MFèFU
Note: Salve
gente! L'idea di questa FF mi è venuta, per fortuna spero,
mentre riflettevo sui vantaggi/svantaggi della convivenza con mio
fratello xD Quindi, potete immaginare lo spunto>_> L'ho scritta
di getto per la prima parte, l'idea mi era chiara, che cosa bella*_*
Comunque, a voi il giudizio, mi farebbe piacere avere commenti e/o
critiche, sempre ben accetti^^
Ah, un'ultima cosa: il testo in corsivo è al passato, terza persona, riguarda i ricordi, anche se credo sia chiaro XD
ATTENZIONE: nessuno dei personaggi della storia mi appartiene
(tranne la barista.) I personaggi reali qui descritti appartengono solo
a se stessi, per fortuna. Non ci guadagno nulla, questa storia non
è infatti a scopo di lucro, ma scritta solo per divertimento.
Non intendo offendere nessuno. Caratteri e avvenimenti qui di seguito
riportati sono totalmente inventati.
Buona lettura, guys!
Mio fratello è figlio unico
Brian diceva che si soffre a essere il secondo. Lui non è
nato per stare dietro agli altri, lui è venuto al mondo per
primeggiare. E io lo prendevo in giro, sempre. Quel moccioso.
“La tua musica fa schifo, lo sai?” chiese Barry sedendosi sul divanetto di casa con un pacco di patatine in mano.
Il fratello alzò uno sguardo assassino dalla chitarra che stava accordando.
“Non capisci niente, taci!”
E così era tornato a prendersi
cura dello strumento. Lo lucidava con le piccole mani e in braccio a
lui sembrava più grande e importante. Quella musica più
forte. Ma non suonava mai davanti a Barry, tantomeno ai genitori o a
qualunque estraneo. Teneva per sé tutto ciò, per le ore
notturne e insonni, per la stanza piccola e silenziosa, per la
solitudine da condividere con quell’unico strumento.
Barry alzò gli occhi al cielo
e accese la tv sullo sport, costringendo il fratello ad andarsene. Non
facevano più nulla assieme, a Brian dava fastidio anche solo
rimanere a lungo nella stessa stanza con lui. Forse perché gli
ricordava il padre. Forse perché semplicemente Brian non
sopportava nessuno.
Barry ridacchiò scuotendo la
testa e sibilando uno “Sfigato” che raggiunse subito le
orecchie allenate dell’altro.
“Fottuta checca” disse acido Brian fermandosi sulla porta della stanza.
Barry lo guardò e lesse negli
occhi verdi l’insolenza di quel piccolo ragazzino idiota. Lo
avrebbe aggredito subito, ma non gli importava. Era a casa per il fine
settimana, non avrebbe speso tempo e fatica in liti infantili. I dieci
anni di differenza non erano l’unica cosa che li separava.
Infatti, non si poteva dire esattamente che fossero cresciuti assieme,
e la malata adolescenza di Brian era stata in solitudine anche da quel
punto di vista.
Barry lasciò perdere e
tornò alla tv, tanto prima o poi gliel’avrebbe fatta
pagare. Anzi, a pensarci neanche gli serviva. Lui sarebbe divenuto
qualcuno, già era ben avviato a soli ventisei anni. E Brian
sarebbe rimasto un fallito che suona sul suo letto all’una di
notte per i gatti di quartiere, o per quattro ubriaconi in un locale.
Ignorò volutamente una scintilla di amarezza.
In fondo a quella femminuccia incapace e arrogante ci teneva.
E ora cosa sono? Ho soldi, ho donne, ho potere. Sono un banchiere di
trent’anni come mio padre voleva. Sono la sua scintilla di
fierezza, quella che brilla negli occhi di ogni padre. Per suo figlio,
per il suo figlio preferito. E Brian cos’è? Ciò che
ha sempre voluto essere.
L’altro giorno mi è giunta una notizia. Sono qui a Londra
per un viaggio d’affari, un meeting per una fusione con una
potente banca locale, e camminando lungo le strade ho pensato
casualmente allo sporco, al fumo, alla malattia che invade e pervade
questa città. E mi sono chiesto: possibile che mio fratello
abbia rinunciato al potere che ho per questo?
La verità è che Brian è Londra.
Non mi sarei sorpreso di trovarlo gettato nel vicolo che avevo appena
passato, magari accanto a quel barbone. Perché da mesi non
abbiamo sue notizie a casa. Sappiamo da una lettera giunta dal
Goldsmiths che non studia più lì. Quando è
arrivata a casa, il destino ha voluto che io e mio padre ci fossimo,
per festeggiare un mio recente successo. Mia madre è quasi
svenuta: non credeva nel sogno di suo figlio, che devoto a Dio non lo
era dal suo battesimo alla religione. Ma l’idea che ora fosse in
strada l’aveva traumatizzata. Mio padre dal canto suo sorrise
sarcastico.
“Questo è il figlio che hai cresciuto” disse rivolto a mia madre.
E tornò a festeggiare con me, perché io ero il suo unico
motivo di orgoglio, oltre ai suoi possedimenti personali e alle
personali vittorie nella vita.
Io cosa provai? Non so dirvi. In parte mi sentii schiacciato da un peso
troppo forte. Mio fratello…non lo avevo spesso considerato tale,
ma solo un altro parto di mia madre, un esserino fastidioso e petulante
anche solo per la sua presenza. Ma, diamine, era mio fratello! E io gli
volevo bene, anche solo per questo.
I suoi sogni distrutti mi diedero due contrastanti emozioni: soddisfazione e delusione.
In lui non avevo mai creduto. Ma ero stato invidioso, una volta. Quando
partì finalmente felice. Allora mi augurai con tutto il cuore
che riuscisse, e con tutto il mio cuore nero che fallisse miseramente.
“Così parti”
constatò atono Barry fissando il fratello che ficcava tutto in
una valigia molto piccola. I suoi vestiti indecenti, il suo smalto
nero, e la sua chitarra sistemata nella custodia nera.
Non gli rispose, ma si limitò a fulminarlo con lo sguardo.
“Cosa dovrei fare qui?”
chiese sulla porta Brian. “E’ una vita di merda, quei due
stronzi non capiscono nulla dell’arte.”
“E tu sì, genio?”
“Puoi contarci. Spaccherò, e non mi vedrete più se non su un palco con le luci a colorarmi.”
Barry rimase in silenzio mentre Brian scrutava la sua stanza, la valigia su una delle esili spalle.
“Sei ridicolo” sentenziò alla fine il fratello.
L’ultima immagine che Barry
ebbe di quel giorno fu il fratello che scendeva le scale, mentre lui
tornava in camera sua per spedire importanti e-mail.
Mentre lo schermo del suo nuovo computer sfavillava di parole solenni e vuote, sentì qualcosa.
Un misto di odio e amore.
Ma lo allontanò per tornare al
suo lavoro, per spenderci tutte le energie. Non c’era tempo per
stare dietro a un moccioso con deliri di onnipotenza.
Solo uno stupido pagliaccio destinato
a cadere nella polvere come tanti altri, nella stessa polvere che lui
scostava irritato dai propri abiti di valore, la stessa che guardava
dall’alto con disprezzo e sufficienza.
“In bocca al lupo, fratello.”
La notizia che un ragazzo si sarebbe esibito in un locale qualunque non
mi avrebbe scosso minimamente, non passo le serate così. Ma
è stato un nome a scuotermi. Ero in quel locale, e tutto
ciò che è accaduto dopo mi ha fatto credere davvero nelle
coincidenze, o nel destino. Cose nelle quali Brian non ha mai creduto.
Tranne per sé: lui era destinato ad essere una star, a suo dire.
Ho preso un caffè macchiato come d’abitudine e mentre lo
rimestavo la barista, evidentemente annoiata o attratta dalla mia
giacca e da ciò che prometteva, ha cominciato a conversare con
me. Con educato distacco ho cercato di farle capire che non mi
interessava, ma lei ha insistito.
“Stasera suonano dei ragazzi. Ce n’è uno che devi
sentire, ha una voce angelica, ed è un tipo proprio
particolare” ha detto con un sorrisetto malizioso sulle grosse
labbra rosse.
“Ah sì?”
“La prima volta non volevamo farlo suonare. Si presenta qui, un
tipo che neanche arriva al metro e sessantacinque. Tutto truccato, con
lo smalto nero, e quei capelli lunghi. Magrolino che sembra stia per
morire, e poi com’era vestito!”
“Bhe ci sono tipi così” ho risposto ripensando a mio fratello.
“Se vuoi venire a sentirlo, mi farebbe piacere. E non te ne
pentiresti. E’ davvero bravo, suona anche la chitarra. Ha proprio
bisogno di soldi, secondo me. Comunque, forse già l’hai
sentito. Si chiama Brian Molko, nome insolito qui, credo venga da
fuori. Sembra uno studente mancato, o una studentessa dovrei
dire” ha riso di un risolino frivolo e irritante.
Ho lasciato il caffè e l’ho fissata finalmente interessato.
“A che ora?”
“Le dieci, caro.”
Ho lasciato il locale di fretta mentre lei diceva altro.
E ora sono qui, a camminare verso quel locale, per lui.
“Barry?”
Neanche Brian sapeva perché
l’aveva chiamata al cellulare, dopo un solo mese in quella
scuola. Si sentiva solo, ma di una solitudine strana. Non era stato
accettato molto bene neanche lì, e non per il suo essere
femminile o per il suo amore per l’arte, lì diffusissimo.
Ma perché era solo un piccolo ragazzino patetico. E non voleva
esserlo. Aveva preso il telefono nel mezzo della notte, e ora
già se ne pentiva. Non voleva che la sua apparisse come una
debole richiesta di soccorso. Stava per attaccare,ma ci ripensò
all’istante.
“Brian…” rispose stranito Barry: era l’ultima cosa che si aspettava. “Che succede?”
“Niente. Ho ottenuto una parte importante, sto studiando per...”
“…non fare una figura di merda?”
Sapeva che a Brian non piaceva essere interrotto. E ci pensò divertito.
“Sì, esatto.”
Gli sembrò di sentire il sorriso di Brian attraverso il cellulare, poggiato con le labbra sulla cornetta.
Ma non capiva perché glielo
aveva detto, non credeva che a Brian interessasse dirglielo, forse
voleva solo vantarsi; ma ignorava che neppure Brian sapeva
perché l’aveva detto, se per sentirsi dire un
“bravo” che mai sarebbe giunto, o solo per esibizionismo.
Sempre quel dannato amico.
La conversazione stava morendo, e
Barry sentì improvvisamente che non voleva. Quella era la cosa
più colorata degli ultimi tempi. Come se Brian emanasse colore,
forti tinte rosse e calde, oppure blu e fredde. Questo era suo
fratello, la sua voce armoniosa e infantile. E lui era grigio, al
confronto. Fu la prima volta che se ne rese conto. Se avesse chiuso
quella conversazione sarebbe tornato al grigio e monotono di una serata
al pc. E non volle.
“Ti mantieni bene?”
“Sì…ho i miei mezzi.”
Brian non disse del locale dove aveva
in mente di andare a suonare per quella sera, e si sperava per altre.
La musica era una cosa preziosa per lui, era sempre stata intima, come
se non volesse esporla ad altri per paura che chi non
l’apprezzava la denigrasse, o denigrasse lui. In realtà di
essere preso in giro non gli importava di solito, ci era abituato e
suscitare reazioni, qualunque fossero, era il suo scopo, e lo era
sempre stato. E presto la sua musica sarebbe stata mondialmente
diffusa. Ma non voleva che la sua famiglia la contaminasse…non
capiva perché. E non voleva dirlo a Barry, forse temeva di
costituire una delusione, perché forse suo fratello era
l’unico che non voleva deludere. Deludere di cosa poi? Era certo
che Barry non avesse mai creduto in nulla di quello che Brian aveva
fatto nella sua vita. Ma gli voleva bene, malgrado il filtro del suo
orgoglio avesse bloccato a uno a uno questi pensieri.
“Non tornerò più
a casa” disse dopo un po’. “Rimarrò a Londra.
Ogni tanto chiamerò mamma per farle sapere che suo figlio, per
quanto le interessi, è ancora vivo. E’ in contatto con la
scuola, ci credi? Vuole assicurarsi che ci vada…mi sta facendo
passare la voglia di continuare.”
“E vorresti arrenderti?”
“No…No!”ripeté con forza. “Ho fatto tanto per andarmene!”
“Credi che ne sia valsa la pena?”
“Sì, diamine! Non hai
idea di come mi sento quando sono sul palco, anche solo per prendere le
misure delle scene. E’ adrenalina pura, mi sento forte,
importante. Mi sento davvero io, malgrado sia lì per
recitare.”
L’entusiasmo così puro e
infantile del fratello lo scosse. “Come ti senti tu quando un
ciccione ti consegna un assegno da cinquantamila” continuò
Brian, facendo ridacchiare persino il serio Barry.
Quella chiamata fu l’unica per tempo. E fu corta, concisa per il resto.
Quando Barry riattaccò ebbe
come l’impressione che la sua stanza fosse più fredda nel
centro di Lussemburgo. Scosse la testa e tornò al suo lavoro.
Non doveva pensare a queste cose.
E Brian sarebbe diventato una star?
Chissà, magari un giorno avrebbe sentito di lui al fianco di uno
di quegli attori americani di Hollywood, di quelli che mai gli erano
interessati.
Ma in fondo, cosa gli importava?
Sono seduto qui, in questo locale che si conferma fatiscente sotto
molti aspetti. La polvere mi attira subito, e la collego alla
realtà di ciò che prevedevo per Brian.
Aspetto, e il locale si riempie di gente distratta. Il palco si illumina improvvisamente e sento una musica in sottofondo.
“Entrano da dietro” mi annuncia la barista, come se fosse lì a godersi lo spettacolo alle mie spalle per me.
Ed entrano. Un ragazzo dai capelli scuri e lo sguardo sottile si siede
alla batteria, un altro magro e molto alto, biondino, si sistema vicino
all’amplificatore e si mette a tracolla un basso marrone. E poi
entra lui. Con quella camminata fluida raggiunge il microfono, con
quelle mani laccate di nero lo afferra con delicatezza femminea e con
la sua voce dolce annuncia le canzoni che propongono. Inizia a cantare
e costato che tutte le cose negative che io tanto avevo avversato, come
la mia famiglia e i ragazzi che lo sfottevano, su quel palco sono un
elisir di astrattismo e materialismo fusi in un insieme pastoso e
leggero che inebria i sensi. E’ bravo, riesco solo a pensare a
questo. Canta, mentre le ciglia lunghe e scure quasi sfiorano gli
zigomi, la pelle chiara riluce sotto quei riflettori da quattro soldi e
il trucco definisce in modo sapiente i suoi stupendi occhi
verde/azzurri. E poi quell’abito. Me ne rendo conto solo alla
fine: ha una magliettina stretta e nera che si fonde con la gonna
corta.
Le gambe sottili flettono appena. Se non lo conoscessi, se quello non
fosse il fratellino che io ho sempre allontanato, penserei che sia una
ragazzina, e anche piuttosto carina.
Un lampo mi attraversa la mente: gelosia. Penso a tutti quegli uomini
ubriachi che guardano sconci il mio fratellino, perché ora per
me è questo, e magari ci fantasticano su. E voglio proteggerlo,
da se stesso, da quel Brian che si esibisce con sfacciataggine, con
quell’aria da ragazzina svampita, da…da puttanella.
Non posso pensarci. Ascolto tutto il repertorio, e lui non mi guarda.
Sembra assente, nel suo mondo, quello che io non ho mai potuto vedere.
I miei occhi sono accecati dalla luce che lui ha fuggito, di cui lui
ora canta. Quanto è vero! E solo il buio freddo dei suoi occhi,
eppure così tetramente luminoso, può svegliarmi.
Incrociamo gli sguardi, lui non sembra smuoversi, oppure lo cela bene.
Forse è davvero l’attore che sogna d’essere.
Il repertorio termina, lui prende per mano gli amici e fa un profondo
inchino. Capisco che è ora di muovermi, o non lo prenderò
più.
La cameriera mi dice qualcosa, ma io non l’ascolto. Sarà
uno stupido e inutile commento. Entro nel corridoio e intravedo i tre
che, scesi dal palco, lo percorrono per entrare nel loro camerino.
E scorgo Brian, finalmente. Non mi sembra più il ragazzino
viziato e arrogante che vidi scendere con furia bambinesche per le
scale di casa.
Ora devo parlargli, sento che tutto ciò che gli ho detto o non
gli ho detto nei suoi venti anni di vita siano state solo cazzate
assurde. La verità non l’ha mai saputa, la scopro anche io
solo ora. Ma deve saperlo, per me è importante.
“Brian!”
Si volta e mi fissa con quello sguardo indecifrabile. Lo raggiungo e
rallento il passo. Sono sempre stato più alto di lui, ma ora la
sua presenza sembra scontrarsi contro di me. Sbagliavo: rimane
arrogante, in ogni suo atteggiamento, come un’aura
tutt’intorno. Mi sento più a mio agio con il colosso che
lo affianca. Gli altri due lo guardano interrogativi e lui in risposta
alza una mano per congedarli, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Arrivo subito” dice.
Gli amici si dileguano ed entrano per una porta lì accanto, che chiudono dietro le proprie spalle.
“Barry” dice come se fosse una semplice costatazione.
“Cosa ti porta in questo buco di culo?” continua mentre un
sorrisetto gli increspa le labbra rosse, senza tuttavia contagiare gli
occhi gelidi. Sembra nascondere qualcosa di troppo profondo per essere
anche solo intravisto.
“Sono a Londra per affari.”
“Già, certo, immaginavo.”
Sono così prevedibile?
“Ti ho sentito cantare…sei molto bravo.”
“Grazie” risponde indagando nei miei occhi, quasi aspetti un secondo fine alla mia osservazione.
Si avvia alla porta, ma io lo fermo per un braccio, quello libero dalla chitarra che porta in mano. E sembra pesargli.
“Non hai tempo per due chiacchiere?”
“No.”
“Ma non ci vediamo da tempo…”
E intanto che mi squadra mi sento per la prima volta inferiore a lui.
Sono io quello rimasto indietro a succhiare le briciole del proprio
sogno, quello che ha tutto e niente, quello che la notte dorme agitato
perché solo con i propri rimpianti. Io sono diventato ciò
che papà ha sempre voluto, Brian ciò che Brian ha sempre
sognato. Chi è il perdente, ora? Sono invidioso, ma questo non
glielo dirò mai, l’unica persona che deve saperlo sono io.
“Non per colpa mia, Barry. Ora ho una mia vita, penso che il passato non mi serva più.”
“E’ questo che sono per te? Solo un pezzo di un orribile passato grigio?”
“Se per voi sono sempre stato un peso, non vedo perché la cosa non possa essere reciproca.”
Lo osservo bene, mentre lui mi tiene testa con le spalle alla porta.
Non sembra ansioso, non sembra arrabbiato, non sembra manifestare alcun
tipo di sentimento.
“Sbagli in una cosa: associarmi al resto della famiglia. Per me non sei mai stato un peso.”
Brian era in aereo e fissava il
sedile di fronte, malgrado alla sua destra si stendesse lo spettacolo
di cieli e mari. Ma ora non gli importava. Era ansioso di liberarsi
dall’opprimente Lussemburgo. Ci avrebbe scritto una canzone, un
giorno, pensò sorridendo. Si sentiva leggero come l’aria
che lo divideva da quell’orrendo posto.
Un solo pensiero gli corse nella
mente gelandogli il sangue e distruggendo per un attimo
quell’idillio: Barry. Voleva bene a suo fratello, era
l’unica persona che avesse mai sentito minimamente vicina, se non
nella sua orbita, esclusiva ed elitaria. E rimpiangeva di non averlo
mai davvero conosciuto, di non essersi fatto conoscere da lui, di non
averlo potuto portare con sé. Non tanto a Londra, dove era
meglio che restasse solo come desiderava, ma verso sogni che Brian
sapeva andassero oltre un importante ruolo da banchiere. Ma Barry non
aveva mosso un dito verso quella direzione.
E nella mente gli rimbombavano quelle ultime parole pronunciate con profondo disprezzo: “Sei ridicolo.”
Nei mesi a venire, a Londra, dovette
dimenticare Barry e tutto il resto. Non poteva permettersi di piangere
per lui. E quella chiamata nel cuore della notte fu l’unico atto
di ritorno, una brutta ricaduta. Dopo quella, fu l’ultima volta
che ci pensò.
A volte devi diventare cattivo per tutelarti, divenne la sua filosofia di vita.
“Per me tu sei un grosso peso” mi risponde freddo e
distaccato. “Mi hai detto che sono ridicolo, probabilmente per te
è così. Non vedo perché dovrei considerarti
meglio. Non sono neanche tuo fratello.”
Mi sta rinnegando come io per anni ho fatto con lui, e ora mi rendo
conto di quanto faccia male. E di quanto parlare ancora mi possa
distruggere. Anche se so che me ne pentirò, mi arrendo.
E’ meglio per entrambi.
“Ho capito” concludo riprendendo un tono distaccato. “Me ne vado.”
Mi avvio dandogli le spalle e lo sento rimanere per un attimo immobile, prima di mettere mano al pomello della porta.
Mi volto un attimo e lui si ferma a guardarmi. Evito il suo sguardo, mai saprò la reazione alle mie parole.
“Avevi ragione, Brian: si soffre a essere il numero due.”
Fine.
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