Carissimi
lettori, ecco qui un altro mappazzone, stavolta bello grosso, che
rivisita in chiave moderna la favola di Peter Pan. Siccome ho scelto
di privilegiare l’atmosfera del cartone animato, scanzonata e
leggera, aspettatevi che qualche volta il realismo ceda un po’ il
passo all’effetto scenico. Ovviamente ho cercato di ridurre al
minimo la cosa, ma ho voluto avvisare perché magari non tutti
gradiscono questa scelta ed è bene che lo sappiano prima di leggere.
PETER
PANKOW E IL SEGRETO DI YPA’U OIYVA
I
– Gli antefatti
In
cielo non c'era una nuvola, l'aria era talmente immobile che le
foglie di palma della tettoia sembravano dipinte.
Da
qualche parte un insetto friniva eroico nonostante la calura. Per il
resto, l'unico suono che si udiva era una debole risacca, come se
anche il mare fosse troppo spossato per generare onde.
La
canna del Bofors 40, che sporgeva dal riparo puntata verso il largo,
dava l'idea di volersi afflosciare esausta sui sacchi di sabbia.
All'interno
della postazione, sotto l'approssimativa ombra di una rete mimetica e
qualche frasca, il soldato Matthews voltò la pagina di una rivista
che aveva l'aria di essere stata sfogliata altre centinaia di volte.
Comparve una ragazza seminuda e in posa provocante. “Ciao, Betty,”
la salutò.
“Che
fai?” gli chiese il soldato Fulton, dall'amaca su cui era sdraiato.
“Parli da solo?”
Raccolse
un bastoncino di bambù, lo puntò contro la culatta del cannone e si
diede una spinta per dondolarsi.
“Ormai
l'ho vista così tante volte che siamo quasi amici,” rispose
l'altro.
Di
nuovo calò il silenzio. Ancora più profondo, dal momento che nel
frattempo anche l'insetto si era zittito. Rimanevano solo il rumore
ipnotico della risacca e qualche raro cigolio quando Fulton si
muoveva.
Il
soldato Harlow, seduto su un'improvvisata sdraio, con i piedi
appoggiati alla barriera di sacchi di sabbia e il cappello calato
sugli occhi, brontolò: “Non succede mai niente.”
“Ringrazia,”
esalò il caporale Clifton, steso su una stuoia in mutande e
scarponi. “Adesso potremmo essere in Europa a farci sparare nel
culo dai crauti.” Fece una pausa, che utilizzò per grattarsi
accuratamente l'addome, poi soggiunse: “Qui è molto meglio,
nessuno ci rompe le palle.”
“Io
vorrei il cambio,” sospirò Matthews. Girò un'altra pagina,
comparve una nuova ragazza, questa volta con un succinto costume alla
marinara. “Ciao, Kate.”
“Nah,”
Fulton scosse la testa, provocando un cigolio della sua amaca, “che
cambio e cambio: molto meglio starsene qui, dove il rischio maggiore
è quello di morire di noia.”
La
conversazione si esaurì, l'insetto lontano riprese a frinire. Lo
sciabordio della risacca invitava all'abbandono.
D'un
tratto cominciò a farsi udire il ronzio lontano di un aereo.
“Avete
sentito?” chiese Matthews. Abbandonò da una parte la rivista e
prese a scrutare il cielo schermandosi dal sole con la mano.
“Sarà
quello della posta,” disse Fulton alle sue spalle.
Dalla
stuoia provenne: “A quest'ora?”
Senza
togliersi il cappello dalla faccia, Harlow chiese: “Perché, che
ore sono?”
Il
ronzio si fece più intenso, nel cielo comparve un puntino nero.
Matthews si alzò e andò ad affacciarsi sul mare. “Viene verso di
noi,” annunciò.
“E
certo,” replicò Fulton, col tono di ribadire l'ovvio, “deve
portarci la posta.”
L'altro
andò alla ricerca del binocolo, quindi lo inforcò e cominciò a
scrutare il cielo. “Ragazzi!” esclamò dopo un po', col tono del
cercatore d'oro che ha appena trovato una pepita grossa come la sua
testa. “Ragazzi, venite a vedere!”
Il
puntino nero continuava imperterrito a muoversi avanti e indietro.
“Ragazzi,
che mi venga un colpo secco se quello là non è un mangiacrauti!”
L'affermazione
fu seguita da un silenzio carico di perplessità.
“Un
mangiacrauti?” fece eco dopo un po' Harlow. “Qui?”
“Come
ce le abbiamo noi, delle navi da queste parti, ce le hanno anche
loro,” disse Matthews col tono che avrebbe usato parlando con un
bambino non troppo sveglio. “E anche loro sulle navi hanno gli
idrovolanti da ricognizione.” Andò alla ricerca dell'opuscolo con
i profili degli aerei e lo sfogliò rapidamente. “Ecco qui,”
disse alla fine, mostrando una sagoma nera. “Arado 196. Più crucco
dell'Oktoberfest.”
Fulton
dedicò all'immagine un'occhiata svogliata. “Preferisco Betty,”
sentenziò poi.
“Ragazzi!”
Matthews cominciò a togliere freneticamente tutto ciò che nel tempo
si era accumulato sul Bofors 40: armi individuali, canne di bambù
più o meno intagliate, un paio di calzini stesi ad asciugare.
“Ragazzi, datevi una mossa o ci scappa!”
“Che
palle,” brontolò Harlow abbandonando la sua sedia.
“Se
mi hai fatto alzare per il nostro postale, giuro che ti prendo a
calci nel culo,” promise il caporale Clifton in tono sinistro.
§
Il
tenente Pankow diede un'occhiata di lato: la sagoma frastagliata
della costa, di un bianco che sotto il sole costringeva a stringere
gli occhi, emergeva da un'acqua azzurro chiarissimo, che andando
verso il largo diventava di un intenso turchese e poi di un blu
profondo e misterioso.
Nell'entroterra,
quasi coperte da una vegetazione lussureggiante che aveva tutti i
toni del verde, si indovinavano sagome dalla vaga forma geometrica.
L'ufficiale
spinse in avanti la barra, l'aereo picchiò appena. “Davanti a noi,
Till,” disse, inclinando di lato il velivolo per avere una
prospettiva migliore, “vedi niente?”
“Nossignore,”
giunse la risposta.
“Per
me sono costruzioni,” insisté il pilota. Le indicò col dito.
“Forse
sono vecchie case coloniali, signor tenente,” azzardò cauta la
voce del radiotelegrafista, “edifici abbandonati.”
“E
se andassimo a dare un'occhiata?” propose l'ufficiale. Sembrava che
stesse invitando il subalterno a fare una gita da qualche parte.
“Siamo
fuori da parecchio, signore,” giunse la cauta replica. “La
benzina...”
“Ce
n'è sempre un po' di più,” lo interruppe il pilota con un'alzata
di spalle, “l'indicatore non è molto preciso. E poi al massimo
ammariamo e chiediamo via radio alla Schütze
di venirci a prendere.”
“Ma
signore...” la voce dell'osservatore suonava quasi imbarazzata.
“Signore, dubito che il comandante von Stauff devierebbe dalla
rotta per venire a raccoglierci in mezzo al Mar dei Caraibi.”
Disinvolto,
Pankow replicò: “Ma figurati! Vuoi che il Vecchio lasci il suo
unico pilota a mollo come un'anatra? E poi chi gliele fa le
ricognizioni aeree?”
Detto
questo, puntò verso l'entroterra e diede motore.
A
quel punto, un proiettile d'artiglieria passò così vicino che lo
spostamento d'aria fece sbandare l'aereo.
“Ehi!”
esclamò Pankow costernato. Rimise il velivolo in assetto, ma un
attimo arrivò dopo un secondo proiettile.
Nell'interfono
risuonò la voce preoccupata dell'osservatore: “Signor tenente,
andiamo via!”
“Aspetta,”
Pankow scartò per evitare un altro colpo. “Aspetta, voglio vedere
da dove sparano, voglio...”
Un
colpo perse in pieno il motore. L'Arado 196 sussultò, l'elica si
inchiodò, dalla capottatura cominciò a uscire un fumo nero e denso,
che faceva tossire e lacrimare gli occhi.
Il
velivolo cominciò a perdere quota.
“Signor
tenente!” esclamò l'osservatore inorridito. “Signore, stiamo
precipitando!”
“Accidenti,
avevo messo in fresco una bottiglia per stasera.”
La
terra si avvicinava con inquietante velocità. Man mano che i metri
di quota scemavano, la massa verde della giungla perdeva l'aspetto di
uno smeraldo screziato per assumere quello di un sinistro groviglio
di piante dal quale spuntavano rami secchi e liane.
Pankow
cercò di guardare fuori, ma le folate di fumo gli consentivano solo
brevi scorci dell'ambiente circostante. L'unica cosa che si vedeva
chiaramente era la terra sempre più vicina. Lavorando di barra e
pedali per tentare di mantenere l'assetto, filosoficamente recitò:
“Lo sai, Till? Ci sono tre cose inutili in aviazione: il carburante
lasciato a terra, i metri di pista dietro le spalle e i metri di
quota sopra la testa.” Fece una breve pausa, quindi in tono quasi
rassicurante soggiunse: “A noi però non interessano i metri di
pista: siamo un idrovolante.”
E
poi successe la fine del mondo: qualcosa agganciò uno degli scarponi
dell'aereo, il velivolo si rovesciò e cadde fracassando rami,
recidendo liane e sollevando nugoli di foglie. All'interno il
frastuono era tremendo: si udivano schianti, gemiti, scricchiolii e
boati, il rumore del metallo che si piegava e quello del legno che si
frantumava. Pankow provò anche a imprecare, ma nel chiasso non
riuscì nemmeno a udire la propria voce.
L'aereo
capitombolò rotolando come una specie di dado da gioco per un tempo
che parve infinito, precipitando sempre più a fondo nella foresta,
lasciandosi dietro un pezzo dopo l'altro. Infine, ridotto a poco più
di una fusoliera avvolta dalle liane, si fermò penzoloni come un
grottesco bozzolo.
Sulla
scena cadde un silenzio irreale.
Pankow
sbatté gli occhi: la luce verde che regnava ovunque faceva pensare
di essere sul fondo di uno stagno e l'umidità favoriva decisamente
l'illusione. “Ma che accidenti...” bofonchiò. Poi, a voce più
alta: “Schelle? Till? Tutto a posto?”
Da
dietro le sue spalle provenne: “Con il dovuto rispetto, signore:
tutto a posto un cazzo.”
Il
tenente rinunciò a rispondere. Si guardò invece lentamente intorno:
innanzitutto realizzò di essere ancora assicurato al sedile tramite
le cinture di sicurezza. La capottina era sparita, il muso dell'aereo
puntava verso il basso, per cui dalla posizione in cui si trovava
vedeva perfettamente il suolo, distante forse due o tre metri.
Tutt'intorno c'era uno sfacelo di rami spezzati, foglie e liane
contorte.
Al
suolo, per quel che poteva vedere, c'era uno spesso tappeto di
vegetali marcescenti, dal quale spuntavano arbusti sconosciuti.
“Sarà
meglio trovare il modo di scendere,” propose.
Alle
sue spalle, Till replicò: “Ma signore, come facciamo?”
“Preferisci
stare qui ad aspettare gli inglesi?”
“Nossignore.”
“Allora
cerchiamo di scendere.” Pankow cominciò ad armeggiare con le
cinghie di sicurezza.
Dopo
un po', in tono esitante, il radiotelegrafista disse:”Signore, ho
sentito dire che in questi posti ci sono insetti velenosi e
serpenti.”
“E
io invece ho sentito dire che ci sono gli inglesi, che non sono
velenosi, ma prendono i tedeschi come noi, li interrogano per vedere
se sanno qualcosa di interessante e poi li spediscono nei campi di
prigionia fino alla fine della guerra.” Fece una pausa che utilizzò
per imprecare contro la cintura che non si voleva aprire, quindi
concluse: “Io non ho nessuna intenzione di fare questa fine,
Schelle. A bordo della vecchia Schütze
ho una bottiglia che mi aspetta e ho tutte le intenzioni di berla
alla salute del Führer.”
“Sissignore,”
sospirò l'altro rassegnato.
“Quindi
ora diamoci da fare e...” La cintura cedette all'improvviso. Pankow
piombò giù con un grido e atterrò in un cumulo di fogliame
putrido.
Riemerse
dallo strato di vegetali soffiando e scrollandosi, poi alzò lo
sguardo a incontrare quello del suo subalterno. “Vieni?” gli
chiese. Sembrava che gli stesse proponendo di tuffarsi in una piscina
dall’acqua particolarmente gradevole.
“Ma
signore...”
“Tanto
lassù non ci puoi rimanere, Till.”
“Sissignore.”
Schelle
sbloccò la cintura di sicurezza, ma invece di lasciarsi cadere si
aggrappò a quel che rimaneva delle strutture dell’aereo e riuscì
a calarsi lentamente a terra.
Quando
i due furono di nuovo faccia a faccia, Pankow disse: “Sarà meglio
spostarci di qui.” Si guardò intorno con l’aria di aspettarsi
una strada asfaltata da qualche parte. “E poi potremmo dare
un’occhiata in giro, che ne dici?”
Il
radiotelegrafista quasi sbiancò. “Ma signore,” rispose, “l’isola
è controllata dagli inglesi. Posto che la radio sia ancora in
funzione, dobbiamo comunicare la nostra posizione alla Schütze
e poi nasconderci.
Il
tenente fece una risatina. “Sei diventato un gibbone, per caso,
Schelle?”
“Prego,
signore?”
Pankow
indicò il relitto, che penzolava a tre metri d’altezza e gli
chiese “Come conti di raggiungerlo, senza le doti di una scimmia?”
“Merda,”
sospirò Till dopo aver alzato gli occhi a sua volta.
“Una
barca devono averla per forza,” disse il tenente Pankow. “Come
fanno a non avere una barca in un posto del genere?” Si fermò e
rivolse un’occhiata a Till Schelle, che lo seguiva in silenzio. “Se
siamo fortunati c’è addirittura un idrovolante. Magari uno di quei
loro Swordfish.” Riprese a camminare di buon passo, apparentemente
incurante di caldo, insetti, serpenti ed eventuali presenze nemiche.
“È un po’ che non piloto un biplano,” considerò poi, come fra
sé e sé, “ma è come andare in bicicletta, no? Una volta
imparato, non si dimentica più.”
“Sissignore,”
sospirò il radiotelegrafista.
Si
terse il sudore dalla fronte, e poi dal collo. L’aveva fatto tre
minuti prima, ma di nuovo ritrasse la mano grondante come se l’avesse
immersa nell’acqua.
Strinse
i denti sforzandosi di tenere dietro al tenente. Peter Pankow era una
specie di folletto smilzo, dotato di energie apparentemente
inesauribili e della mentalità, oltre che dell’aspetto, di un
sedicenne. In quel momento, ad esempio, più che un ufficiale dietro
le linee nemiche, abbattuto su un’isola sconosciuta, con minime o
forse addirittura nulle possibilità di sfuggire alla cattura,
sembrava un ragazzino che stava giocando agli indiani.
Non
che fosse una cattiva persona, questo no, ed era anche un ottimo
pilota, però…
La
voce trionfante di Pankow interruppe il filo dei suoi pensieri:
“Guarda là, Till: te l’avevo detto che c’erano delle
costruzioni!”
Il
caporale si voltò verso ciò che il suo superiore stava indicando e
dovette reprimere un improperio: poco più avanti la vegetazione
sembrava essere stata abbattuta con mezzi efficaci ma frettolosi,
forse addirittura un bulldozer, o magari un paio di cariche
esplosive, e tra le fronde così sfoltite si intravedeva quello che
inequivocabilmente era un edificio vetusto, con l’intonaco un po’
scrostato e la poca pittura rimasta ormai coperta da inflorescenze di
muffa nera. La bandiera inglese che pendeva dal terrazzo, per contro,
era nuovissima.
Schelle
agguantò il suo noncurante superiore e lo spinse al riparo di un
tronco, quindi sussurrò: “Dobbiamo andarcene subito, signore.”
L’altro
lo fissò come se avesse appena parlato in cinese. “Perché?”
“Signore,
è pieno di inglesi.”
Pankow
alzò gli occhi al cielo. “Caporale Schelle,” replicò, con
l’aria del maestro che per la terza volta spiega a un alunno
un’operazione semplicissima, “i mezzi per andare via di qui non
sono mica parcheggiati nel mezzo della foresta: ce li hanno gli
inglesi.”
“Sì,
ma signore… non potremmo almeno aspettare il buio?”
“E
stare qui con questo caldo? In mezzo agli insetti? No no, io stasera
voglio essere già a bordo. E poi ti dirò di più: voglio proprio
vedere cosa c’è in questo posto. Se il Vecchio ci ha mandati a
fare una ricognizione, è segno che deve esserci qualcosa di
interessante.”
“Ma
signore,” tentò Schelle in extremis, “hanno visto l’aereo
cadere, ci staranno cercando ovunque.”
“Staremo
nascosti,” gli assicurò Pankow disinvolto, “Non ci vedrà
nessuno.” Si incamminò con risolutezza.
Till
scosse la testa come di fronte all’ineluttabilità del fato. Lo
lasciò allontanare di qualche decina di metri masticando improperi a
mezza voce, ma quando vide che scompariva nella vegetazione
assolutamente certo che lui fosse alle sue spalle, a malincuore si
risolse a seguirlo.
Il
tenente si decise a mettersi in copertura solo quando l’edificio
era così vicino che si riusciva a sentire una radio che trasmetteva
musica leggera.
Till
lo imitò e i due avanzarono strisciando sul terreno, tenendosi
quanto più possibile sotto gli arbusti.
Giunti
al limite della vegetazione, si rintanarono sotto un cespuglio e
rimasero a guardare: l’edificio dava l’idea di essere stato ai
suoi tempi una graziosa villa coloniale. Era difficile dire di che
epoca fosse, perché l’umidità e le piante che ancora gli
crescevano negli anfratti meno raggiungibili lo facevano sembrare una
specie di reperto archeologico disperso nella giungla.
Tutt’intorno
alla costruzione vi era appena lo spazio sufficiente a consentire la
manovra a un autocarro, tanto che i rami degli alberi più alti si
protendevano fin quasi a coprire la struttura.
Davanti
alla porta principale della villetta, due piantoni con il Lee-Enfield
in spalla camminavano lenti su e giù. Poco lontano un sottufficiale
segaligno, con lo swagger
stick sottobraccio,
fissava serio i dintorni, con l'aria di aspettarsi proprio l'arrivo
di due tedeschi dispersi dietro le linee.
“Di
là non si entra,” sussurrò Pankow. Scosse la testa deluso.
Schelle
si voltò a fissarlo stupefatto. “Scusi?” gli chiese, ancora non
ben certo di aver udito correttamente.
“Non
si entra,” fu la replica, proferita col tono di una banale
conversazione. “Troppa gente.”
Per
qualche secondo il caporale rimase senza parole. Infine, con la
pacata lentezza con cui si parlerebbe a un suicida su un cornicione,
disse: “Signore, noi non dobbiamo entrare. Dobbiamo procurarci un
mezzo per abbandonare quest'isola.”
Pankow
fece un gesto noncurante. “Dopo,” rispose. “Abbiamo tutto il
tempo per andarcene, ci sono ancora un sacco di ore prima delle
effemeridi.”
Till
emise un sospiro. Conosceva l'espressione che il suo superiore aveva
assunto: era quella che invariabilmente preludeva alle azioni più
avventate e irresponsabili. “Signore...” tentò un'ultima volta.
L'altro
alzò le spalle. “Un'occhiatina, che vuoi che sia? Saremo fuori
prima ancora che si accorgano che siamo entrati.”
“Ma
signore...”
Per
tutta risposta, Pankow si alzò e camminando piegato per mimetizzarsi
meglio prese a girare intorno all'edificio. “Ci sarà una finestra
aperta... una botola...” mormorava frattanto fra sé e sé.
Till
seguiva il superiore indeciso sul da farsi. Impuntarsi e farlo
proseguire da solo? Provare a fermarlo in qualche modo? Consegnarsi
spontaneamente agli inglesi, prima che qualche stupidaggine del
tenente li facesse passare da prigionieri di guerra a spie passibili
di fucilazione sul posto?
La
voce dell'ufficiale lo fece quasi sussultare: “Eccola!”
Il
caporale abbandonò le proprie elucubrazioni. “Che cosa, signore?”
Assunse l'espressione di chi sta per ricevere una secchiata di
liquami in faccia.
“Guarda
quella porta.” Il tenente indicò un'uscita di servizio socchiusa.
Accanto a essa, riverso sui sacchi di sabbia della postazione, un
soldato dormiva della grossa con una rivista aperta sulla faccia per
proteggersi dal sole.
“Non
vorrà passare accanto a quel tizio, signore,” tentò Schelle, ben
sapendo quale sarebbe stata la risposta.
Prevedibilmente,
Pankow rispose: “Se facciamo piano non se ne accorgerà nemmeno.”
§
Nello
stesso momento, a pochi metri in linea d'aria dai due tedeschi, un
capitano di fregata britannico stava tracciando una rotta su una
carta nautica. Usava squadra e compasso con una disinvoltura che
denotava una lunga pratica, interrompendosi di tanto in tanto per
scrivere cifre su un taccuino.
A
un certo punto, l'ufficiale abbandonò gli strumenti sul piano della
scrivania e volse lo sguardo verso la finestra. Attraverso le fronde
si intravedeva il turchese chiaro dell'acqua. Per quanto umida e
calda, appesantita dagli afrori della vegetazione tropicale, l'aria
conservava una traccia del profumo di salsedine del mare aperto. Egli
se ne beò socchiudendo gli occhi, quindi emise un sospiro che aveva
al tempo stesso il tono malinconico della nostalgia e quello
gagliardo di un anelito a stento trattenuto.
Si
udì bussare. Colpi poderosi, sonori, sotto i quali la porta tremò
come se dall'altra parte ci fosse un cavallo che scalciava.
Senza
scomporsi, il comandante si lisciò appena i sottili baffi neri,
raddrizzò di una frazione di millimetro il perfetto nodo Windsor
della cravatta e disse: “Avanti.”
L'anta
si spalancò, rivelando la figura massiccia di un sottufficiale.
Questi si mise più o meno sull’attenti, salutò e annunciò: “Con
il suo permesso, comandante, la Jolly
Roger è pronta a
salpare!”
Hook
annuì. “Molto bene, signor Soak,” apprezzò sobrio. Si alzò in
piedi, rivelando un’altezza decisamente superiore alla media. Fece
qualche passo nella stanza e si fermò accanto alla finestra. Da
quella posizione si vedeva bene uno snello incrociatore alla fonda
presso il limitare della laguna. Anche a distanza, la nave dava una
confortante impressione di ordine, pulizia ed efficienza.
“Molto
bene,” ripeté il comandante.
“Grazie,
signore,” rispose l'altro senza muoversi dalla soglia.
“Venga
avanti, nostromo,” lo invitò l'ufficiale, quindi tornò a
rivolgere lo sguardo all'incrociatore. “Abbiamo notizie di quel
velivolo?” domandò poi, col tono di chi chiede informazioni sul
prossimo torneo di bridge. “Mi consta che fosse nemico.”
“È
stato abbattuto, signore,” rispose prontamente il sottufficiale,
“ci ha pensato una delle nostre batterie costiere.”
Il
capitano sollevò un sopracciglio con l'aria di aspettarsi la seconda
metà – quella importante – della risposta. Soak deglutì.
Passò
qualche secondo, durante il quale l'unico rumore che si udì fu un
vago stormire di fronde agitate dalla brezza, poi l'ufficiale gli
venne in aiuto: “Che ne è stato dell'elemento umano, signor Soak?”
“L'elemento
umano...” ripeté l'altro, con l'aria di riflettere furiosamente
sul significato della locuzione, “ecco...” Infine gli si accese
la lampadina: “L'equipaggio! L'equipaggio, è chiaro.” A quel
punto, l'entusiasmo si esaurì come un fuoco malamente alimentato, il
sottufficiale emise un sospiro. “Li stanno cercando, signore.”
Il
sopracciglio si levò nuovamente, in un silenzio carico di
riprovazione. Il sottufficiale incurvò appena le ampie spalle.
“Signor
Soak,” disse infine il capitano, “È superfluo che io le rammenti
l'estrema importanza della nostra missione, non è vero?”
“Perfettamente
superfluo, signore,” confermò volenteroso l'altro.
L'ufficiale
annuì grave. Con andatura misurata tornò alla carta nautica, che
rappresentava il Mar dei Caraibi, vi fece scorrere sopra lo sguardo,
quindi proseguì: “La Jolly
Roger è chiamata a un
compito di fondamentale importanza.” Chino sulla mappa, fissò di
sottecchi il subalterno. “Un compito segreto,”
gli confidò, abbassando appena la voce.
“Sissignore,”
fu la risposta del sottufficiale.
Il
capitano si raddrizzò, di nuovo si lisciò i curatissimi baffi con
gesto elegante. “Le nostre spie in Europa hanno acquisito un'arma
sperimentale del Reich,” disse con aria di mistero, “e sarà
compito della Jolly
Roger piazzarla e
renderla operativa.” Puntò il dito sulla mappa, in una posizione
che sembrava perfettamente equidistante dalle coste di Nicaragua,
Giamaica, Panama e Colombia, e disse: “Proprio qui.”
Il
nostromo si protese a sua volta sulla mappa. La scrutò grattandosi
pensoso la testa, quindi chiese: “In mezzo al mare, comandante?”
L'altro
scosse il capo come se si fosse aspettato esattamente quella domanda,
e la considerasse anche piuttosto sciocca. “A Ypa'u
Oiyva,” rispose. “L'isola che non c'è, in lingua locale.”
§
Addossato
alla parete, Pankow scrutò il corridoio in penombra che gli si
apriva davanti. Diede appena di gomito al subalterno: in fondo c'era
una porta chiusa, contrassegnata da un cartello su cui a caratteri
cubitali e con molti punti esclamativi si vietava l'accesso a
chiunque non fosse addetto ai lavori. “Roba forte,” commentò,
con un brillio avido nello sguardo.
“Magari
c'è solo il quadro elettrico, signore,” replicò Till, ansioso
invece di abbandonare l'edificio.
“Macché
quadro elettrico,” fu la risposta, “sono sicuro che là dentro ci
sia qualcosa di interessante.”
“Signore,”
tentò Schelle, “non potremmo cercare di prendere quell'idrovolante
ormeggiato lungo il molo? Quando siamo passati davanti alla finestra
ho visto che lo stavano rifornendo.”
“Ma
sì, ma sì, dopo,” sussurrò Pankow sbrigativo, “ora voglio
vedere cosa c'è.” Rivolse alla porta lo sguardo che un ragazzino
avrebbe riservato ai regali ammucchiati sotto l'albero di Natale.
Till
ebbe la tentazione di agguantare il suo superiore, metterselo in
spalla e andare via così. Lo trattenne solo la certezza che quella
specie di folletto si sarebbe divincolato e liberato nel breve
volgere di pochi secondi. Considerando che era lui il pilota, non
sarebbe stata una buona idea farselo scappare, o peggio permettere
che finisse in mani nemiche. Emise un sospiro, quindi aprì la bocca
per dire qualcosa, ma il rumore di passi in avvicinamento lo convinse
invece a tacere. Tirandosi dietro il tenente arretrò fino al vano di
una porta e da lì rimase a osservare lo svolgersi degli eventi.
Da
un corridoio laterale sbucarono alcuni uomini. Il primo era un
ufficiale di marina alto, elegante, che esibiva una distaccata
albagia. Accanto a lui camminava un uomo più basso, con gli occhiali
e i capelli brizzolati, che portava un camice bianco sull'uniforme e
aveva in mano un mazzo di chiavi. Seguivano un sottufficiale grande e
grosso e un paio di marinai. Tutti si stavano dirigendo verso la
famosa porta col cartello.
I
due si scambiarono uno sguardo.
Il
gruppetto si fermò, ufficiale e militare in camice bianco
confabularono un po' a bassa voce, poi il secondo infilò una chiave
nella toppa e la fece girare, producendo lo scrocchiare di una
pesante serratura. La porta si schiuse, rivelando uno scorcio di
scaffali ingombri di oggetti.
A
quel punto sopraggiunse un altro marinaio, che si mise sull'attenti e
riferì qualcosa. Il gruppetto, che stava per entrare nella stanza,
si mosse compatto per seguire il nuovo arrivato. L'ufficiale in
camice bianco si tirò dietro la porta, ma non fece scattare la
serratura. I passi si allontanarono fino a scomparire.
“Io
vado a vedere,” annunciò Pankow.
“Oh,
no,” gemette Till. “Signore, la prego, andiamocene. Là fuori c'è
l'idrovolante, nessuno ci ha visti. Non si ripeterà più
un'occasione del genere.”
“Solo
un'occhiatina,” ribatté disinvolto l'ufficiale, e senza attendere
risposta si diresse risolutamente verso la porta chiusa.
Schelle
si passò una mano sul volto con fare esasperato. “Signore Iddio,”
sospirò. Si vide già legato a un palo, con la benda sugli occhi e
l'ultima sigaretta fra le labbra.
Pankow
frattanto aveva raggiunto la porta, e dopo essersi guardato intorno
con l'aria di un furetto che scopre un nido incustodito, stava
abbassando la maniglia.
Till
si appiattì maggiormente contro il muro, l'altro scivolò nella
stanza e si chiuse la porta alle spalle.
“Ecco
fatto,” sospirò tra sé e sé il radiotelegrafista.
Rimase
a fissare la porta chiusa, dalla quale non proveniva il minimo
rumore. Col cazzo che
entro, si disse. Non
sono mica stupido, io.
Arretrò di qualche passo, raggiunse una finestra che dava
sull’esterno: al di là si vedeva una spianata che terminava in un
molo. Ormeggiato a una bitta, un bellissimo Swordfish ondeggiava
appena, spinto dal movimento dolce della risacca.
“Ooh!”
fece Pankow, guardandosi intorno meravigliato. La stanza sembrava una
via di mezzo tra un laboratorio e un magazzino ed era piena di cose
strane. Da una parte c'era un siluro mezzo smontato, con il sistema
propulsivo collegato a quella che sembrava una grossa batteria da
camion. Lungo le pareti c'erano scaffali su cui si trovava qualsiasi
cosa, dai remi ai fari da segnalazione, passando per oggetti pieni di
lenti e di antenne, di cui nemmeno immaginava la funzione. Da una
parte era appoggiata una semiala verniciata di uno strano colore
iridescente, che sotto la luce prendeva sfumature azzurre e violacee.
In
fondo alla stanza c’era una porta aperta.
Il
tenente la raggiunse e guardò dentro: c’erano un ponteggio, una
fossa d’ispezione e un paranco che pendeva dal soffitto, ma tutto
era immacolato, senza la più piccola traccia di sporcizia.
Su
uno dei banchi da lavoro c’era una grossa sfera nera e lucida, dal
diametro di circa mezzo metro, irta di aculei. Pankow la raggiunse e
dapprima la fissò incuriosito, poi toccò una delle protuberanze che
la ricoprivano ed essa emise un breve, sinistro ticchettio.
Il
tenente si ritrasse aggrottando le sopracciglia, e così facendo urtò
col piede contro un carrello che si spostò cigolando.
Abbassò
lo sguardo e gli occhi gli si dilatarono per la sorpresa: sulla
piattaforma mobile era posato un contenitore che aveva più o meno le
dimensioni di una cassetta da vino, a tenuta stagna, contrassegnato
con l’aquila del Reich.
Sul
coperchio c'era la scritta in rosso GeKaDoS[1].
“Merda,”
mormorò tra sé e sé.
Senza
staccare gli occhi dalla misteriosa cassa, come se smettendo di
guardarla avesse potuto scomparire, si chiese come fosse capitata lì,
e naturalmente cosa ci fosse dentro. Doveva esserci roba segreta,
ovviamente. Forse armi, magari documenti. La afferrò per i manici
che aveva sui lati, cercò di sollevarla: non doveva contenere
lingotti d’oro, anche se di sicuro non era leggera.
Sollevò
lo sguardo verso la porta, poi di nuovo lo rivolse alla cassetta.
GeKaDoS: quella era roba che scottava, roba segreta. Roba che non
avrebbe assolutamente dovuto trovarsi in mano agli inglesi.
Senza
pensarci due volte, agguantò il contenitore per i manici e fece per
correre fuori.
A
quel punto, la porta che dava sul corridoio si aprì ed egli vide
entrare il gruppetto che se n’era allontanato poco prima:
l’ufficiale con la scopa nel culo, il tizio col camice e i tre
marinai.
Senza
mollare la preziosa cassa, il tenente spinse il carrello sotto uno
dei tavoli da lavoro, poi saltò dentro la fossa d’ispezione e si
rannicchiò nell’angolo più buio di essa.
Sentì
dei passi avvicinarsi. Una voce impostata e vagamente sussiegosa
chiese: “Cosa sarebbe questo oggetto?”
“Una
mina navale sperimentale,” rispose un’altra voce, più sollecita,
col tono dello scolaro che vuole mostrare le proprie conoscenze al
professore. “La Crocodile. No capitano, prego, non la tocchi: basta
una pressione di qualche secondo per attivarla.”
Di
nuovo la voce impostata: “Che cosa accadrebbe in tal caso?”
“Beh…
il suo potenziale esplosivo è enorme, potrebbe squarciare senza
fatica il fianco di una corazzata.”
“Interessante.”
L’apprezzamento
conferì alla voce sollecita una vibrante nota di entusiasmo: “Una
volta attivata, la mina scompare al di sotto della nave,
posizionandosi esattamente in corrispondenza della chiglia. Nessuno
si accorge della sua presenza.” Il tono si abbassò di un’ottava,
facendosi cospiratorio. “Al momento buono, l’ordigno abbandona la
sua posizione, riemerge e comincia a ticchettare. Se a quel punto i
suoi sensori incontrano una superficie solida… Boom!”
“Quale
sarebbe il momento buono?” domandò la prima voce, cui la
pittoresca spiegazione non aveva conferito sostanziali variazioni.
Si
udì un sospiro. “È questo il problema: non siamo ancora riusciti
a scoprirlo. Per ora, la Crocodile abbandona la sua posizione sotto
la chiglia in maniera apparentemente casuale e...”
Una
terza voce, forte, rude e arrochita da una lunga consuetudine a rum e
sigari, interruppe la spiegazione: “Signore, dov’è la cassa che
dobbiamo portare a bordo?”
Seguirono
non meno di cinque secondi di un silenzio che aveva la connotazione
della tregenda.
Pankow
a quel punto immaginò il gioco di sguardi fra i tizi, e poi le
occhiate che sempre più ansiose dardeggiavano in giro per la stanza.
Pensò
che non ci avrebbero messo molto a cominciare a guardare in giro.
Cercò
di appiattirsi maggiormente contro la parete della fossa d’ispezione,
ma per quanto fosse magro, neppure lui sarebbe riuscito a nascondersi
in un buco vuoto.
Sentì
una goccia di sudore scendergli lungo la tempia, i pensieri
cominciarono a saettargli in giro per il cranio come vespe intorno a
un favo molestato.
Pensò
a Till, si chiese dove fosse finito, se l’avessero già preso.
Pensò alla Germania, alla Schütze
che lo aspettava e – perché no – pensò anche alla sua personale
pelle, cui in fin dei conti era discretamente affezionato.
Si
decise in un attimo: reggendo la cassa fra le mani balzò fuori dalla
fossa come un tappo di champagne e cominciò a correre verso la porta
con tutta la velocità che le gambe gli consentivano.
Ci
furono una cacofonia di interiezioni, un tramestio e infine passi di
corsa alle sue spalle. Poi si sentì afferrare per la collottola,
capitombolò all’indietro, si raddrizzò con un colpo di reni. Il
tizio enorme fece per strappargli la cassa di mano, lui balzò
indietro, perse l’equilibrio finendo addosso all’ufficiale
azzimato, che senza un attimo di esitazione cercò di abbrancarlo.
Pankow
si svincolò rapido, si fece indietro, ma il sottufficiale,
spalleggiato dai due marinai, gli si stava inesorabilmente
avvicinando.
Senza
abbandonare la cassa indietreggiò di un altro passo, finendo a
ridosso di uno dei tavoli da lavoro, proprio accanto all’incombente
massa nera della mina Crocodile.
L’ufficiale
gli rivolse un’occhiata di degnazione, e in un tedesco che non
avrebbe sfigurato in una sessione universitaria gli disse: “Sia
gentile, tenente, smetta di crearci problemi.”
Vagamente
ansante, Pankow fece saettare lo sguardo dall’uno all’altro degli
uomini che lo circondavano, quindi fece un sorrisetto e rispose:
“Spiacente, comandante…?”
“James
Hook,” si presentò l’altro con sussiego.
“In
tal caso, spiacente, comandante Hook: creare problemi è la mia
specialità.” Gli tirò addosso la cassetta con un gesto repentino,
quindi cercò di schizzare via, solo per essere nuovamente acciuffato
dall’erculeo sottufficiale, che subito dopo lo sollevò per la
collottola come se fosse stato un gatto.
In
quel momento si udirono un colpo e un grido, il sottufficiale mollò
la presa e si accasciò al suolo.
Alle
sue spalle comparve Schelle, con un remo in mano. “Andiamo, signor
tenente!” esclamò il caporale. Qualcuno cercò di colpirlo, ma
Till roteò l’improvvisata arma una seconda volta, spargendo in
giro meccanismi e attrezzi, ma anche abbattendo uno dei marinai. Hook
si chinò per recuperare la cassetta, ma a quel punto Pankow diede
una spinta alla mina Crocodile, che cadde dal tavolo sui cui era
posata, finendo direttamente sulla mano del comandante. A dispetto di
tutto il suo aplomb, questi gettò un grido e lasciò andare il
contenitore per stringersi al petto l’arto sanguinante.
Ticchettando in modo sinistro, l’ordigno prese a rotolare adagio
verso la parete.
A
quella vista, il tizio col camice bianco strabuzzò gli occhi e saltò
a pesce nella fossa d’ispezione.
“Oh,
cazzo...” cominciò Pankow, ma non riuscì nemmeno a finire la
frase: un’esplosione mostruosa fece saltare il muro come se fosse
stato di cartone, lo spostamento d’aria ribaltò gli scaffali con
tutto il loro contenuto e spedì oggetti a spiaccicarsi contro le
pareti come pillacchere di fango. Polvere e fumo invasero la stanza,
da qualche parte cominciò a suonare un allarme aereo. Si sentivano
delle urla, la contraerea sparò qualche colpo.
Il
tenente saltò in piedi, si scrollò e individuò la cassa sotto un
mucchio di detriti. La afferrò per una maniglia. “Till, ci sei?”
chiamò, guardandosi intorno. C’erano sagome umane in giro, ma
erano talmente coperte di polvere che non si distingueva più il
colore delle uniformi. “Till?”
Un
cumulo di pietrisco si sollevò con un acciottolio. “Qui, signore,”
disse il radiotelegrafista.
“Bene,
andiamo.”
Corsero
fuori. Nella confusione che regnava ovunque nessuno fece caso a loro,
tanto che prima di essere notati da qualcuno erano già riusciti a
togliere gli ormeggi dello Swordfish, a salire a bordo con la
preziosa cassa e a iniziare la procedura di decollo.
L’elica
si mise in movimento, l'aereo prese velocità sul pelo dell’acqua e
s’involò noncurante, mentre a terra crepitavano salve di fucileria
e i Bofors 40 cercavano di piazzare qualche colpo prima che finisse
fuori tiro.
Quando
si furono allontananti a sufficienza, Pankow scrollò la testa e
disse: “Sono ancora mezzo rintronato, Till. quell’aggeggio era
veramente potente.”
“Ne
abbiamo uno sotto, signore,” disse il caporale per tutta risposta.
Il
tenente si voltò a fissarlo inorridito. “Tu vuoi dire che noi qui
sotto abbiamo uno di quei cosi che non si sa quando possono
esplodere?”
“Signorsì.”
“Beh,
non ci tengo a trasformarmi in un fuoco d’artificio dopo tutto
questo casino,” rispose Pankow. Inclinò appena l’aereo per
scrutare i dintorni e individuò una nave al limitare della laguna.
“Lo regaliamo a quelli là,” annunciò. Tolse motore, diede una
tacca di flap e scese di quota. Quando fu quasi sul pelo dell’acqua
premette il pulsante di sgancio e la minacciosa palla nera cadde giù,
rimbalzò un paio di volte sulle onde, quindi si inabissò proprio
accanto alla nave.
Il
tenente tolse i flap e ridiede motore, lo Swordfish si alzò di quota
e in breve scomparve all’orizzonte.
[1]
Abbreviazione di Geheime Kommandosache, corrisponde a Top Secret
Una
piccola precisazione: i nomi degli “indiani” (che qui diventano
indios) che si incontreranno col progredire della storia non sono
inventati, ma tradotti in una lingua ormai morta del Centroamerica
che la moglie di un amico, originaria del luogo, ha la fortuna di
conoscere. Aggiungo qui sotto le traduzioni:
Toro
in Piedi = Vaka Ména Oñembo Ýva
Giglio
tigrato = Yvoty Jaguarete
Aquila
volante = Taguató
Ovevéva
Isola
Inesistente (che non c'è) = Ypa'u Oiyva
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