julien 2
Note: Questo testo è una libera interpretazione dell'omonima
(nonché stupenda) canzone dei Placebo, contenuta nel nuovo disco
"Battle for the sun". Ho iniziato a riflettere su di essa dai primi
ascolti, e la storia mi si è presentata alla mente, seppur
vagamente. Ora ve la propongo, sperando che qualche fan possa dirmi
cosa gli trasmette e cosa ne pensa. Mi farebbe piacere. Buona lettura!
Prologo: I’m Julien, I’m happy
(Julien)
Mi stendo sotto l’ombra del soffitto, così basso che sembra
precipitare sulle mie costole, e respiro un po’ a fatica. La
sigaretta si consuma in fretta, il tempo sembra quasi una relativa
goccia di cenere liquida, scivola sulle guance fino al cuscino,
imbrattando i capelli sudati. Non è la posizione migliore per
fumare, per vivere, per guardare il mondo. Sembra tutto così
grigio.
“Julien, cos’hai?” mi chiede qualcuno.
Mi volto stranito e quasi rido: avevo dimenticato che lei fosse qui.
Mi alzò tremando, mi sento debole…sarà la stanchezza, certo, nient’altro potrebbe abbattermi.
“Dammi una striscia” le dico, ed Erika sorride.
Ne prepara una sul tavolino, e fissarla all’opera mi fa allargare
la visuale, ricordandomi che sono nel suo monolocale, al centro di
Londra, nella periferia del mondo. Ogni buco di paese è solo un
buco di culo, nient’altro. E le stronzate nazionalistiche sono
solo sputi verso il cielo.
Ma non devo pensare a questo, non devo riflettere su nulla.
C’è la polvere bianca come neve nel deserto, perché
chiedersi cos’è la vita? Perché fregarsene della
povertà? Perché pensare? E’ stupido.
Mi abbasso e tiro, quando mi rialzo sono vivo. Sono felice.
Pensavo che mai l’avrei rivisto. Spesso spengo la tv quando sento
la musica, evito di guardarla ormai. Non prendo in mano nessun
giornale, tanto meno quelli di gossip e musicali. Temo tremendamente di
rivederlo e ricordare, che la miccia si accenda e illumini la caverna
scura dove ho relegato le mie paure. Sì, evito ogni contatto
visivo con quegli occhi verdi, per far perdere la traccia scura ma
brillante che nella mia mente mi ricollega al passato. Ho fatto di
tutto per dimenticare. Ogni giorno cerco di cancellare quello
precedente, sommando spazzatura su spazzatura di ore perse. E
così sto meglio, la droga mi aiuta. L’ha sempre fatto.
Anche dopo di lui, soprattutto.
Ero convinto fin oggi che sarei rimasto immune al peso del passato.
Invece ora sono qui, impalato di fronte ad un cartello, a uno stupido
pezzo di carta colorata appiccicata al metallo. Solo colori senza
senso…se non fosse per quel nome, scritto quanto più
grande possibile come se qualcuno sapesse e volesse piantarmi nel cuore
quelle lettere, per farmi più male che può.
Quella semplice parola mi distrugge, elimina ogni mia resistenza, abbatte i miei teatri mentali: “Placebo”.
Prologo 2: Remember
(Brian)
Questo concerto sarà una serata piacevole, ne sono certo. Una
cosa vecchio stile, uno spettacolo per pochi qui a Londra, in un locale
di quelli stile Jazz, fumoso e caldo, un buco di musica. Mi
divertirò, questa è la cosa che per me più conta.
Sono riuscito a scrivere i pezzi del nuovo album, tutti e tredici i
pezzi. Prima di mandarlo sul mercato voglio vedere la musica, di nuovo,
voglio sentire il sapore delle note, voglio avvertire ancora quella
sensazione intima della mia voce che penetra la mente degli
ascoltatori. La musica è sensuale per questo, e molti altri
sottili motivi. Un ago di puro astrattismo che trapassa ogni cellula
umana, la si gusta con tutti i sensi. Sublime.
Mi accendo una sigaretta e giro per il locale, pensando che è
uno dei pochi posti rimasti dove fumare non è vietato, anzi
è parte dell’ambiente. I manifesti non sono stati messi
per i muri di Londra, solo davanti al locale un grosso cartellone
annuncia la nostra presenza qui. Pochi invitati, non li ho scelti io e
non ho la minima idea del criterio che hanno usato, non mi importa
molto.
Salgo sul palco, relativamente piccolo, ma così
confortevole…una piccola casa rettangolare. E guardo il locale
vuoto, i tavolini rotondi, le sedie che sembrano così pesanti e
costose ma in realtà non valgono nulla, e il bancone più
in là con le bottiglie in bella vista, tutti i liquori di cui la
gente di qui va matta, che i lavoratori scolano a litri dopo una
giornata faticosa, scende nelle loro gole insieme al sudore, e che i
giovani si sentono già grandi nell’assaggiare. Anche i
bambini li bevono, e sorridono mentre negli occhi dei genitori brilla
l’inestimabile stella dell’orgoglio. Ma sto divagando, come
sempre. E a ricordarmelo è Steve, che mi guarda a braccia
conserte da sotto il palchetto. Gli sorrido pian piano e vedo che gli
scalda il cuore, diffondendo sul volto il calore che gli fa ricambiare
con spontaneità. Mi chiedo se il mio sia un dono o una maledetta
condanna.
“A che pensi?”
“Niente, un po’ di cose che voi americani non potete capire.”
Alla mia frecciatina risponde con una risata breve e quasi timida. Adorabile.
Mi chiedo dove sia Stef, ma ora la cosa non mi importa. Sto troppo bene
qui, mi sento così scaldato e quasi coccolato da ricordi che non
hanno forma, solo residui di sensazioni che posso appena percepire.
Perché allontanare questi ricordi con il presente?
Aspiro dalla sigaretta gustandola fino in fondo e ripensando ai primi
tempi, quelli in cui nessuno mi conosceva, in cui per il mondo ero solo
un ragazzino come tanti e la confusione era la peggiore delle droghe.
Mi esibivo per sputare rabbia e risentimento, per sbattere in faccia a
tutti la mia musica, credendo così di essere più
forte…in realtà mostravo solo le mie più intime
debolezze. La mia fragilità messa a nudo come un quadro
impressionista…poi ho capito: era per molti una bandiera, e
ancora lo è. Questa è la musica, la nostra musica, la mia.
E mi sembra di rivivere in una pallida luce quegli istanti frenetici,
il trucco e i vestiti, l’agitazione che si calmava solo quando
salivo sul palco e recitavo la mia farsa. Dietro la mia maschera ero
fragile, la mia stessa maschera ne era un manifesto.
Ora sto bene, me lo ripeto sempre. E per questo, perché quei
ricordi non sono altro che una parte essenziale di me, quelli che fin
qui mi hanno condotto, che posso guardarli con serenità.
“Bri, la smetti di guardare il vuoto?” mi chiede Steve, ora
dietro di me. “La gente non verrà mica per guardare te
impalato che fumi come un manichino turco?”
Lo guardo con rimprovero, ma dentro rido di gusto. Sì, sono decisamente sereno.
|