Ed
ecco qui, signori, abbiamo finito anche questo mappazzone. Il più
cliccato di sempre, nella mia pagina, il che vuol dire che perlomeno
ha riscosso un po’ di interesse.
Ringrazio
tutti quelli che sono passati da queste parti a dare un’occhiatina,
ringrazio molto chi mi ha messo in qualche lista e moltissimo chi è
stato così gentile da lasciarmi anche un parere.
Alla
prossima!
Terza
parte
Essendo
entrambi gravemente feriti, i due vengono inviati a un tranquillo
ospedale nelle retrovie, dove rimangono fino alla guarigione. È lì
che apprendono tramite un telegramma di aver ricevuto una settimana
di licenza-premio.
“Che
meraviglia, così ti posso invitare alla tenuta come ti avevo
promesso!” esclama Siegfried. Si è perfettamente ristabilito, i
suoi movimenti sono tornati agili e fluidi come quelli di un felino,
i lineamenti sono distesi e gli occhi non più febbricitanti e
lucidi di dolore.
Fissa
Friedrich con aspettativa. “Ti ricordi che te l'avevo promesso,
vero?”
“Certo.”
“E
allora cosa farai? Verrai da me?”
Lützow
abbassa gli occhi. Siegfried è di nuovo una statua crisoelefantina,
di nuovo una lama affilata. Non ci sono ombre, in lui, né lunari
lati oscuri. È un sole che irradia luce e calore con noncurante
generosità.
Si
morde il labbro. Ecco ricomparire la soglia, oltre la quale estasi e
perdizione lo attendono. Cosa succederebbe se la varcasse? Quali
sarebbero le conseguenze? Sa – lo sente, col cuore e con
tutto il corpo – che il rapporto con lui non sarebbe solo
un’amicizia, e al di là di tutti i discorsi sul Männerbund che
gli hanno ripetuto fin dai suoi primi giorni nella Hitlerjugend, sa
cosa succederebbe se la cosa venisse scoperta.
Perché
la vita non è solo puro cielo in cui involarsi: c’è anche la
grigia terra, abitata da persone che non capirebbero e
condannerebbero. Persone che prenderebbero il giovane falco e lo
trascinerebbero nel fango.
Proferisce
parole ferali: “Vorrei passare a vedere i miei.”
Il
sorriso scompare dal volto di Siegfried lasciando il posto a
un’espressione costernata. “Avevi promesso,” mormora incredulo.
I suoi occhi limpidi, incapaci di falsità, sono colmi di
smarrimento.
“I
miei genitori,” argomenta Friedrich, incapace di guardarlo in
faccia. “Devo vedere come stanno. I bombardamenti, capisci anche
tu. Il razionamento...” Si interrompe. Spinge la mano a sfiorare
quella di Siegfried, che rimane immota. “Sono pur sempre i miei.”
Alza su di lui uno sguardo speranzoso.
“Certo,
capisco,” risponde in tono incolore von Kleist.
“Anche
tu vorrai vedere i tuoi, immagino,” tenta Lützow.
Siegfried
alza le spalle. “Non ce li ho più, i miei.”
Ora
è Friedrich a rimanere costernato. “Cosa?”
Di
nuovo un’alzata di spalle. “Acqua passata, nemmeno me li ricordo
più.” Poi solleva come sua abitudine la testa e la scuote come
farebbe un puledro. I suoi occhi sono di nuovo limpidi, liberi dal
velo di malinconia che li aveva per un istante offuscati.
Friedrich
non replica. Ormai conosce l’amico – qualcosa di più di un
semplice amico – e sa che l’argomento è chiuso. “Potrei...”
comincia.
In
un istante, lo sguardo di Siegfried gli si punta addosso. Lui alza il
proprio a incontrarlo e il cuore gli salta un battito. “Potrei
stare dai miei un paio di giorni e poi venire da te.”
Appena
pronunciata quella frase, capisce che non ci sarà ritorno: il suo
compagno non conosce esitazione, non conosce dubbio. È luce pura, è
fuoco e ardimento.
Decide
di donarglisi. In cuor suo del resto sapeva già che non avrebbe
potuto essere altrimenti. Spiega a sua volta le ali, preparandosi a
solcare quell’azzurro che sarà estasi e rovina per entrambi.
“Solo
un paio di giorni e poi sarò...” avrebbe voluto dire tuo,
si accontenta di ripetere da te.
Siegfried
sorride. Se anche lui sia consapevole di ciò che li attende, non è
dato sapere. Forse sì, ma sua è la noncuranza dell’eroe, immune
dai timori piccoli dell’uomo comune. “Ti aspetterò,” dice
semplicemente, e questo è tutto. La sua mano ora stringe quella di
Friedrich, il suo sguardo guizza a cogliere quello del compagno, poi
corre al cielo solcato di nubi che si vede dalla finestra.
È
un'elegante Mercedes nera che li va a prendere all'aeroporto di
Tempelhof. La guida un dignitoso autista in livrea, che chiama
Siegfried signor
conte e gli
porta con deferenza la valigia.
Vagamente
impacciato, Friedrich si accomoda accanto al compagno su un sedile
morbido, che odora di cuoio fine e colonia, e la vettura si avvia.
Tra
i palazzi si allargano voragini sempre più ampie. Spesso l’autista
è costretto a compiere deviazioni, perché in molte strade ci sono
squadre di ragazzi della Hitlerjugend che sgombrano macerie.
I
due si scambiano un’occhiata consapevole, quindi simultaneamente
volgono lo sguardo al cielo, in quel momento coperto di pesanti nubi.
La
Mercedes procede inoltrandosi nel quartiere popolare in cui risiede
Lützow. Al suo passaggio, la gente rimane a seguirla con lo sguardo
e i bambini smettono di giocare. Qualcuno saluta col braccio teso,
forse scambiandola per l’auto di qualche membro del Partito.
Il
palazzo di Friedrich, uno scuro caseggiato popolare del secolo
precedente, è ancora intatto. La macchina vi si ferma davanti,
l’autista spegne il motore, scende e apre la portiera.
Lützow
guarda lo sportello aperto come se fosse il portellone di uno Junkers
52 in volo, poi volge lo sguardo al compagno.
Questi
si limita a sorridergli incoraggiante. “Quando torno a prenderti?”
gli chiede, come se lo stesse lasciando davanti a un grande magazzino
per qualche compera.
“Verrò
io da te,” risponde Friedrich, gli occhi di nuovo fissi sul tratto
di marciapiede grigio che lo sportello aperto incornicia. Più oltre,
dentro il portone, al di là del cortile, c’è la scala che porta
al suo appartamento. Può quasi sentire l’odore di cavoli e
liscivia che vi aleggia perennemente, gli pare di udire un’eco
delle canzonette che la sua vicina di pianerottolo ascolta sempre
alla radio.
Pensa
a sua madre. La vede china sui fornelli, intenta a cucinare qualcosa
di buono. Avverte di colpo una dicotomia profonda, quasi dolorosa,
tra quell’immagine di tranquilla quotidianità e tutto ciò che ha
attraversato negli ultimi tempi. Si sente un estraneo, o più
propriamente un iniziato, che ormai guarda il mondo con occhi nuovi.
Rivolge ancora lo sguardo a Siegfried, cerca la sua mano con la
propria. “Verrò io da te,” gli sussurra all’orecchio.
E
poi si butta, come dal portellone dello Junkers 52, aspettando che
l’ombrello del paracadute si gonfi dietro di lui. Non si volta per
seguire la Mercedes che si allontana, per cercare di carpire un
ultimo lampo della nuca bionda di Siegfried nel lunotto posteriore,
altrimenti è certo che non riuscirebbe più a raggiungere la sua
vita precedente. Si allontana caparbio, i pugni stretti in fondo a
braccia così rigide da far male, e si ripete che era l’unica cosa
da fare, che è stato meglio così. Che volare troppo vicino al sole
porta unicamente alla rovina.
Tenendosi
appena fuori dal rettangolo di sabbia del maneggio, in tono forbito
il maggiordomo annuncia: “Signor conte, la cena attende che lei si
compiaccia.”
Siegfried
interrompe la figura di dressage che stava eseguendo, smonta da
cavallo e consegna l’animale a un garzone di stalla, quindi precede
il domestico all’interno della villa.
La
sala da pranzo è così grande che ogni rumore si scompone di
migliaia di echi sull’alto soffitto. Lungo le pareti affrescate,
cariatidi di donne in armi lo scrutano mute e severe. C’è un solo
coperto, a capotavola. Dietro la sedia attendono immobili due
camerieri in livrea.
“Buona
sera, signor conte,” lo accoglie il più vecchio dei due.
“Buona
sera, Johann,” risponde Siegfried, quindi si siede, spiega il
tovagliolo e se lo pone sulle ginocchia.
In
quel silenzio, il rumore del vino che viene versato nel calice è
quello di una gora impetuosa, l’acciottolio lieve delle stoviglie
fa pensare a sassi che rotolano lungo il fianco di una montagna.
Siegfried
sposta con la forchetta ciò che ha nel piatto, assaggia un boccone
di malavoglia, beve un po’, ma gli sembra che niente abbia sapore.
Sarà
stato trattenuto dai parenti, si dice, avrà dovuto restare più del
previsto. Fa scorrere lo sguardo sulla lunghezza del tavolo vuoto. Non
si intende molto di parenti, per la verità: i suoi genitori
quasi non se li ricorda più. Dei suoi tre fratelli, uno è caduto
per la Patria all’inizio della guerra e gli altri due sono al
fronte. È tanto che non li vede.
Si
rende conto di non ricordare un’occasione in cui ha visto quel
tavolo completamente occupato.
Abbassa
gli occhi sul piatto, ripensa a quando lui e Friedrich si sono divisi
una tavoletta di cioccolato alla caffeina prima di allontanarsi dal
fienile diroccato.
Nonostante
il dolore, la stanchezza e la paura di quel frangente, sorride fra sé
e sé al pensiero.
Sarà
stato trattenuto, pensa di nuovo. Gli sfugge di mano la forchetta, il
rumore improvviso quasi lo fa sobbalzare.
Nel
profondo del suo cuore, segreto, doloroso, alberga il timore che
Friedrich possa non arrivare. Che lo consideri uno scioccherello
fatuo, non alla sua altezza. Un ragazzetto viziato che fa bravate per
il solo gusto di farsi notare.
Abbassa
lo sguardo come per un rimprovero.
Rievoca
con nostalgia i lineamenti del compagno, i suoi occhi profondi e
seri. Lo immagina con elmo e scudo sui bastioni di una fortezza, la
croce nera sul petto, armato del tranquillo coraggio della fede.
Allontana
il piatto ancora pieno, vi depone accanto il tovagliolo e si
allontana a grandi passi.
La
signora Lützow si asciuga le mani nel grembiule e fissa pensosa il
figlio. “Che c’è, non hai fame?” gli chiede preoccupata.
“Eppure ho fatto la zuppa di patate come piace a te.”
Friedrich
alza gli occhi sulla donna: ha più rughe rispetto all’ultima volta
che l’ha vista, più capelli grigi. Sicuramente avrà dato fondo
alla tessera del razionamento per offrirgli quel piatto. Sorbisce
qualche cucchiaio, più che altro per farle piacere, ma la minestra
sembra non avere alcun sapore.
Allontana
la scodella, si alza e dice: “Scusa, mamma. È buonissima, ma non
ho fame.”
“Che
c’è, non stai bene?”
Friedrich
scuote la testa. Non sta bene, in effetti, ma certo sua madre non
capirebbe il genere di malessere che lo affligge. Non capirebbe il
dolore e il senso di vuoto che lo stanno letteralmente mangiando
dentro, che gli tolgono il sonno, l’appetito e la tranquillità.
Emette un lungo sospiro e semplicemente dice: “Perdonami: devo
andare.”
Arriva
al piccolo centro vicino a Potsdam dove abita Siegfried su un camion
di militari della riserva, scende nella piazza del paese e non ci
mette molto a trovare la villa della famiglia von Kleist: è
un’imponente costruzione barocca circondata di querce secolari,
ammantata delle prime nevi.
Si
ferma per qualche istante davanti al cancello di ferro battuto,
deglutisce con la bocca secca e il cuore che gli batte all’impazzata.
La metaforica soglia su cui tante volte si è affacciato, affascinato
ma anche timoroso, se l’è già lasciata alle spalle; l’attimo di
immobilità senza peso ha ceduto il posto alla folle caduta della
vite e lui ormai sa solo una cosa: che oltre quelle sbarre c’è
Siegfried.
Ci
sono i suoi movimenti eleganti, la sua temerarietà, il suo fuoco.
Inspira di nuovo profondamente, socchiudendo gli occhi come per
distoglierli brevemente dalla contemplazione del palazzo
settecentesco. La luce sta già calando, il cielo sta assumendo la
tonalità opulenta dell’ora blu. Pallida, ancora sbiadita, una
falce di luna sembra una pennellata data per sbaglio, uno sbaffo che
rovina invece di abbellire.
Friedrich
la guarda e di nuovo gli torna in mente la frase sul lato nascosto
che tutti dovrebbero avere. Colpevolmente ricorda gli ultimi eventi e
si rende conto di averlo lui stesso. Un lato cauto, calcolatore, che
soppesa rischi e conseguenze. Che si preoccupa di quello che potrebbe
pensare la gente.
Se
rivolge lo sguardo al palazzo, invece, ha quasi l’impressione che
dalle finestre filtri la luce di Siegfried: una luce pura,
adamantina, senza ombre.
Un
rumore di passi lo fa sussultare. Un uomo con una redingote scura si
sta avvicinando. “Il signor tenente desidera?” gli chiede
fissandolo serio.
Friedrich
deglutisce. “Sono un camerata di Siegfried von Kleist,” risponde,
e all’alzata di sopracciglio dell’altro si corregge: “Del conte
von Kleist. Lui… voglio dire, il conte mi sta aspettando.”
“Attenda
un attimo, prego.”
L’uomo
si allontana verso una costruzione poco distante. Friedrich, che al
suo arrivo aveva fatto un passo indietro, torna ad aggrapparsi alle
sbarre. Al di là c’è un viale coperto di ghiaia, bianco nella
luce ormai cupa del crepuscolo, e più oltre la sagoma scura della
villa.
Cerca
di immaginare in quale punto di quella massa nera si trovi Siegfried,
si augura che lui ci sia, che lo stia ancora aspettando.
Che
non lo disprezzi per aver esitato.
“Signor
conte?”
Siegfried
alza la testa dal libro che sta leggendo. “Che c’è, Johann?”
“Un
ufficiale chiede di lei, signor conte.”
“Cosa?
Un ufficiale?”
“Un
tenente. Ha detto che è un suo camerata, signor conte. Mi sono preso
la libertà di farlo accomodare nel salotto verde e...” non fa in
tempo a finire la frase: Siegfried butta il libro da una parte ed
esce di corsa dalla stanza.
Divora
il corridoio, scende a precipizio le scale.
Friedrich.
Lui lo sa che è Friedrich. Verrò io da te, ha detto.
Raggiunge
il salotto verde e spalanca la porta.
Lui
è lì. È in piedi a una certa distanza dalle poltroncine di
velluto, come se le disdegnasse. Con le mani dietro la schiena, sta
osservando un quadro appeso alla parete.
Gli
corre incontro, lo abbraccia con tale impeto da obbligarlo a fare un
passo indietro per mantenere l’equilibrio, poi si sente cingere da
lui, stringere così forte che quasi gli manca il respiro. Ma non
basta, non più. È passato il tempo degli sguardi carichi di
desiderio, il tempo delle distanze dolorosamente mantenute.
È
passato il tempo delle cose che non si possono fare.
Alza
il viso verso di lui, va a cercare le sue labbra con le proprie.
Friedrich risponde con un bacio che sembra il tracannare di un
assetato: profondo, intenso, colmo di un lancinante anelito.
Incuranti
di qualsiasi cosa crollano sul divano, le bocche ancora unite, le
mani che si fanno sempre più audaci, mentre l’eccitazione cresce
come una marea che spazza via qualsiasi cosa.
Alla
fine è Friedrich, ansante, scarmigliato, con il volto arrossato e
umido di baci, che mormora: “Andiamo... da qualche parte.”
Siegfried
annuisce come se non stesse aspettando altro. Si libera agile dal suo
abbraccio, si alza e semplicemente ripete: “Andiamo.”
Basta
quella semplice parola per descrivere quello che sarà: andiamo,
lasciamoci dietro tutto, noi siamo già oltre.
Friedrich
lo segue per i corridoi oscuri con sicurezza, come se davvero a
guidarlo fosse una luce. Ripensa a una frase di Nietzsche: ciò che
viene fatto per amore accade sempre al di là del bene e del male.
Si
chiede se sarà così anche per loro.
Lo
schiudersi di una porta lo distoglie dal suo ragionamento: oltre la
soglia vi è una camera da letto morbidamente illuminata da un’abat
jour. Sul tappeto c’è un libro aperto.
Si
buttano dentro. L’anta sbatte dietro di loro, serrata con forza
nella frenesia di gettarsi di nuovo l’uno fra le braccia
dell’altro. Crollano avvinghiati sul letto ansimando, divorandosi
di baci. Sfilate da mani che l’urgenza rende imprecise, le uniformi
si ammucchiano sul pavimento.
E
poi sono insieme: pelle contro pelle, le bocche per l’ennesima
volta unite, i respiri che si mischiano. Se anche razionalmente non
hanno idea di cosa si debba fare, i loro corpi e i loro istinti
sembrano saperlo da sempre. Essi li guidano: come ali potenti, li
sollevano verso le vette di un piacere che non ha nome, ma li lascia
storditi ed ebbri come adepti cui è stato concesso di contemplare il
Sublime.
Quando
l'atto giunge a compimento, essi si abbandonano l'uno contro l'altro
esausti, con la consapevolezza che tra loro sia successo qualcosa cui
erano da sempre destinati.
È
la luce che filtra dalle tende a svegliarli. Nessuno è venuto a
bussare alla porta del signor conte: forse è ancora troppo presto, o
forse i domestici immaginano che vedrebbero cose impossibili da
ignorare e preferiscono rimanere fuori.
La
cosa non li sfiora nemmeno, sono di nuovo i corpi a dettare legge. Il
mondo scompare mentre ancora una volta le ali potenti della passione
li spingono verso il nitore delle vette.
Quando
ridiscendono verso terra, non ci sono parole umane che possano
descrivere il sentimento che li pervade.
Si
limitano a scambiarsi un lungo sguardo silenzioso, con la
consapevolezza che dopo aver raggiunto l'acme non potrà che esserci
l'inesorabile caduta. Un aereo non può restare fermo nel cielo, e
anche loro sono così, destinati ad attraversare tutto a folle
velocità senza potersi fermare. Guardare il mondo dal punto di vista
degli dei ha un prezzo, del resto.
Qualche giorno
è concesso ai due. Un assaggio di vita segreta dalla
quale tutto il resto è escluso, sulla quale nessuno può esercitare
controlli, porre veti. Un mondo in cui esistono solo loro.
Come purosangue
tenuti a freno per troppo tempo, essi sono ansiosi di
dar sfogo a tutta l’energia accumulata, avidi di libertà,
traboccanti di desiderio.
Si amano.
Totalmente, in maniera assoluta. Se fosse possibile, si
amerebbero ogni giorno di più, ancora di più, sempre, fino a un
parossismo, fino a che la fiamma che arde in loro non li consumasse
in un lampo abbagliante.
Morire così, in
un'esplosione di luce accecante, insieme, sarebbe
una dolce morte.
Ma la guerra
non tarda a ricordarsi di loro. Il suo artiglio li
ghermisce dove si sono rifugiati, nella villa barocca, tra i campi
innevati della tenuta.
Giunge sotto
forma di un telegramma, che i due trovano al rientro da
una cavalcata. Siegfried se lo vede recapitare con solenne deferenza
dal maggiordomo.
Quale decadente
eleganza, gli viene fatto di pensare. Al signor conte
la morte giunge su un vassoio d'argento.
Ancora prima di
aprirlo sa cosa contiene. Solo il luogo e l'ora non
gli sono noti, ma quelli in fondo non sono che vili dettagli.
Strano non aver
sentito rumore di zoccoli. La Morte cavalca un
morello nero come il carbone, non è così che dicono gli antichi
versi?
Alza il viso,
fa girare lo sguardo su tutto ciò che lo circonda: il
palazzo avito, la campagna che si stende fuori, il suo destriero, il
sole, il vento. Sta prendendo commiato.
Infine ferma
gli occhi in quelli di Friedrich e il suo sguardo è
limpido e saldo.
“È inutile
perdere tempo,” dice, “voglio la mia migliore
uniforme.” Si rivolge ironico al compagno: “Questa è
un'occasione in cui non ci si può mostrare sciatti, non ti pare?”
Fa un sorriso
tirato, ma gli occhi sono indomiti, fieri. E la testa è
orgogliosamente eretta.
“Andiamo,
Friedrich. E' ora di volare. È ora di staccarsi da
terra. Siamo nati per il cielo in fin dei conti.”
Vanno. Non c'è
tempo per gli addii strazianti, e forse è bene che
sia così. Sarebbe solo zavorra inutile per due rapaci che si
apprestano a combattere nei cieli.
Vengono
accompagnati all'aeroporto di Tempelhof dalla Mercedes nera.
Decisamente, la Morte tratta bene il signor conte.
La Morte
evidentemente è sensibile ai titoli nobiliari. E' raro
infatti che sia così forbita. Di solito ghermisce e strazia, non
invita così compitamente.
E Siegfried
accoglie anche quei discutibili privilegi come se fossero
le cose più naturali del mondo. Sembra muoversi a suo agio come nel
salone delle feste di casa sua.
Lui e Friedrich
si presentano al comandante dello stormo, ascoltano
le consegne, si fanno indicare i loro aerei. Non c'è altro da dire.
Centinaia di
Fortezze Volanti stanno giungendo da ovest, a momenti
saranno su Berlino per scaricare tonnellate di morte e distruzione su
civili inermi. Compito dei cavalieri è proteggere i deboli, anche a
costo della vita.
Il falco avanza
risoluto. Passa davanti alla fila dei piloti
silenziosi guardandoli uno per uno, come per motivarli, per dar loro
un esempio.
Spavaldo,
temerario. Testa alta, per prima cosa. Anche la morte -
anzi, soprattutto quella - si deve affrontare con fermezza.
Si avvicina al
suo aereo. Un Focke Wulf 190 D. Un ottimo caccia.
Sorride soddisfatto, farà un buon lavoro. Ne porterà parecchi con
sé.
Accanto a lui,
con un aereo analogo in dotazione, c'è Friedrich.
Pacato, tranquillo. Lo sguardo sereno e al tempo stesso carico di una
consapevolezza straziante.
Siegfried lo
fissa, negli occhi gli passa il consueto guizzo. Si fa
avanti con un balzo agile. È nel piazzale, davanti a tutti, ma lo
abbraccia stringendolo a sé.
“Friedrich,”
mormora, “io... volevo dirti che...” Si ferma,
deglutisce. Un attimo di commozione glielo possiamo anche concedere,
non è facile abbandonare la vita e l'amore a poco più di vent’anni
con la leggerezza con cui si butterebbe un pugno di terra dietro le
spalle. Anche se ti chiami Siegfried, anche se la tua famiglia
combatte da secoli contro i nemici della Germania.
Posa la testa
fra la spalla e il collo dell'altro.
Un abbraccio
può durare un'eternità?
O forse quello
diventa l'eternità, cristallizzata, immobile, quando
si sta per affrontare la morte.
Cosa c'è dopo
non lo sa nessuno, nessuno è tornato a raccontarlo.
Si conosce solo la paura ancestrale di fare il grande salto.
Se fossi certo
di ritrovarlo di là, pensa Siegfried con il volto
contro il collo dell'amato, se ne fossi certo, allora non mi
importerebbe di morire. Quello che mi strazia è il terrore di finire
in un'oscurità gelida, solo, per sempre senza di lui.
Ma testa alta,
innanzitutto. Siamo nati per morire, non è così che
si legge in ogni caserma?
Troverà la
morte su una macchina d'acciaio e alluminio sparata nel
cielo a seicento chilometri l'ora e lo sa perfettamente. Fa solo che
sia breve, mormora tra sé.
Un'ultima
occhiata all'amato, un ultimo sorriso e va.
Sono tanti come
lui, cavalieri del cielo che si lanciano contro le
orde di invasori. Sa già che combatteranno fino all'estremo
sacrificio. Ma così dev'essere. Sta finendo l'era dei cavalieri,
comincia quella dei ratti.
E allora è
meglio così. Che mondo è quello dove un cavaliere è
sopraffatto da un'orda di ratti? Un mondo dove non è poi così
desiderabile vivere.
Se non fosse
per Friedrich che lo sta guardando, forse non sarebbe
neanche male andarsene così.
“Facciamo a chi
ne abbatte di più?” chiede prima di chiudere la
capote. “Peccato solo che non potremo confrontare il bottino.”
L'altro si
ferma per un attimo, il braccio teso a sostenere a sua
volta il tettuccio. “Lo confronteremo nel Walhalla, Siegfried.”
Sorride fiero, orgoglioso. “Per cui fa' del tuo meglio, non vorremo
presentarci a mani vuote.”
Ma è finito il
tempo delle parole, ora si deve combattere. Le
fortezze sono quasi sulla periferia della città. Uno dopo l'altro i
caccia si involano rapidi e spariscono verso l'orizzonte nel cielo di
smalto.
Anche Siegfried
e Friedrich sono in volo, nella formazione tipica di
capopattuglia e gregario.
Le
comunicazioni radio si sovrappongono in un magma concitato.
“Viermot a ore
dodici, Hanni 2000.” Questa è l'unica notizia che
vale la pena di tenere in considerazione.
Di Viermot ce
n'è da oscurare il cielo.
Sono centinaia
e ognuno di essi porta nel ventre tonnellate di morte.
Quanti ne
potranno distruggere? Quanti di quell'orda immane?
Quanti? Tutti
quelli che capiteranno davanti alle loro
mitragliatrici.
Siegfried dà
tutta manetta, il caccia schizza in avanti, si inclina,
guizza verso i primi bombardieri. Viene accolto da un uragano di
fuoco, spara contro la carlinga del più avanzato, cabra, si
disimpegna.
Il primo dei
Viermot punta verso terra.
Il
suo aereo è Bianco Tre. Lo si può vedere guizzare come uno squalo
fra i nemici. Colpisce, abbatte, si sgancia.
Un
meccanismo perfetto. O almeno dovrebbe esserlo
Ma
se diamo retta a von Clausewitz, già è difficile vincere una
battaglia contro forze nemiche doppie. Figuriamoci qui, dove
combattono dieci a uno. E anche una belva, in un branco di cani,
soccombe.
Una
raffica colpisce la fusoliera di Bianco Tre. L'attraversa di taglio,
da davanti in alto a dietro in basso come una sciabolata. Da come
vibra l'aereo, il pilota è stato colpito. Un altro Mustang cade
sotto le sue mitragliatrici, però. Si era fatto troppo spavaldo,
attirato dalla preda facile. Paga con la vita il suo errore.
Come
un cinghiale incalzato dai cacciatori, Bianco Tre indietreggia, si
difende, ma nulla può contro forze così soverchianti.
E
infine sembra rimanere per un istante immobile nel cielo mentre
un'altra raffica lo coglie nel mezzo di un'elegante virata sfogata.
La
virata non si compirà mai. L'aereo cade in vite e si schianta in un
delirio di fuoco e fiamme.
Ma
un altro aereo ci interessa, è Bianco Quattro. Un altro fiero
combattente, i Mustang d'argento hanno imparato a rispettarlo.
Loro
così tracotanti, che si credono i padroni del cielo perché sono
dieci volte più dei tedeschi.
Il
caccia guizza fra loro facendo vittime come il Tristo Mietitore, ma
anche in questo caso la battaglia è persa in partenza. L'unica cosa
che può fare è perderla con onore.
Ci
sono i Viermot. Quelli devono andare giù, loro e il loro carico di
morte.
Il
caccia si porta in posizione d'attacco, spara, cabra e si disimpegna,
ma non è facile fare manovre del genere in uno stormo di
bombardieri.
Bianco
Quattro viene preso nella turbolenza di scia dei grossi aerei,
sbanda, perde quota. Nell'attimo un caccia nemico ne approfitta per
prenderlo di coda. Bianco Quattro si disimpegna, ci vuol altro, ma
nel frattempo ne arrivano altri, e tutti si accalcano per buttarglisi
addosso.
La
battaglia fa presto a finire: una raffica gli tronca un'ala e gli
attraversa la fusoliera come una fascia.
Chi
avesse buon colpo d'occhio potrebbe notare la capottina schizzata di
sangue all'interno, dunque il mostro d’acciaio aveva un cuore
pulsante.
Ma è
tardi ormai, il Focke Wulf senza più controllo butta il muso verso
il basso ed entra in vite. Pochi secondi e la campagna del
Brandeburgo accoglie il suo figlio prediletto.
In
cielo la battaglia continua, la guerra non si ferma per così poco.
O
viandante, annuncia agli Spartani che qui
noi
morimmo obbedienti al loro comando.
|