cap 1
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Magicphone prende
anche Qui
CAPITOLO I:
I Cellulari sono Arnesi del Demonio
Addio.
È la fine.
Di già.
E dire che ho appena cominciato...
«Ma che fai!»
Un promettente futuro stroncato così, che tristezza. Per uno
stupido errore che neppure ho commesso io.
«Muoviti!!»
Oppure no, non deve per forza finire così! Potrei lottare! O
scappare! Sì, decisamente meglio... correre via senza
guardarmi indietro. Sfrecciare lungo il corridoio, tutto dritto, poi
giù per le scale e continuare a correre a perdifiato... fino
a sputare un polmone. E accasciarmi a terra. E morire agonizzante a
seguito di un infarto.
Tutto sommato, stare fermi qui non sembra una così brutta
idea. Certo, c’è il rischio che mi strappi le
budella, ma vuoi mettere la fatica risparmiata? Sarebbe una morte
decisamente più dignitosa. Più sangue, meno
sudore.
«Dai, vieni!!»
Purtroppo, questa alternativa non
mi è possibile. Mi tocca correre e seguirlo, visto che non
sembra aver alcuna intenzione di mollarmi il braccio. Se non rallenta
finirò per inciampare e atterrare di faccia (con la fortuna
che ho e la mia innata coordinazione è alquanto probabile).
Ma
se rallenta la bestia ci prenderà e non ci
resterà
altro che sperare di perdere conoscenza il prima possibile.
«Ma vuoi correre?!?! Non ti posso trascinare anche
giù per le scale!»
Io sto correndo,idiota! Glielo
vorrei urlare, ma dubito sia in grado di emettere qualcosa di diverso
da dei rantoli in questo momento.
In qualche modo riesco a scendere i
gradini senza ruzzolare ed ecco la salvezza: una robusta porta di
legno. Aperta, ovviamente. Se fosse stata chiusa tanto vale gettarsi a
terra e tentare la tecnica dell’opossum (che non avrebbe
comunque funzionato, anche se ci credesse morti si concederebbe di
certo il
piacere di devastare i nostri corpi).
Ci fondiamo dentro la stanza serrando subito la porta. Lui gira la
chiave dentro la toppa mentre io
mi lascio cadere mettendomi a sedere. L’infarto sembra
scongiurato ma ho il respiro di una vecchia che ha passato gli ultimi
cinquant’anni a fumare un pacchetto di sigarette al giorno.
Quanto mi fa schifo correre. Non ho più il fisico per queste
cose, non ce l’ho mai avuto.
Su su, dai, inspira,
espira. Ecco così, prendi l’aria dal naso e falla
uscire dalla bocca.
Inspira, espira, inspira...
«Ehi,Giò, non mi sembra un buon momento per
addormentarsi!»
«Sto cercando di respirare e calmarmi!»
Il tentativo è ovviamente
fallito. Complice il fatto che riesco a sentire distintamente dei passi
rimbombare lungo le scale. Ormai ci ha quasi raggiunti, e non sono
sicura che basterà un pezzo di legno, per quanto solido, a
farla desistere dal dilaniarci.
«Senti, mi dispiace...»
blatera lui appoggiato contro la porta «Ecco, vedi, io non
immaginavo… Cioè, ero curioso, non pensavo
che…»
«Zitto.»
I suoi occhioni celesti si fanno
ancora più mortificati. Se non ci pensa il mostro
là fuori, giuro che ci penso io a cavarglieli.
«Ok, in parte è sicuramente colpa mia,
però anche tu hai
fatto un bel casino!»
«Ho detto zitto!»
Forse glieli strappo
adesso, un’ultima soddisfazione prima di morire.
Lo vedo scattare come una molla
lasciandosi sfuggire un urletto, ma dubito sia stato il mio sguardo
minaccioso a spaventarlo. Più verosimilmente devono essere
stati i colpi che stanno scuotendo la porta.
Ecco, come immaginavo, non basta di
certo una porta chiusa a placare la sua sete di sangue. Sa che siamo
qui dentro, riesce a fiutare la nostra paura, e non si
fermerà finché non avrà banchettato
con le nostre carni.
Mi rimetto in piedi e mi guardo
attorno: zero vie di fuga. Oddio, anche se ce ne fossero, dubito che
riuscirei a scappare da una finestra, le mie abilità
atletiche sono più simili a quelle dell’orso Yoghi
che a
quelle di Lara Croft.
Sento di nuovo la sua mano sul mio braccio, questa volta non lo fa per
strattonarmi,
è un gesto di conforto.
«Che facciamo?»
Non ne ho idea. Magari se iniziassimo a invocare pietà,
casomai autoflagellandoci, si
accontenterebbe di qualche osso rotto...
I cardini scricchiolano, il legno vibra ma fortunatamente la porta non
cede. Per
il momento.
Ma come cavolo ho fatto a ficcarmi in questa situazione?
«Ehm,ragazzi, ottima mossa quella di chiudersi dentro a una
stanza senza finestre e
con una sola porta. Complimenti!»
Ecco come ho fatto, dando ascolto a questo maledetto aggeggio!
«Ti prego,
dimmi che hai un suggerimento!»
«Dici che c’è un frigo ben fornito qui
dentro?»
«Ne dubito» interviene l’altro
retrocedendo di un altro
passo dalla porta.
«Allora vi conviene scegliere quale braccio volete
sacrificare, forse un
po’ di carne fresca potrebbe calmarla.»
Molto utile. Stupido
sarcastico strumento infernale.
«Ma non è mica una tigre affamata!»
Forse sarebbe stato meglio.
Ma come diavolo è successo...
Avevo una vita così tranquilla. Ordinaria.
Forse un po’ monotona ma di certo non c’era il
rischio di venire rincorsi
all’improvviso da esseri idrofobi.
Tutta colpa di quell’affare.
Avevo capito fin da subito che mi avrebbe portato solo dei problemi,
già dalla prima volta che l’ho visto.
Giovedì, solo
tre giorni fa. Quando quel coso è suonato nel momento meno
opportuno…
Giovedì
11
febbraio 2016, ore 10:11
Cimitero Comunale di Solignano, Parma
«Fratelli e sorelle, siamo oggi qui riuniti
per…»
Tono lento e solenne per parole
altrettanto solenni, che però vennero interrotte da un suono
che di solenne aveva ben poco: una fastidiosa suoneria di un cellulare.
Melodia monofonica, con note un po’ troppo acute, alquanto
irritante. Senza poi
considerare il contesto.
L’anziano prete interruppe
l’orazione e scrutò il piccolo gruppo di persone
sedute di fronte a lui con uno sguardo carico di disapprovazione poi,
schiarendosi la gola con un colpo di tosse, riprese a parlare con
più enfasi.
«Siamo qui riuniti per dare
l’ultimo saluto alla cara Marcella Corvetti che ci ha
lasciati lunedì all’età di ottantasette
anni…»
Il cellulare ignoto, però,
continuava imperterrito a diffondere il suo irrispettoso motivetto e un
lieve chiacchiericcio si sparse lungo tutta la fila di sedie.
«Fratelli cari,»
richiamò i fedeli il prete con tono vagamente seccato
«in rispetto della memoria della qui defunta signora
Corvetti, chiederei a
tutti di spegnere i propri telefonini e di rimanere in
silenzio.»
Che razza di persona non mette in
silenzioso il cellulare durante un funerale? Povera signora Corvetti,
costretta a riceve l’ultimo saluto con in sottofondo la
musichina
“Nokia Tune”.
Era una vecchietta così
arzilla e solare. Fuori come un balcone, senza dubbio, ma estremamente
gentile. Mi sarebbe mancato fare la spesa per lei ed aiutarla a
cucinare. Mi sarebbero mancati anche i cinquanta euro che mi dava ogni
fine settimana per farle le faccende di casa. Ah, chissà se
avrei mai avuto un’altra vicina buona come lei! Era come la
nonna che non avevo mai conosciuto… Accidenti, ma
perché non si decidevano a spegnere quel cellulare?? La fu
Nonna Marcella meritava un
po’ più di rispetto!
«Giò, non mi dire che
è il tuo cellulare che suona!»
bisbigliò mamma, guardandomi con occhi fiammeggianti
«Spegnilo subito!»
Era impazzita? Non
avrei mai messo una suoneria così retrò!
«No, non è mio!»
«La musica viene dalla tua borsa!»
Era vero, quel suono fastidioso sembrava proprio avere origine
all’interno della
mia borsa nera.
Come fosse possibile non ne avevo idea.
Fui tentata di lanciare la borsa il
più lontano possibile da me, ma questo avrebbe solo
peggiorato la situazione, così mi alzai dalla sedia e mi
allontanai il
più velocemente possibile sotto lo sguardo indignato di
tutti i presenti. Che vergogna. Avevo voglia di farmi spazio nella bara
della
signora Marcella e farmi sotterrare anch’io.
Dopo aver camminato per circa una
ventina di metri verso la zona più isolata del cimitero, la
musichetta si fermò. Aprii la borsa ed estrassi con cautela
l’oggetto incriminato: un cellulare obsoleto dalla strana
marca. Dall’aspetto sembrava far parte della vecchia serie
dei Nokia
e anche la suoneria sembrava confermare tale ipotesi, eppure, sopra il
piccolo schermo, vi era inciso in stampatello non il nome della
multinazionale finlandese bensì “MAKIA”.
Non era la prima volta che vedevo
quel pezzo di antiquariato. Lo avevo trovato la settimana scorsa mentre
pulivo l’appartamento della signora Corvetti. Visto che era
scarico le avevo chiesto se lo dovessi mettere in carica ma lei mi
aveva risposto di lasciare stare, intanto non lo aveva mai usato e non
sapeva che farsene.
“Solo voi giovani sapete usare quella specie di arnese del
demonio!”
mi aveva detto dalla sua poltrona, intenta a leggere una rivista che
teneva a un palmo dal naso. E anche così dubitavo riuscisse
a distinguere qualche lettera.
“Prendilo pure
tu, figliola. Sarà più
utile a te che a questa vecchia decrepita!”
Ecco svelato il mistero del
perché avessi quello strano cellulare: lo avevo preso e
messo in carica (anche se non ricordavo di averlo infilato in borsa),
era stato
uno dei tanti regali che la generosa vecchietta mi aveva fatto.
Probabilmente non uno dei migliori, avrei apprezzato molto di
più una delle sue crostate fatte in casa che quel reperto...
Oppure dei biscotti, i suoi biscotti con zenzero e cannella erano
fantastici, per non parlare di quelli con mandorle e cioccolato! La
vita non sarebbe stata più la stessa senza quei biscotti...
Certo, la mia linea ne avrebbe giovato, ma ritrovarmi al pomeriggio a
sorseggiare una tazza di tè senza quei deliziosi
manicaretti... mi avrebbe lasciato un sapore amaro e ipocalorico in
bocca. Il sapore
della tristezza.
Naturalmente mi sarebbe mancata
anche la compagnia della vecchietta. Ogni volta che le preparavo del
tè, prima di prendere la tazza tra le mani, mi dava un
piccolo pizzicotto sulla guancia e mi faceva dei complimenti.
Anche la sera in cui è morta l’aveva
fatto.
“Adoro le tue guancione con le lentiggini! Ti voglio tanto
bene, bambina
mia!”
mi aveva detto poco prima che uscissi dal suo appartamento. Ecco,
quelle erano state proprio le sue ultime parole. Era molto carina come
frase, chissà se me l’aveva detta
perché sapeva che sarebbe morta nel giro di qualche ora,
forse se lo sentiva.
L’aveva trovata mamma la mattina dopo. Era salita per
portarle la posta e, visto che la porta
dell’appartamento non era chiusa a chiave, era entrata. Mi
aveva raccontato che la signora Corvetti era seduta in soggiorno, sulla
sua
poltrona, con un piccolo specchietto in grembo e la testa rovesciata
sullo schienale. Le era sembrato tutto normale finché non
l’aveva vista per bene in faccia, cosa che per poco non fece
morire di paura la povera mamma. I corti capelli, solitamente lisci e
candidi, erano stati arricciati e tinti metà blu e
metà
arancioni mentre il viso era ricoperto di un compatto strato di cerone
bianco, con il naso tinto di rosso così come la bocca, su
cui
era stato tracciato un sorriso che arrivava quasi fino alle orecchie.
Il dottore disse che doveva essere morta soffocata dalle sue stesse
risate.
Eh, nonna Marcella era buona e gentile ma probabilmente non ci stava
più tanto con la testa.
All’improvviso il telefono riprese a squillare, facendomi
quasi perdere la presa per lo spavento.
Sullo schermo non appariva alcun numero, vi era soltanto il simbolo di
una cornetta che oscillava.
Premetti il tasto di chiamata.
«Pronto?»
«Oh, finalmente!» esclamò
una nitida voce maschile
«Ce ne hai messo di tempo per rispondere,
ragazzina!»
Dal timbro della voce non sembrava essere troppo giovane, poteva
trattarsi di un uomo tra i trenta e i
sessant’anni. Non mi veniva in mente nessuno a cui potesse
appartenere.
«Mi scusi, con chi sto parlando?».
«Mi chiamo Machiavelli.»
Machiavelli? Come lo scrittore? Probabilmente se avessi conosciuto
qualcuno con quel cognome
me lo sarei ricordato.
«Mi spiace, signor Machiavelli, ma credo lei abbia sbagliato
numero…»
«No, no, guarda che Machiavelli è il mio nome! Non
il
cognome!»
«Ah.»
Sicuramente
se avessi conosciuto qualcuno con quel nome me lo sarei ricordato.
E io che mi lamentavo del mio…
«Allora, è già schiattata la
vecchia?»
«Come, prego?»
«Ma sì, la vecchietta rimbambita!»
continuò a parlare l’uomo lasciandomi sempre
più allibita
«Se
ero nella tua borsa deve aver per forza tirato le cuoia!»
«Ma chi è lei??!»
Ora capivo perché nonna
Marcella diceva che il cellulare era un arnese del demonio. Doveva
essere colpa di quel pazzo che aveva il suo numero.
«Ti ho già detto come mi chiamo!
Cos’è, sei
un po’ ottusa anche tu, Giò?»
«Come sa il mio nome??»
Mi sforzai di mantenere il sangue
freddo. Un pazzo sconosciuto mi aveva appena chiamata per nome ma ci
doveva essere un’altra spiegazione logica oltre
all’ipotesi
di uno stalker psicopatico che mi spiava da mesi e che forse mi stava
osservando anche in quel preciso istante… Forse si trattava
solo di un amico burlone della signora Corvetti ed era stata proprio
lei a
parlargli di me…
«Beh, è
semplice. È da più di un anno che entri ed esci
dall’appartamento della vecchia, è normale che
conosca il…»
Attaccai. La conversazione si stava
facendo troppo inquietante per i miei gusti. Forse era il caso di
liberarsi di quel telefono…
«Ehi! Hai cercato di zittirmi??»
Frenando l’impulso di urlare
e lanciare il cellulare, spinsi ancora il tasto per chiudere la
chiamata. Ero più che sicura di averlo già fatto
un secondo prima ma forse non avevo pigiato bene, poi quel cellulare
sembrava piuttosto vecchio…
«Guarda che è inutile che cerchi di chiudere la
chiamata, io parlo
lo stesso!»
No, non era possibile… Provai a cambiare tasto, spostando il
pollice
sopra quello di accensione/spegnimento.
«Inutile provare a spegnermi, solo io posso decidere quando
stare
zitto!»
Ci provai lo stesso ma
non funzionò. Mi venne in mente che, fin da quando lo avevo
trovato nella borsa, quel cellulare doveva essere
spento… e allora come diavolo aveva fatto a squillare
durante il funerale??
Forse quel giovedì mattina
avrei fatto meglio a sbarazzarmi di quell’aggeggio buttandolo
in una fossa che non era stata ancora riempita ma, invece, me lo portai
all’orecchio.
«Chi sei?»
«Te lo
ripeto un’altra volta ma tu vedi di aprire bene le orecchie e
accendere i neuroni!» disse la voce maschile in
tono seccato
«Piacere,
mi chiamo Machiavelli. Machia per gli amici.»
«Machia…?»
Quel nome mi diceva qualcosa…
«Beh, è
un po’ presto per definirci “amici” ma,
visto che ho iniziato io a chiamarti Giò, ti posso concedere
di chiamarmi
Machia.»
La soluzione di quell’enigma era così semplice da
non accorgermi
di averla proprio sotto il naso: “MAKIA”…
«Senti,
questo telefono è tuo, vero? C’è il tuo
nome sopra.»
«Ma tu
hai dei pesci rossi che nuotano dentro al cranio o cosa??!»
mi urlò l’uomo nell’orecchio
«Il
telefono non è mio!
IO SONO IL TELEFONO!!»
Sì, avrei
decisamente dovuto sbarazzarmene.
Note
dell’autrice:
Buondì
a tutti! Vi lascio giusto giusto un piccolo appunto su questa storiella
(che non dovrebbe superare i nove/dieci capitoli rigorosamente non
troppo lunghi, promesso). Qualche anno fa bazzicavo sul forum di EFP e
avevo adocchiato qualche contest. Mi iscrissi a tre o quattro e con
altri mi sono limitata ad osservarli curiosa e a buttare giù
idee. Ovviamente non ne portai a termine nemmeno uno (dai no, uno
sì, giusto una cosa che non supera le 500 parole).
Però
le idee (e pure qualche cosa di scritto!) sono rimaste, così
ho
deciso di andarle a rispolverare, rattopparle e infiocchettarle per
bene. Ecco la prima, nata dal contest del 2016 o 2017 sul tema
“maghette” (o almeno mi pare che di quello si
trattasse). A
presto (si spera entro la prossima settimana), RedCrimson.
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