storia andava avanti
così, tra cicatrici e fughe, tra segreti e mezze verità, tra bugie
e sigarette spente tra le lenzuola quando la voglia di far l'amore
superava qualsiasi altro istinto, anche quello di sopravvivenza. Si
erano feriti, graffiati, baciati, curati e non avevano mai avuto
bisogno di parlare ché alle parole, si sa, avevano preferito il muro
contro il quale sbattersi e appendere
qualsiasi discorso privo di buon senso. Le parole ferivano più di
mille lame d'acciaio, questo lo sapevano di entrambi, e forse era
per
questo che avevano scelto di logorarsi in quel modo spietato,
silenzioso, baciandosi tra le lacrime e lasciando impronte sulla
pelle sudata alle sei del mattino. Si erano consumati a vicenda,
bruciandosi e scoppiando come stelle che muoiono lentamente. E i
loro
segreti li avevano svelati
così, togliendosi i vestiti.
«Perchè te ne sei andato?» non era riuscito a trattenersi e quella domanda gli era scappata come una confessione che si vuole fare da troppo tempo. Non gli interessava piú del suo romanzo e forse non gli era mai interessato davvero, voleva sapere perchè Louis lo aveva lasciato, perchè quella mattina aveva deciso che non aveva piú voglia di bruciare con lui.
«Non lo so. Forse volevo semplicemente fare qualcosa di incredibilmente stupido e avventato. Quella mattina me ne sono andato e per giorni ho sperato che tu mi chiamassi o che mi venissi a cercare. Ma non lo hai fatto, Harry, e sai perché? Perché tu sei come me e all'agire hai sempre preferito ucciderti in silenzio, senza far rumore. Non mi hai cercato perchè hai voluto lasciarmi andare; non mi hai cercato perchè proprio come me volevi restare solo; non mi hai cercato perchè pensavi di aver subito un torto. Non mi hai cercato, Harry, e se io brucio, tu bruci con me. È sempre stato così, fin da quei diciotto baci e per tutte le volte che ti ho costretto a fare qualcosa che tu non volevi. Non c'é mai stato un più forte e un più debole, siamo sempre stati io e te e ci siamo inventati a vicenda, distrutti a vicenda, consumati a vicenda. E stavamo bene così perchè - cazzo! - preferivamo scopare contro un muro piuttosto che risolvere i nostri problemi in maniera razionale. Siamo così, io e te, fuori controllo.» lo guardava negli occhi e misurava il suo terrore. Capiva dallo sguardo che aveva, che Harry non si era mai reso conto fino a quel momento che la loro relazione non era stata altro che un'esplosione. Se ne avessero avuto la possibilitá, probabilmente avrebbero scopato anche lì, in quel preciso istante, ma dopo tutto quel tempo sembravano aver ritrovato la voglia di parlare e far luce su quel buio che li aveva avvolti entrambi. Si erano incontrati una sera per caso in discoteca e Harry si era innamorato. Aveva diciotto anni e una gran voglia di mettere il suo cuore nelle mani di qualcuno. Si erano incontrati una sera per caso quando ormai mancavano poche ore all'alba e Louis si era ubriacato. Aveva diciotto anni e una gran voglia di amare ed essere amato.
«Io non brucio con te.» rispose infine, come se di tutto il resto non gliele fregasse nulla. Non voleva bruciare con lui, chè di cicatrici ne aveva fin troppe e Louis gli aveva fatto del male così tante volte che di altro dolore non sentiva di averne bisogno.
«Vieni con me.» disse. Era un ordine e non una semplice richiesta.
«Dove?» nè sì, nè no, solo dove. Voleva sapere dove lo avrebbe portato perchè di Louis non si fidava, non più.
«Vieni con me e basta» non lo sapeva nemmeno dove lo avrebbe portato, voleva che andasse con lui senza far domande perchè di parole ce n'erano state fin troppe
«Tu
mi
condurrai all'Inferno, un giorno.» era quella la sua condanna?
Seguirlo ovunque, fino alla pazzia?
«Sai
qual è la verità, Harry? È che l'inferno, con me, ti piacerebbe
anche.»
E
lo seguì.
«Dove
stiamo andando?» erano in macchina da
circa
mezz'ora – mezz'ora di silenzio – e Harry cominciava ad
innervosirsi. Il loro dialogo, avvenuto poco prima, lo aveva
lasciato
interdetto e non sapeva cos'altro dire che non fosse già
stato
detto. Louis aveva ragione, quando diceva che lui non lo
aveva
cercato perché aveva voluto lasciarlo andare, solo che non
aveva mai
voluto ammetterlo a se stesso. Per anni aveva aspettato che
lui
tornasse a bussare alla sua porta, ma non si era mai
adoperato per
far sì che accadesse.
«Non
lo so» Louis sorrideva come un bambino contento e guidava in quel
suo solito modo spericolato che gli aveva spesso procurato parecchie
multe ai tempi del college. Non riusciva a guidare in modo
tranquillo
e sfrecciava sull'autostrada come se davvero dovesse dirigersi
all'Inferno. Dove stava andando non lo sapeva nemmeno lui, andava e
basta perché tanto da qualche parte prima o poi sarebbe arrivato.
Tutte le strade portano a qualcosa, questo lo aveva imparato da
bambino, e lui era intenzionato a percorrerle tutte prima di
scoprire
quale fosse quella giusta da intraprendere.
«Sei
sempre il solito, non cambierai mai.» si lamentò Harry che
lo
conosceva così bene da riuscire a leggerlo come se fosse
stato un
libro aperto. Louis aveva sempre amato il rischio,
l'imprevisto, la
casualità e l'imprevidibilità. Non temeva i cambiamenti, era
sempre
riuscito ad adattarsi a situazioni nuove e sconosciute e non
aveva
mai riscontrato difficoltà nel fare nuove conoscenze.
Cadeva, si
rialzava, poi cadeva di nuovo, ma non si arrendeva mai fino
a quando
non riusciva a trovare ciò che cercava. Forse per questo
l'aveva
baciato diciotto volte prima di amarlo, perché diciotto
erano stati
gli sbagli necessari a fargli capire che lo voleva, che lo
desiderava, che
lui
era la sua strada giusta da percorrere.
«Puoi
accendere la radio, Harry, per favore?» era sempre così, tra
loro
due. Uno diceva A e l'altro rispondeva elencando B, C e D, ma
alla
fine
riuscivano sempre a capirsi. Era uno strano modo di comunicare
e un
ottimo motivo per litigare, ma era anche così che avevano
imparato a
conoscersi e
a
scoprirsi.
Harry
sbuffò, con un gesto indolente accese la radio e la musica
riempì subito l'abitacolo dell'auto.
«Looking
at it now, last December. We were built to fall apart, then
fall back
together»
canticchiò tamburellando le dita sul volante a ritmo di
musica. A
Harry piaceva quando Louis cantava, ma non quando cantava le
canzoni
di Taylor Swift.
«Che
forza
Taylor Swift, eh? Non ne sbaglia una! But when the sun came
up I was looking at you» continuava a canticchiare e Harry
odiava quella canzone più del solito perché le parole sembravano
essere state scritte proprio per loro due. E Louis era lì, sì,
ma non era mai abbastanza. Eppure era lì e Harry poteva morirne
di tutta quella ricchezza, poteva morire per quella vicinanza che era
troppa, così tanta da impoverirlo. Tutto quell'amore verso quel
ragazzo lo uccideva, lo logorava, lo consumava perché mancava una
mancanza e sentiva di impazzire. Voleva che tutto ciò che aveva
sempre amato fosse lontano da lui, perché non poteva averlo davvero,
perché era lì, eppure era lontano e c'era bisogno che mancasse
qualcosa, che Louis tornasse a mancare perché c'era senza
esserci e il suo cuore si stava ammalando e il suo io si
stava
perdendo.
«Eh
già» ribadì senza prestare attenzione alle parole che pronunciava.
Forse avrebbe fatto meglio a restare in hotel a lavorare o forse
sarebbe dovuto andare in giro per negozi insieme a sua sorella.
Avrebbe pagato pur di non trovarsi lì, fianco a fianco al suo
assassino «Ma è odiosa.» aggiunse.
«Se
non la smetti di lamentarti ti faccio fare un tuffo dal Golden Gate
Bridge.» scoppiò a ridere, ricordando il terrore che Harry serbava
nei confronti di quel ponte. Aveva visto troppi film e si era
lasciato suggestionare, glielo aveva sempre detto.
Harry
restò in silenzio, la bocca socchiusa e le mani in mano. Louis
ricordava ancora tutti quei piccoli particolari e lui restava lì ad
ascoltare come se gli parlasse di qualcuno che prima conosceva e che
ora aveva perso. Gli sarebbe piaciuto essere di nuovo il vecchio se
stesso, ma doveva ancora riuscire a trovarsi.
«Ancora...
Tu...
Tu ricordi?»
«Certo
che
ricordo. Ricordo tutto, ogni cosa.» aveva sempre avuto una
memoria di ferro e i ricordi non lo avevano mai spaventato, anzi, gli
tenevano compagnia quando sprofondava in quella sua solitudine piena
di incubi.
«Ma
dove stiamo andando?» chiese di nuovo, non si arrendeva mai.
«Non
lo
so.» fu la risposta giocosa di Louis, identica a quella di poco
prima.
«Senti,
Louis,
finiamola qui e riportami indietro. Non possiamo accantonare
questi anni di silenzio e pretendere che nulla sia cambiato tra di
noi. Tu sei sposato, io... Io non lo so. Ti amo ancora? Non lo so.
Non ho nessuna intenzione di bruciare con te, ci siamo fatti del
male
così tante volte, siamo scappati così tante volte che ora sono
stanco.
Stare con te mi consuma e io non voglio essere... Consumato.
Non
da te... Da te vorrei soltanto essere amato, Louis.»
e
mentiva, mentiva perché ancora lo amava, ma sapeva di non
poterlo
avere. Non
poteva
avere un uomo sposato anche se lo amava con tutta la sua
anima. Esatto, non con il cuore, ma con l'anima. Il cuore
era per i
sentimenti tormentati, quelli sporchi e si rompeva troppo
facilmente,
ma l'anima... L'anima era per i sentimenti puri, luminosi e
belli e
quello che lui provava per Louis era puro nonostante tutte
le
cicatrici, nonostante la cenere. Nonostante tutte quelle
ferite
ancora aperte.
«Io-»
voleva
rispondere qualcosa perché non poteva semplicemente incassare
il colpo e ammettere che Harry tutto sommato aveva ragione. Lo amava
anche lui ma non poteva tornare e pretendere che gli si gettasse tra
quelle braccia che erano state fatte solo per sostenerlo. Lo amava
con tutta la sua mente perché il cuore l'aveva messo via.
«Non
dire
nulla, ti prego. Non rendere tutto questo ancora più
difficile.»
Louis
non
replicò e imboccò l'uscita dell'autostrada. Lo avrebbe
riportato in hotel, se era quello che voleva, ma non lo avrebbe
abbandonato di nuovo.
No,
non quella volta.
«Happy
birthday to you, happy birthday to you! Happy birthday
to Harry, happy birthday to you!»
Alla
fine
il suo compleanno era arrivato e lui aveva compiuto venticinque
anni. Un quarto di secolo. Wow. Sorseggiava il suo Sex on
the beach con disinvoltura e sua sorella gli aveva organizzato
una piccola festicciola/aperitivo in un locale non molto lontano dal
loro hotel e aveva invitato anche alcune sue amiche che aveva
conosciuto all'università e che vivevano lì a San Francisco.
Harry
avrebbe preferito la roulette russa.
Non
odiava i compleanni, gli piaceva festeggiarli, ma non circondato da
uno stormo di oche le quali argomentazioni comprendevano la ceretta,
la pillola anticoncezionale e quei ridicoli romanzetti rosa che lui
odiava. Ma da dove veniva poi questa sua mania di stereotipare ogni
donna con la quale aveva che fare? Era davvero colpa del suo lavoro o
c'era dell'altro? Stava diventando uno di quei maschi alfa che aveva
sempre odiato e di cui leggeva nelle bozze che correggeva per lavoro
e si disprezzava come mai prima d'ora.
Non
vedeva Louis da giorni e forse era meglio così, solo che gli mancava
e non riusciva più ad ignorare quel vuoto che aveva nel petto da
quando era sceso dalla sua macchina. C'era riuscito una volta a
ignorare la sua assenza, non era poi così convinto di potercela fare
ancora.
Gli
serviva una scusa per allontanarsi da quel tavolo e non sarebbe
bastato un semplice "vado in bagno", no, serviva qualcosa
di più efficace perché lo sguardo di Gemma non lo mollava nemmeno
per un secondo e sarebbe stato difficile – se non impossibile –
scappare.
Sentì
il
cellulare vibrare nella tasca dei suoi skinny neri e subito lo
tirò fuori per leggere il messaggio che gli era arrivato.
Passo
a prenderti tra 10 minuti – Louis
Come
aveva fatto a trovarlo? Come era riuscito ad avere il suo nuovo
numero?
Stalker.
Dieci
minuti.
Istintivamente
si
alzò dalla sua sedia con impeto e quella cadde a terra con un
tonfo. Fregandosene della furia omicida scatenatasi negli occhi di
sua sorella, afferrò il cappottò e lo indossò in fretta e furia.
Nove
minuti.
«Scusa,
dove
stai andando?» Gemma sembrava irritata – o isterica? – e
quella volta davvero non poteva assolutamente dargli torto. Solo
che lui doveva andarsene.
«Non
lo
so.» ancora quella risposta, era stato contagiato.
«Harry,
non
scherzare» lo invitò a rimettersi a sedere con un cenno della
mano.
Otto
minuti.
«Non
sto
scherzando!» esclamò seccato «Ciao sorellina, grazie per la
bella serata!» di merda, avrebbe voluto aggiungere, ma se lo
risparmiò. Detto questo, si allontanò dal tavolo senza nemmeno
salutare le amiche di Gemma che probabilmente non si erano accorte di
nulla. Sua sorella gli urlava dietro di tornare subito lì – ma
lì dove? – ma Harry ovviamente non l'ascoltava.
Sette
minuti.
Uscì
da
locale e Louis era già lì che lo aspettava fuori dalla sua
macchina parcheggiata.
Come
aveva fatto a trovarlo? Come era riuscito ad avere il suo nuovo
numero?
Erano
passati
in fretta quei dieci minuti!
«Do
you
wanna dance? Do you wanna dance? Do you wanna dance in the bar at
the back of the hall?» in macchina, con Louis, senza
rispettare il limite di velocità con il CD dei The 1975 a
tutto volume. Quello sì che era il compleanno che aveva sempre
desiderato e assomigliava un po' a quello dei suoi ventun'anni,
peccato che non ricordasse molto di quella volta. Colpa della
tequila, mica sua.
«And
I
say do you wanna dance? Do you wanna dance? Do you wanna dance at
the back of the hall?» cantavano insieme quello che, avevano
scoperto, era il CD preferito di entrambi. Harry si chiese se davvero
potevano continuare a vivere lontani due come loro, che avevano
condiviso troppo e che avevano da vivere ancora troppi giorni
insieme.
«AND
IT
TAKES A BIT MORE!» urlarono insieme, i finestrini aperte e le
strade semi deserte di una San Francisco che Harry non conosceva.
Giravano in macchina da ore, erano quasi le tre del mattino (o della
notte) e quella era la notte più bella della sua vita, anche più
bella di quelle passate a far l'amore sul letto o contro un muro. Non
aveva mai chiesto altro che quello e qualcuno lassù sembrava averlo
finalmente accontentato anche se probabilmente quella era l'ultima
volta in cui un suo desiderio diventava realtà. Era una notte strana
e i lampioni che illuminavano la strada sembravano tante fiammelle di
tante piccole candele accese solo per loro. Le mani di Louis strette
intorno al volante e le sue abbandonate ai lati del sedile. Non
sentiva freddo anche se l'aria gelida che entrava dal finestrino
aperto gli graffiava il viso pallido e gli accarezzava i capelli.
«Hai
freddo?»
Louis non lo guardava, gli occhi fissi sulla strada e gli
era grato per questo perché il suo corpo non era più in grado di
sostenere il suo sguardo pesante. I suoi occhi lo trapassavano come
dardi avvelenati, lo avevano sempre fatto, e sembravano capirlo
meglio di quanto avesse potuto fare lui.
«No,
sto
bene.» stava bene davvero, erano anni che non si sentiva così
vivo. La musica, il suo CD preferito, il ragazzo che amava, una città
nella quale avevano visto crescere il proprio amore e quella in cui
si erano detti 'ti amo' per la prima volta; Harry aveva
venticinque anni da un giorno e qualche ora, ma sentiva di averne di
nuovo diciotto e la luce che illuminava il volto magro e spigoloso di
Louis gli ricordava la stessa luce che aveva visto nei suoi occhi la
sera che lo aveva conosciuto.
«Sei
sicuro?»
«Sì.»
Senza
una
meta continuavano a girare in tondo e le strade si susseguivano,
sempre uguali e tutte più o meno deserte. San Francisco brillava in
quelle sue mille luci che l'avvolgevano e se nel cielo c'erano
stelle, Harry non riusciva a vederle. Gli mancava New York e gli
mancava casa sua, ma tanto le stelle non sarebbe
riuscito
a vederle nemmeno da lì.
«Pensi
ancora
quello che mi hai detto l'altro giorno?»
Aveva
aspettato
prima di fargli quella domanda e quasi aveva pensato di
tenerla per sè, ma non poteva ignorarla e far finta di nulla. Doveva
sapere se aveva ancora una possibilità di riaverlo indietro o se
davvero lo aveva perduto per sempre.
«Louis-»
«Harry,
no,
voglio saperlo.»
«Non
ha
importanza quello che penso, ha importanza questo momento e io non
voglio rovinarlo.» la sua mano sul suo braccio e il cuore che gli
scoppiava nel petto «Portami al Golden Gate Bridge.»
«Sei
sicuro?»
«Sì.»
Spinse
l'acceleratore
e Harry conficcò le unghie nella pelle del sedile. Lo
odiava quando correva in quel modo, ma lo eccitava con quello sguardo
concentrato e le mani serrate intorno al volante. Conosceva quella
presa, l'aveva sperimenta su di sè innumerevoli volte.
I'll
give
you one more time
We'll
give you one more fight
La
voce
di Matty Healy era l'unico rumore percettibile nell'auto.
Nessuno dei due parlava più e Robbers risuonava con le sue
parole disperate, un po' strane e forti. Harry guardava fuori dal
finestrino e attendeva il momento in cui il ponte che non aveva mai
avuto il coraggio di attraversare. Il Golden Gate Bridge era
il simbolo della città di San Francisco e la collegava con la parte
meridionale della contea di Marin. Sua sorella c'era stata qualche
giorno prima con una delle sue amiche e gli aveva detto che era
proprio come nei film, una figata unica. Harry l'aveva
mandata
a quel paese ed aveva subito rivolto la sua attenzione ad 'Eighteen'.
Gli
era mancata quella storia, gli mancava il suo passato.
«Ci
siamo
quasi.»
Il
Golden Gate Bridge era
anche detto il
ponte
dei suicidi, con
la
media di un suicidio ogni due settimane e in effetti, pensò
Harry, anche lui sarebbe andato fin lì se un giorno avesse voluto
suicidarsi. Il ponte era di quel caratteristico colore arancione
internazionale che
lo rendeva visibile anche con la nebbia. Grande, imponente e
lunghissimo, quel ponte era un'opera d'arte,
il frutto della perfetta unione tra ingegneria e archittetura.
«Non
è più possibile suicidarsi qui.» esordì Louis, ridacchiando dello
sguardo preoccupato di Harry. Stavano attraversando il ponte;
l'affluenza del traffico era minima a quell'ora della notte.
«Come
mai me lo dici?» possibile che ancora riuscisse a leggergli nel
pensiero?
«Non
so, caso mai ti venisse voglia di farlo...» i loro occhi si erano
incontrati per circa pochi secondi e Harry era diventato rosso come
un bambino colto con le mani sporche di una tavoletta di cioccolata
che non avrebbe dovuto mangiare.
«Oh...»
sospirò con innocenza, un'innocenza che in Louis scatenò una voglia
quasi animalesca di sbatterselo in quel preciso istante.
«Devi
superare le tue paure.» disse con noncuranza da medico annoiato e
premendo un piccolo bottoncino sul cruscotto che Harry non aveva
notato prima. Il tettino dell'auto sopra di loro cominciò ad aprirsi
e il cielo fu presto visibile con tutte le sue sfumature di blu. Era
uno spettacolo divino, una tela dipinta dal pennello sapiente di
un'artista che non era riuscito a regolarsi con i colori e allora
troppo blu, un po' nero e una puntina di bianco per tracciare le
linee di quella volta celeste così intensa e brillante.
«È
bellissimo.»
Louis
sorrise soddisfatto e lo osservò con la coda dell'occhio mentre si
metteva in piedi sul sedile e con il busto fuori dalla macchina
sollevava il capo verso il cielo.
Cause
you're my medicine
Yeah
you're my medicine
Aveva
un
corpo e finalmente riusciva a sentirlo. La vita scorreva in lui
veloce come mai prima d'ora. Ora le stelle riusciva a vederle e
brillavano, brillavano così forte e così vicine a lui che temeva
gli fossero cadute negli occhi. Urlò perché era felice, perché
quel ponte non lo spaventava più e perché viaggiava in piedi sul
sedile di una macchina, sospeso sull'Oceano Pacifico e un cielo sopra
di lui che non aveva mai sentito così suo.
I,
I
wanna marry you
Said
I, I adore you
And
that's all I have to say, bye-bye
And
you opiate this hazy head of mine
Louis
canticchiava
e avrebbe volentieri smesso di guidare solo per
guardarlo e bearsi di quella vista magnifica che proprio accanto a
lui stava prendendo vita. Harry urlava perché era felice,
finalmente, dopo tutto il tempo che aveva passato a cercare qualsiasi
cosa pur di avere uno scopo nella sua vita. Louis se ne era andato,
Louis si era portato via il suo diario, Louis aveva pubblicato il suo
libro, ma Louis era tornato, Louis era lì con lui, Louis gli aveva
ridato quella vita che gli aveva rubato e lui avrebbe scritto di quei
momenti, avrebbe scritto di quella notte che aveva attraversato il
Golden Gate Bridge e aveva urlato per la gioia, per la vita
che sentiva esplodere nel petto, per quel cielo trapunto di stelle
che brillavano opache come diamanti grezzi e scheggiati.
Aveva
una nuova storia da raccontare.
«Louis»
«Sì?»
sbadigliò
svogliatamente.
«Credo
di
amarti ancora.» ma era più come se ne avesse la certezza.
Erano
ormai
giunti quasi alla fine del ponte ed Harry era tornato a sedersi
accanto lui. Eccitato, freddo, pieno di vita.
«Harry,
sei
ubriaco. Ti riporto subito in hotel.»
«Passa
la
notte con me, Louis.»
Erano
arrivati
davanti alla porta della camera di Harry tra un'imprecazione
e l'altra, tra baci e carezze che li serravano in una morsa stretta
di braccia e gambe. L'uno baciava la terra sotto i piedi dell'altro
come era sempre stato e le ginocchia crollavano al suolo, richiamate
al loro posto. Erano entrati nella stanza come per miracolo ed
entrambi si erano dimenticati di accendere la luce, sbattendo contro
gli spigoli, i mobili e il muro che stava sempre dove non doveva
trovarsi. E ancora dieci, cento, mille baci. Baci sulla
guancia, baci sul collo, baci sul mento. Baci sulle clavicole, baci
sul polso, baci sulla spalla seguiti da piccoli morsi famelici. Il
cappotto di Harry fu il primo a finire a terra, seguito pochi istanti
dopo da quello di Louis. Le mani tremavano, i vestiti non volevano
strapparsi e le dita cercavano la via più breve per raggiungere
quella pelle che conoscevano e ricordavano bene, come un bel sogno o
un incubo ricorrente.
Con
le
dita incerte Harry riuscì a slacciare i bottoni della camicia di
Louis che non ebbe lo stesso rispetto per la sua e gliela strappò di
dosso con violenza. Era la sua preferita, cazzo. Grugnì nel
bacio e quello stronzo sorrise, soddisfatto e orgoglioso di quel
gesto rude e quasi cattivo. Il muro freddo premeva contro la sua
schiena e Harry ripensò a tutte le altre volte che si era ritrovato
in quella posizione con Louis premuto contro il suo petto e i
pezzetti d'intonaco scadente che gli restavano incollati sulla pelle
sudata della schiena. Con una mano riuscì a raggiungere
l'interruttore della luce e nel momento stessa in cui l'accese, Louis
fermò il bacio per guardarlo con astio.
«Spegnila»
«Cadremo
sul
pavimento nel tentativo di raggiungere il letto, se spengo la
luce.»
«Non
importa,
non l'abbiamo mai fatto sulla moquette.» e nella stanza
tornò di nuovo il buio. Il bacio riprese da dove l'avevano lasciato
ma più spinto, come se volessero completarsi, addentrarsi l'uno
nell'altro come in un bosco quando è sera. Amavano per non
ammalarsi, si ammalavano per non amarsi. Era una tortura, un
tormento, una lama che lacerava la pelle e sangue che colava a terra.
Non c'era speranza per loro perché il loro amore era sempre stato
fuoco, un processo chimico, una combustione lenta e perpetua che li
consumava dall'interno e li univa in un'unica fiamma come Ulisse e
Diomede.
Raggiunsero
il
letto a tentoni, ma senza cadere per terra. La sveglia segnava le
quattro e ventisette e dalla finestra entrava una luce soffusa,
delicata e morbida come le mani di Louis che risalivano sulle sue
gambe ancora fasciate dai suoi skinny jeans. Come il vento smette di
far sbattere le imposte delle finestre, la bocca di Louis battè la
ritirata dalle sue e – giusto il tempo di un sospiro – le sentì
infilarsi tra le fessure dei suoi jeans strappati. Gli baciava le
ginocchia con lentezza e dedizione come se avesse tra le labbra della
porcellana finissima. Inarcò la schiena e ansimò; i capelli
incollati alla nuca sudata, le palpebre pesanti e gli occhi che
faticavano a restare aperti, sopraffatti anch'essi dal piacere.
«Fammi
vedere
i tuoi begli occhi verdi.» sussurrò lieve come un sospiro e
il ragazzo sotto di lui tremò contro il suo corpo. Louis non
ricordava quando fosse stata l'ultima volta che si era sentito così
e forse non c'era mai stato un precedente. Il sesso con Harry era
sempre stato più simile a una lotta tra graffi e urla ma quello era
amore, Louis lo sentiva come sentiva i suoi ricci scivolargli tra le
dita. Aveva lasciato crescere i capelli che formavano un aureola
intorno alla sua testa. Era un angelo, era un diavolo, era tutto
quello che aveva sempre cercato e che si era lasciato scappare con un
banale errore di distrazione.
«Sta
zitto
e baciami.» con voce strozzata, come se stesse per esalare il
suo ultimo respiro. Era quella l'ultima battaglia di una guerra che
non avevano più le forze di combattere. Quello era amore e Harry lo
sentiva come sentiva un peso schiacciarlo contro il letto. Anche lui
aveva lasciato crescere i capelli e la barba, gli occhi erano più
luminosi e blu e le orecchie piccole come le ricordava. Il baciò
arrivo poco dopo proprio come richiesto mentre le dita abili di Louis
percorrevano il profilo dei suoi tatuaggi. La nave e poi la rosa,
l'ancora e poi quel piccolo 'Hi'. Ricambiò il gesto. La
bussola e poi il pugnale, la corda e poi quel piccolo 'Ops'. Uniti
per
la vita, anche senza volerlo, da quei tatuaggi che sarebbero
rimasti nonostante i matrimoni, le convivenze, la distanza che c'era
tra loro.
«A
diciott'anni
eravamo due stupidi.»
Gli
aveva
sfilato gli skinny a fatica poi era tornato di nuovo su di lui.
Ora lo guardava e gli accarezzava i capelli con dolcezza lasciandogli
anche qualche lieve bacio sulla fronte e sul naso.
«E
quindi?»
ansimò, circondandogli la vita con le braccia per
avvicinarlo di più a lui.
«Ti
amo
come uno stupido.»
Sorrise
per
distrarlo mentre con la furbizia di una volpe si apprestava a
sfilargli anche gli slip. Non riusciva più ad aspettare. Voleva
trovarsi dentro di lui, di nuovo.
«Siamo
due
stupidi.»
Entrambi
nudi,
lì a mostrare ferite di vecchie battaglie perse e più volte
combattute. Era bello aspettare prima di far l'amore, guardarsi l'un
l'altro e riconoscere nel corpo dell'altro le proprie debolezze, le
proprie stranezze, le proprie cicatrici. Seduto sopra di lui, Louis
non distoglieva lo sguardo dal suo. Si sentiva in colpa, perché
l'indomani sarebbe svanito tutto e lui sarebbe tornato a casa da
Eleanor e Harry avrebbe dovuto affrontare di nuovo la sua scomparsa.
Non poteva fargli questo, non un'altra volta. Ma quelle braccia erano
fatte per tenerlo stretto a sè e non poteva ignorarlo. Era la sua
metà, il suo yang, la sua persona, la sua anima affine, tutto
ciò che aveva sempre cercato, l'altro capo del suo filo rosso,
quello per cui avrebbe sempre lottato.
«Louis,
non
importa.» sembrava ancora riuscire a leggergli nel pensiero.
«E
domani?
Cosa dirai domani?»
«Almeno
ti
avrò avuto per un'ultima volta, quello che dirò o che penserò
ora non importa.»
Baby
I don't want to feel alone
La
loro
prima volta era stata strana. Erano in campeggio ed era
successo. Era semplicemente successo. Harry dormiva, era notte
fonda e a un tratto si era risvegliato perché Louis era entrato di
soppiatto nel suo sacco a pelo. Lo avevano fatto e la tenda non si
era smontata per miracolo. Erano stati un po' impacciati, ma era
stato bello poi aspettare l'alba insieme e rendersi conto di averlo
fatto davvero.
Timidi
e
insicuri come la prima volta di una lunga serie, quella notte in
hotel l'avevano fatto di nuovo con un cuore per due che tremava e i
loro corpi che si abbandonavano l'uno all'altro. Nessuno dominava
sull'altro, era un reciproco scambiarsi di pelle e di ossa per
rinascere, ritornare, rivivere un amore che era troppo forte per
essere vissuto una sola volta. Louis leccava il sudore sulla pelle di
Harry mentre ancora non si decideva a spingersi oltre tutti i suoi
limiti per entrare in lui. Non voleva fargli altro male, ma rischiava
di impazzire, erano anni che lo toccava, che non lo sentiva suo che i
palmi delle sue mani non scivolavano lungo le sue natiche e le sue
cosce.
Piangendo,
perché
avrebbe preferito non cedere alla tentazione, scivolò in lui
con facilità, troppa, ed erano così vicini che avrebbe preferito
sentire la sua mancanza piuttosto che averlo lì, tutto per sé, e
dovergli dire addio.
Gli
tirò
i capelli perché un po' di quel dolore che aveva doveva
sentirlo anche lui e l'ultima cosa che vide fu una L tatuata
dietro l'orecchio destro.
I
have loved you since we were eighteen
Long
before we both thought the same thing
To
be loved and to be in love
«Potresti
trasferirti
a New York.» giocherellava con i suoi capelli morbidi e
setosi, un po' in disordine dopo il sesso.
«Il
mio
posto è qui.» rispose con voce piatta. Il suo posto non era a
San Francisco, non lo era mai stato e il perché stesse cercando di
convincersene era un mistero anche per lui.
«E
il
mio posto è ovunque sia tu.» da sempre, da quando avevano
diciotto anni.
«Sembra
una
condanna.»
«Nulla
è
una condanna con te, Louis.»
Oh
love, let’s split the night wide open and we’ll see
everything
We
can
live in love in slow motion
Se
ne
andò di nascosto perché era la cosa migliore per tutti. Non
aveva più nulla da fare lì a San Francisco perché tutto quel che
aveva da ritrovare lo aveva già trovato e perso ancora una volta.
Sua sorella probabilmente lo avrebbe ammazzato quattro o cinque
volte, però lui doveva andarsene. Avrebbe anticipato il suo volo di
ritorno di qualche giorno, non era poi così grave. L'hotel era già
pagato, il giro turistico della città lo aveva fatto, aveva
attraversato anche il Golden Gate Bridge e
aveva
fatto anche sesso in quel letto che – se proprio doveva dirla tutta
– era anche piuttosto scomodo. Continuava a preferire il muro.
Fece
i
bagagli in pochi minuti ma non ripose nella valigia la camicia che
Louis gli aveva strappato la sera prima, quella la raccolse da terra
e l'adagiò sul letto dove lui ancora dormiva pacificamente. La testa
abbandonata sul cuscino e le dita che stringevano le coperte. Faceva
male vederlo così e sapere di doverlo lasciare, quella volta per
sempre. Strano il destino, pensò, qualche anno prima era stato
Louis a lasciarlo solo in un letto e adesso accadeva essatamente il
contrario. Era lui ad andarsene prima che il dolore divenisse
insopportabile come un fischio nelle orecchie. Lasciarsi, ritrovarsi.
Cercarsi, perdersi di nuovo. La loro storia era andata così e forse
era davvero giunto il momento di farla finita. Forse non si sarebbero
arresi, forse in un'altra vita si sarebbero rincontrati e tutto
sarebbe andato per il verso giusto. Loro due contro il mondo e
contro tutti.
Never
planned that one day
I'd
be losing you
Avevano
lottato
e si erano persi comunque. La storia che Harry aveva scritto
e che Louis aveva pubblicato aveva un lieto fine. Ma esisteva davvero
per loro due la possibilità di essere felici? Harry ne dubitava e
iniziava anche a pensare che 'Eighteen'
non meritava
un
lieto fine. Edward e
William non meritavano
la felicità, se poi lui e Louis non potevano vivere la loro vita
insieme. E perchè poi? Perchè la somma delle loro scelte sbagliate
e di tutti i loro errori era negativa? La matematica faceva schifo,
lui l'aveva sempre detto e alla fine anche Louis, che
aveva studiato economia, aveva pubblicato un libro, un romanzo
composto da tante di quelle che parole con le quali lui aveva sempre
preferito scherzare.
In
punta di piedi si avvicinò alla porta,
ma per terra, accanto al cappotto di Louis, ancora a terra come
tutti
i suoi vestiti, notò un piccolo quaderno
nero.
Lo
raccolse.
Era il suo, dopo tanti anni lo aveva ritrovato.
Il
quaderno
nero, quello che Louis aveva rubato prima di andarsene.
Prendere
o
lasciare, la scelta era sempre la stessa.
Prendeva
il
diario, lasciava andare Louis.
Ritrovava
il
suo romanzo, perdeva di nuovo l'uomo che amava.
Rise.
Entrambi
non
li avrebbe avuti mai.
Senza
far rumore uscì dalla stanza e si avvicinò all'ascensore. Lasciava
tutto lì a San Francisco, la città che aveva imparato ad amare e
che gli aveva portato via tutto, ogni cosa. Nulla era cambiato e
ora
l'avrebbe odiata di nuovo, come una storia che si ripete
eternamente.
L'aveva studiato anche a scuola. La
storia
si ripete, si ripete, si ripete.
La
storia
si ripete e noi non impariamo mai da essa.
La
storia
siamo noi.
La
storia,
la sua storia, erano lui e Louis.
In
another
life
I
would make you stay
So
I
don't have to say
You
were
the one that got away
«Ho
sposato
un coglione»
Eleanor
era
un'esperta nel dargli il ben tornato ogni volta che rientrava a
casa. Chissà se era più arrabbiata per l'ora o perché non aveva
dormito a casa quella notte.
«Te
ne
sei accorta presto.» rispose ironicamente lanciando il cappotto
sul divano. Quella mattina si era svegliato e Harry non c'era. Lo
odiava. Quella mattina si era svegliato ed era solo. Aveva
bisogno di un bicchiere di rhum. Quella mattina si era
svegliata
ed Harry non c'era. Era solo. Ora capiva come doveva essersi
sentito.
«Aspetti
per
anni che il tuo ex ragazzo venga a cercarti, lui finalmente ti
trova e tu cosa fai? Lo lasci andare per la seconda volta.» si voltò
per guardarlo. Chissà che aspetto aveva un uomo distrutto, forse
avrebbe dovuto guardarsi allo specchio per capirlo «Dovrebbero darti
un premio.» aggiunse sarcastica. Aveva imparato dal migliore.
«E
cosa
dovrei fare? Corrergli dietro? È lui che se ne è andato questa
volta, non ho intenzione di perdere altro tempo con qualcuno che
evidentemente non mi vuole davvero.» bugia.
«Tu
stai
male.» lo pensava davvero. Era anche un po' preoccupata, suo
marito delirava o forse era ubriaco già alle undici di mattina.
Grave in entrambi i casi.
«Dio,
Eleanor,
non guardarmi come se fossi pazzo.»
«Senti,
avevo
intenzione di aspettare, ma ecco a te.» gli porse due buste di
carta bianca e Louis la guardò con aria interrogativa.
«Che
roba
è?» disse senza afferarle.
«Queste»
agitò
la prima busta «Sono le carte per il divorzio.» sorrise
sinceramente «E questo» disse rigirandosi la seconda busta tra le
mani «È un biglietto di sola andata per New York.»
«Stai
scherzando»
divorzio, New York. O era morto o aveva le
allucinazioni. Grave in entrambi i casi.
«No
e
ora vai a fare la valigia o ti prendo a calci in quel culo che –
Dio, ma perchè sei gay?»
«Ti
amo,
seriamente.» corse ad abbracciarla. Come moglie era stata
fantastica, nonostante la tragicomicità della loro situazione – ma
come marito aveva fatto proprio schifo – ed era stata anche una
grande amica e avrebbe continuato ad esserlo per sempre.
«Dillo
un'altra
volta e ti sculaccio, almeno posso godere anche io un po' di
quel culo – Ma sei proprio sicuro di essere gay, Louis?»
«TI
AMMAZZO,
GIURO CHE TI AMMAZZO»
Era
trascorsa
una settimana – una settimana che aveva trascorso in
preda all'ansia – dalla sua fuga e sua sorella finalmente lo aveva
chiamato per sfogare la sua isteria.
«Oh,
Gemma,
ciao anche a te.»
«Mi
sveglio
dopo una notte di intensa movida con un hangover
micidiale e scopro che te ne sei andato da San Francisco SENZA DIRMI
NULLA. Spero che tu abbia una spiegazione valida per questo e spero
anche che tu riesca a giustificarmi la presenza di Louis
Tomlinson-lo-scrittore in camera tua perché io ancora non
me la spiego.» Gemma quella mattina con i capelli in disordine era
corsa a bussare alla porta del fratello per sapere dove era stato la
notte precedente e il suo scrittore preferito le aveva aperto la
porta dicendole che Harry se ne era andato. E lei era svenuta.
«Sono
gay,
ma questo lo sai visto che cerchi di farmi uscire con i tuoi
colleghi da anni. Io e Louis siamo stati insieme al college. Sai
quando incontri una persona e capisci che non amerai mai nessun'altro
in quel modo schifoso? Ecco, a me è andata così. Siamo stati
insieme per un bel po' di tempo e ci siamo amati, feriti, graffiati.
Siamo bruciati insieme e ci siamo consumati a vicenda. A me a piaceva
a scrivere, a lui no. Studiava economia e con le parole ci scherzava,
mi feriva anche. Abbiamo fatto sesso nei posti più disparati e posso
dire con certezza che il mio preferito è il muro. La mia schiena
contro la parete e lui contro di me, le sue labbra sulle mie e le
sue
mani ovunque. Una mattina lui ha deciso di andarsene e di
lasciarmi con un bigliettino sul letto. Era Dicembre, non lo
dimenticherò mai. Si è portato via anche il mio romanzo quel
giorno, oltre alla mia vita, perchè sì, Gemma, 'Eighteen'
l'ho scritto io e lui l'ha solo pubblicato.» non era così che
aveva pensato di raccontare la verità a sua sorella ma l'aveva fatto
e non se ne pentiva.
«Oh
cazzo.» non urlò, strano.
«Sconvolta,
sorellina?»
«No,
è
solo che non pensavo che anche tu avessi un cuore.»
Era
a
New York da una settimana quando Eleanor una mattina l'aveva
chiamato per dirgli che aveva scoperto dove abitava Harry. Quella
donna aveva davvero mille risorse e lui non era sicuro di voler
sapere come fosse riuscita a trovare quell'indirizzo che cercava
disperatamente da giorni.
Con
le
gambe che tremavano e il cuore in gola saliva a piedi le scale
fino al decimo piano, dove Harry viveva. C'era anche l'ascensore, ma
lui aveva bisogno di tempo per pensare a cosa doveva dirgli. Forse un
discorso avrebbe dovuto prepararlo con un certo anticipo ma lui non
aveva avuto tempo, troppo impegnato a cercarlo e a cercare di non
impazzire nel caos della Grande Mela.
Nonostante
le
scale e le gambe doloranti – non era più abituato a tutta
quella attività fisica – il decimo piano arrivò troppo in fretta
e aveva suonato al campanello di casa Styles senza nemmeno rendersene
conto.
Quando
Harry
gli aprì la porta sentì le gambe cedere e anche se avesse
voluto scappare, correre giù per le scale per ritrovarsi in strada e
farsi mettere sotto dal primo taxi che vedeva.
«Cazzo!»
urlò il riccio e gli richiuse la porta in faccia.
Cazzo?
Sei ore di volo da San Francisco
a New York solo per andarlo a cercare e alla fine tutto ciò che
riusciva a dirgli era un semplice, banalissimo, cazzo? Ma
non si arrese perché un Tomlinson non si arrende mai e anche se
sbaglia piuttosto che rinunciare, continua a sbagliare e a cadere
fino a farsi del male. Stupido, ma incredibilmente
coraggioso.
«Non
sia mai ch’ io ponga impedimenti
all’unione
di
anime fedeli; Amore non è amore
se
muta
quando scopre mutamenti
o
tende a svanire quando l’altro si allontana:
Oh
no!
Amore è un faro sempre fisso
che
sovrasta
la tempesta e non vacilla mai;
è
la stella guida di ogni sperduta barca,
il
cui
valore è sconosciuto, benchè nota la distanza.
Amore
non
è soggetto al Tempo, pur se labbra rosee e gote
dovran
cadere
sotto la curva lama;
Amore
non
muta in poche ore o settimane,
ma
impavido
resiste al giorno estremo del giudizio:
se
questo
è errore e mi sarà provato
io
non
ho mai scritto, e nessuno ha mai amato»
Harry
seduto per terra, la schiena contro la porta, lo ascoltava mentre
decantava Shakespeare e pensava che fosse impazzito del tutto. Ma
davvero pensava che per riaverlo indietro bastasse volare fino a New
York e dedicargli uno dei suoi sonetti preferiti? No, doveva
aprirgli
la porta e dirgliene quattro.
«Ok,
io me ne vado.» disse Louis un po' scoraggiato. Non era servito a
niente tornare a cercarlo e doveva arrendersi anche se lo amava come
non aveva mai amato nessuno. Lo amava così tanto che bruciava; lo
amava così tanto da farsi schifo.
«Dove
cazzo vai, io ti amo.» gli dava le spalle, stava per scendere il
primo gradino. Aveva aperto la porta, alla fine, perché non avrebbe
sopportato di perderlo ancora «Non andrai da nessuna parte, io ti
amo.»
Louis
si voltò e gli corse letteralmente in braccio, la terra che gli
mancava da sotto i piedi perché lui gliela toglieva per farlo
camminare su pugnali e petali di rosa.
«Ti
amo anche io.»
Harry
e Louis si sono sposati e
hanno adottato tre bambini: Christian,
Lyo e Darcy.
Harry
non
ha mai ripubblicato 'Eighteen', ma
ha
preferito scrivere 'Don't let me go': la
storia
di come un giorno di Dicembre perse
il suo diario e di come riuscii
a ritrovare Louis.
Louis
ha
fondato una casa editrice. Pubblica i libri di Harry e quelli di
chi è stanco di lasciarsi sorpassare dai mediocri.
Gemma
ha
sposato un californiano, alla fine, e vive a Los Angeles. Ogni
tanto lo insulta e insulta anche
la California. Long Island gli manca e quel newyorkese di suo
fratello anche, ma
gli urla quasi ogni fine settimana per telefono e va bene così.
Eleanor
è
andata a convivere con una certa Sophia. Da quello che Louis è
riuscito a capire, durante una delle loro lunghe telefonate del
venerdì sera, anche lei è stata lasciata
dal suo ragazzo che è scappato via con un altro uomo. "È
stato rapito dal suo fascino esotico",
ha confessato a Louis.
San
Francisco
è ancora lì. Il Golden Gate Bridge ancora non è crollato
e i venditori ambulanti espongono ancora opere d'arte per le strade.
Louis
continua
a dire che il loro è un amore da cinema e Harry finalmente
ha capito perchè. Stanno insieme da quando hanno diciotto anni e non
importa se per ritrovarsi abbiano dovuto prima perdersi, perché ora
che stanno insieme non c'è più niente che possa allontanarli.
Happily
ever after.
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