Pure morning
Note:Salve gente! Sono
ancora qui con una nuova FF, ebbene sì. Il titolo ha senso qui e
non ne ha, non chiedetemi perché l'ho scelto, è meglio
per la nostra sanità mentale ò.ò In alcuni punti
sarà...emm...diciamo contorta. Spero che però alla fine
tutto sia chiaro.
Attenzione: i Placebo appartengono solo a se stessi, io non ci guadagno
nulla a scrivere ste cose se non un modo per uccidere la noia. Non
voglio offenderer quei tre ragazzotti, e nessun altro. I caratteri sono
inventati, supposti, e non corrispondono a quelli reali!
La trama non è nulla di che, ma un'occasione per approfondire i
personaggi e il loro rapporto, per dare una mia spiegazione del
particolare legame che tiene incollati Stefan e Brian. Beati entrambi!
Il titolo della FF è una canzone dei Placebo, come anche alcuni titoli di capitoli.
Commenti e/o critiche sempre ben accetti.
Buona lettura!
Capitolo 1: Pure Morning
Ci sono giorni in cui anche il più insignificante rumore diventa
il sottofondo di uno sguardo sereno. In cui la luce è solo il
veicolo di colori stupendi, che ti cullano gli occhi e l’animo.
In cui ogni sensazione tattile è l’esplosione dei sensi.
E ci sono giorni in cui i rumori sono solo pugnalate nel cranio,
frantumano ogni osso e ti ricordano che sei uno stronzo senza ragione,
perché sei causa del tuo stesso dolore. Continui a farti male
per sentirti sanguinare, perché non sai evitarlo. E’
divertirsi e pensare solo a quello, niente conseguenze, bene o male.
Quello era uno di questi giorni dannati. Le lenzuola mi scivolarono sul
corpo in maniera odiosamente irritante, quasi strusciando producessero
un rumore insopportabile che ronzi nei timpani e ti faccia prudere le
orecchie e il cranio. La luce che filtrava dallo spicchio schiacciato
di finestra mi bruciava gli occhi, costringendomi dopo attimi infiniti
di semicoscienza a voltarmi. Non ero esattamente sveglio, forse non lo
sarei stato per tutto il giorno, e mai mi sarei destato, né
fisicamente né mentalmente, se nel voltarmi non avessi sentito
qualcosa. Non solo la nausea causata dallo stomaco in subbuglio, non
solo il trapano che mi passava da una tempia all’altra senza
piacere, ma qualcosa di concreto più di tutto ciò: un
corpo. Il caldo che emanava dall’epidermide in sudorazione
passiva, l’odore della pelle e di ciò che tra le lenzuola
c’era stato, e infine la prima sensazione che giungeva come
ultima: il tatto.
Pelle pulita, pelle tiepida e morbida, pelle bianca.
Sentivo su un lato del corpo il calore del letto, sull’altro
delle lenzuola….e di fronte a me c’era lui. Risalii dal
petto che avevo per prima visto fino al collo sottile e poi i capelli
spettinati e appiccicati alla fronte…e il viso. Dormiva
rannicchiato, in posizione fetale, come sempre. Così piccolo,
così indifeso, così dolce. E non era niente di tutto
ciò. Lo sapevo bene, ma mi piaceva vivere nell’illusione
che fosse un tenero cucciolo, fantasia alimentata da questi attimi. Gli
occhi chiusi, le lunghe ciglia a sfiorare gli zigomi, la fronte liscia
e rilassata, le morbide labbra languidamente schiuse in un respiro
calmo e regolare, così naturale.
Quelle stesse labbra che si incurvavano in sorrisi ironici e arroganti,
che fremevano di rabbia, che si atteggiavano a bronci bambineschi,
infantili. Sbagliava: lui era un attore, e non ci credeva.
Temevo quasi nel svegliarlo, non volevo che quell’idillio
d’osservazione terminasse. Ma la testa mi scoppiava e la nausea
mi assaliva, insieme alla consapevolezza che se lui si trovava nel mio
letto c’era solo un motivo, un’unica spiegazione. Ci ero
ricascato.
Ricordavo convulsamente qualcosa, ma era confuso. Più che altro odori…e sapori.
Mi abbandonai al cuscino e sprofondando la mia testa fece rialzare la
stoffa, nascondendomi parzialmente il suo viso. Mi sentivo a pezzi e
l’aria di sogno cominciava a sfumare e a dissolversi per lasciar
posto a un molto meno poetico nervosismo.
Guardai il bianco e improvvisamente mi balzò alla mente il
“White Unicorn”, il locale dove ci saremmo dovuti esibire
quella sera. E ci aspettava il soundcheck. Dovevamo muoverci.
Mi alzai e corsi in bagno per prepararmi. Mentre mi rialzavo dal
lavello un improvviso senso di vertigine mi catturò la mente e
mi chiuse lo stomaco. Mi gettai sulla tazza e vomitai nel cesso. Rimasi
sospeso su quel buco bianco per qualche secondo, cercando di riprendere
fiato e di reprimere i conati, malgrado sapessi che era meglio
lasciarli sfogare.
“Brutta nottata?”
Mi voltai e vidi sull’uscio Brian, in slip neri, che mi guardava
sorridendo malizioso. Non mi sembrava proprio il momento di scherzare,
ma io e lui abbiamo sempre avuto diverse concezioni
dell’opportunità di dire e fare certe cose in determinate
situazioni.
Improvvisamente sentii schifo per me stesso, non volevo che mi vedesse
così. Mi alzai e, accigliato, mi sciacquai il volto e la bocca
nel lavello. Brian mi passò alle spalle e mi carezzò la
schiena ancora nuda con le dita sottili. Sentii subito l’istinto
di sottrarmi a quelle sue carezze fortuite. Non capiva quanto
valessero, almeno così sembrava. Era sempre stato così.
Si dimostrava amabile e affabile con tutti, dava carezze leggere ma
sapienti, pacche sulle braccia, mani sulle ginocchia, sorrisi e
sguardi. Ma sentiva veri solo il 10% d’essi. Ed entrava in
contatto solo quando era lui a deciderlo. Ora ha affinato questo modo
d’essere, risultando ancora più elegantemente gentile e
affabile.
Ma non capivi mai cosa gli passasse in mente. Era volubile,
ingannevole. Il giorno prima amava una persona, il giorno dopo giurava
il suo disprezzo per essa.
Ma con me ero certo che fosse sempre stato il vero Brian. Quello che ti
teneva sveglio per le sue chiacchiere difficili da seguire, soprattutto
a tarda ora e dopo esibizioni o prestazioni varie, e quando ormai eri
allo stremo e lui si era stancato chiedeva: ti sto annoiando, vero?
Sempre con quel suo sorriso.
Ma lui era anche altro. Era quello che per un intero giorno non ti
parlava, se ne stava solo a fumare o scrivere musica, e poi quando
voleva si avvicinava a te e ti chiedeva coccole che non potevi
negargli. Era arrogante, presuntuoso, sicurissimo della sua
superiorità mentale, pronto a mortificare se stesso per sentirsi
poi più forte, ma anche incredibilmente fragile, come un pupazzo
di ghiaccio, lunatico. Sempre tra gli estremi: iperattivo o mollemente
adagiato sulla vita, ilare o depresso, fiero o schifato da sé.
Ti usava e ti gettava via, ma non voleva ferirti, almeno così
credevo. Lo faceva per sopravvivere. E da me era sempre
tornato…ancora oggi mi chiedo se in realtà non fossi io a
tornare da lui. Perché possiede quel qualcosa di magnetico
così raro e terribilmente superbo.
Mi defilai dal bagno, mentre lui mi guardava con una finta faccia
shoccata e poi subito dopo un broncio infantile, il suo broncio
infantile.
“Stronzo!”
Chiusi la porta del bagno e lo sentii ridacchiare nel suo modo nasale e
profondo, come se scavasse con le unghie per portare stremato a riva la
sua felicità, o la creasse sul momento, quasi avesse una massa
di creta da modellare a piacimento e tirarne fuori parole dolci e
incoraggianti, sorrisi, occhi illuminati.
Un attore della vita.
E io cos’ero? Il suo costumista, quello da cui correva quando la
sua maschera si stava sciogliendo nelle lacrime, corrodendolo
dall’interno.
Ed ero pronto a raccogliere i suoi pianti e lavare via il suo trucco,
per farlo tornare a sorridere in mezzo alla folla acclamante. Nessuno
lo conosceva, forse neanche io. Ingurgitavo il suo dolore, pian piano
mi corrodeva, ma stavo bene perché mi stava bene. Un compromesso
per entrambi. Ingenuo! Non sapevo quanto male stavo facendo, ci stavamo
procurando.
Il cellulare che squillava mi destò dal mio stato di catalessi, in piedi di fronte alla porta chiusa del bagno.
Risposi subito e automaticamente, forse avevo bisogno proprio di una chiamata che mi spronasse e distraesse.
“Sì?”
“Stef ma dove diamine siete finiti tu e quell’altro imbecille?”
Riconobbi subito la voce irosa di Steve, quando si arrabbiava era un
carro armato. Anche per questo Brian lo usava come guardia personale,
quando si ficcava in casini più grossi di lui, con quella
dannatissima parlantina.
“Senti Steve…”
“No, non sento nulla, sbrigatevi che ho da fare, io!”
Chiuse la chiamata calcando per bene su quell’ “io”.
Era un tipo impaziente, ma anche fondamentalmente buono e limpido. Se
urlava era sicuramente arrabbiato, se sorrideva era certamente felice o
per lo meno sereno. L’opposto di Brian. Steve non sapeva fingere.
Gettai un po’ stizzito il cellulare sul materasso, tra le
lenzuola attorcigliate e la coperta che ricadeva su un lato del letto.
Bussai con il pugno alla porta del bagno urlando a Brian di muoversi.
Mugugnò qualcosa in risposta, ma dovetti attendere dieci minuti
prima che uscisse, nei quali mi ero già vestito, in modo
semplice. Brian fece capolino dietro le mie spalle mettendosi in punta
di piedi nell’invano tentativo di sbirciare cosa facessi con il
cellulare. Stavo solo inviando un messaggio a Steve, per dirgli che
stavamo arrivando. E sapevo che Brian non era davvero interessato alla
cosa.
Mi voltai con rimprovero e lui mi sorrise come un bimbo.
“Che c’è?”
Lo squadrai, considerando che aveva cambiato solo i boxer.
“Devi muoverti, Brian. Steve ci aspetta.”
Sbuffò annoiato da quei rimproveri, non gli piaceva molto, ma
sembrava trovare gusto a farmi arrabbiare. Fino a un certo limite,
però. Poi la farsa gli diveniva troppo pesante e si chiudeva in
un mutismo snervante. E se insistevi ti faceva capire con poche,
precise e studiate parole che era ora di smetterla. Ecco l’arma
che più usava per ferire: il silenzio.
Si diresse al mio armadio e cominciò a frugare tra i vestiti, mettendoli in disordine con precisione maniacale.
“Che fai?” chiesi contrariato.
“Qui ci deve essere qualcosa di mio….ah, ecco!”
esordì estraendo dal caos che aveva creato in così breve
tempo una t-shirt e un paio di jeans scuri. Sorrise soddisfatto
mostrandomeli.
Roteai gli occhi e lui per risposta si spostò i capelli di lato
in un gesto molto femminile e mi guardò reclinando appena il
capo, con l’intento di intenerirmi in quella posa infantilmente
sensuale. Era troppo. Presi le chiavi e mi diressi alla porta con il
cellulare.
“Ti aspetto giù, muoviti.”
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