Si consiglia l’ascolto di questo brano durante la lettura:
All Was Well
Waiting Awake
Ethan era sempre stato un bambino tranquillo, finché non si
rese conto che suo padre non dormiva mai.
Una notte si svegliò per andare in bagno e lo trovò chino
sullo scrittoio, intento a graffiare la carta di un quaderno con movimenti
veloci e convulsi.
Pensò che si trattasse di un caso, anche lui a volte aveva
difficoltà a dormire e allora si affacciava alla finestra a guardare le stelle
e a contarle come fossero tante pecorelle.
Con l’avanzare del tempo, però, Ethan comprese che non era
stato soltanto un episodio isolato. Ogni volta che si destava in preda a un
incubo, al bisogno di fare pipì o di bere un po’ d’acqua, trovava suo padre
sveglio.
Non gli era mai capitato di trovarlo assopito, così nella
sua mente cominciò a farsi largo l’idea che la notte fosse una grandissima
fonte d’ispirazione per chi voleva diventare famoso come lui.
Ethan sapeva che suo padre stava scrivendo un romanzo, lo
stava scrivendo da un sacco di tempo.
«Non puoi ancora leggerlo, te lo permetterò quando sarai
grande e potrai capirlo» gli ripeteva spesso.
Così Ethan aveva preso l’abitudine di non dormire. Voleva
assolutamente stare a guardare suo padre che scriveva, lo trovava affascinante,
così concentrato e impegnato…
Desiderava essere come lui, un giorno. Così si nascondeva
nell’andito, fuori dal suo studio, e lo spiava attraverso la porta socchiusa.
Suo padre non la chiudeva mai, diceva che detestava stare intrappolato in una
stanza senza vie di fuga.
Anita, la donna che una volta alla settimana andava a pulire
a casa loro, diceva sempre che il signor Murphy soffriva di un sacco di fobie,
ma Ethan pensava che lei fosse pazza e che desse ascolto alle malelingue delle
sue amiche sudamericane.
Il bambino, ormai sulla soglia dell’adolescenza, scoprì ben
presto che rimanere sveglio di notte gli permetteva di osservare e studiare le
stelle che tanto amava. Comprese che non era soltanto una questione di numeri,
ma imparò a conoscerne la posizione, la luminosità e a sentirne la mancanza
quando il cielo era nuvoloso. Allora le immaginava stagliarsi contro le nuvole
e spazzarle via con l’aiuto del vento.
Quando la scuola ricominciò, per Ethan fu difficile rimanere
sveglio ogni notte, così si impose di dormire. Il suo corpo ne aveva bisogno,
così come la sua mente, ma gli dispiaceva non fare compagnia al padre.
Di giorno non poteva mai stare con lui, perché il signor
Murphy lavorava come contabile in un piccolo albergo di periferia e tornava a
casa molto tardi.
Fu durante le vacanze di Natale che riprese a non dormire la
notte. Si sistemò accanto alla porta dello studio di suo padre e lo osservò
scrivere, combattendo contro il sonno che gli opprimeva le palpebre.
Quella notte l’uomo si accorse di lui e lo chiamò,
chiedendogli di entrare nello studio. Ethan aveva paura, era convinto che suo
padre fosse arrabbiato con lui e che l’avrebbe messo in punizione a vita.
Il signor Murphy, tuttavia, gli cedette il posto nello
scrittoio e gli piazzò di fronte una pila infinita di fogli completamente
inzuppati di inchiostro minuziosamente disposto su righe e quadretti sbiaditi.
«Visto che ci tieni tanto, puoi leggere quello che ho
scritto. Ti lascio qui, Ethan, io devo uscire urgentemente» affermò in tono
lugubre.
«Di notte?»
«Sì, Ethan. Senti, figliolo, sai che ti voglio bene. Ed è
ora che tu lo capisca.»
Detto questo, il signor Murphy si chinò a baciarlo sulla
fronte e lasciò la stanza.
Ethan si accorse che suo padre era davvero uscito di casa
quando udì la porta d’ingresso sbattere con violenza.
Era troppo curioso, finalmente poteva accedere al romanzo di
suo padre, così non ci pensò due volte e si immerse subito tra le lettere e le
fobie di suo padre.
Quando sollevò il capo era già mattina. Suo padre non era
tornato e lui non aveva letto neanche la metà di quei fogli, eppure sentiva che
non avrebbe continuato.
Era tutto insensato, il suo vecchio aveva appuntato soltanto
pensieri sciolti, torbidi, colmi di terrore e di disprezzo nei confronti della
vita che lo circondava.
Una frase l’aveva colpito nel profondo, Ethan non riusciva
più a dimenticarla.
Attenzione alle paure del giorno. Amano rubare i sogni
della notte.
Quelle parole erano rimaste incise nel suo cervello e non
fecero che tormentarlo per tutte le ore successive, mentre aspettava che suo
padre tornasse a casa per potergli chiedere spiegazioni.
Ma il signor Murphy non tornò quella sera, né il giorno
successivo e quelli seguenti.
Ethan, spaventato e preoccupato, trascorse le notti a
guardare le stelle e pregare affinché il suo unico genitore tornasse da lui.
Le scorte di cibo presenti in casa terminarono, così il bambino
si decise ad andare dalla signora Anita.
La donna lo accolse con apprensione e lo fece accomodare
nella sua umile dimora, chiedendogli di raccontarle cosa fosse successo.
Dopo averlo ascoltato, annuì come se avesse capito ogni
cosa. «Vedi, Ethan, tuo padre è un uomo complicato e pieno di paure. Ma ti
vuole bene, capito? Questo non devi mai dimenticarlo» sussurrò, abbracciandolo
affettuosamente.
Anita decise di tenerlo con sé, dopo essersi recata alla
centrale di Polizia per denunciare la scomparsa del signor Murphy.
Ethan smise di andare a scuola e smise di dormire. Era
convinto che suo padre sarebbe tornato da lui solo se non avesse mai chiuso
occhio, specialmente di notte.
Trascorreva ore infinite a fissare il cielo, a contare le
stelle e a pregare nella sua testa.
Non parlava più come un tempo, ogni tipo di curiosità
sembrava essere sparita dal suo animo, così come l’innocenza che lo aveva
contraddistinto fino a poco tempo prima.
Un giorno insistette per tornare a casa, voleva andare a
prendere delle cose che aveva lasciato in camera sua. La verità era che voleva
scoprire dove fosse finito suo padre, voleva cercare di capire se avesse
lasciato degli indizi.
Anita gli permise di tornare in quel luogo ormai desolato da
settimane solo in compagnia di Laudir, il maggiore dei suoi figli. Il ragazzo
aveva quasi diciassette anni e considerava Ethan soltanto un bambino
capriccioso e stupido, ma fu costretto a obbedire a sua madre.
I due camminarono in silenzio, ignorandosi e pensando ognuno
ai fatti suoi. Laudir avrebbe voluto correre dalla sua nuova fiamma, Carmen,
anziché badare a quel marmocchio che aveva sette anni in meno di lui e neanche
gli stava simpatico.
Ethan pensava incessantemente a suo padre, non poteva
credere che l’avesse abbandonato. Doveva essere successo qualcosa.
Quando giunsero alla grande casa dei Murphy, Ethan non perse
tempo e cominciò a frugare dappertutto. Era certo che ci fosse qualche indizio,
doveva esserci.
Laudir sbuffò e si gettò sul divano, attendendo che lui
finisse di fare il piccolo detective e gli permettesse di correre da Carmen.
Il bambino girovagò per l’abitazione con gli occhi
spiritati, fuori dalle orbite, credendo di poter vedere qualcosa di utile da un
momento all’altro.
Entrò nello studio del padre e lo trovò come lo aveva
lasciato: i fogli sparsi sullo scrittoio e sul pavimento, la sedia rovesciata e
la tapparella chiusa per metà.
Si accostò alla scrivania e il suo sguardò cadde sulla frase
che da settimane non faceva che tormentarlo.
Attenzione alle paure del giorno. Amano rubare i sogni
della notte.
La sua mano scivolò sul pomello del primo cassetto e lo
aprì, svuotandolo senza alcun risultato. Passò al secondo e lo trovò chiuso a
chiave.
Con la fronte aggrottata riuscì ad aprire il terzo,
scoprendo che era vuoto, tranne per qualche graffetta e dei ritagli di giornale
totalmente inutili.
Sospirando frustrato, si affacciò in corridoio.
«Laudir?» chiamò timidamente.
«Che vuoi?»
«Sai scassinare una serratura?»
Quando il ragazzo riuscì a strappare il cassetto dallo
scrittoio, Ethan si inginocchiò a terra e ne esaminò il contenuto con
attenzione.
C’era un’agenda sgualcita e un altro oggetto che non aveva
mai visto prima.
Infilò il libricino rilegato in pelle in tasca, poi si
rigirò tra le mani quella che sembrava una scatoletta in legno intagliato.
«Un portagioie?» buttò lì Laudir, leggermente più interessato
di prima.
Ethan tastò con le dita e trovò una piccola escrescenza.
Provo a ruotarla, poi la tirò verso l’esterno e dalla scatoletta si diffusero
le note di un carillon.
I due sobbalzarono appena e Ethan si lasciò cadere l’oggetto
di mano.
Lo riprese poco dopo e decise di portarlo con sé. Si alzò e uscì
dalla stanza senza degnare Laudir di uno sguardo, dirigendosi in camera sua.
Cercò un borsone e ci infilò alcuni vestiti, il pupazzo a forma di dinosauro
che sua madre gli aveva regalato poco prima di morire e qualche altra
cianfrusaglia.
«Andiamo» disse al suo accompagnatore, lasciando per sempre
la sua vecchia dimora.
Quando tornò da Anita, si rinchiuse nella piccola mansarda
che ormai era diventata la sua stanza e sfogliò l’agenda che aveva recuperato
dalla scrivania del padre.
Era piena di frasi lugubri, che sapevano di terrore.
Non posso dormire, altrimenti non potrò più vedere Carla.
I sogni sono solo un’illusione, mi rimane soltanto la
vita reale.
Se i miei occhi si chiuderanno, lei sparirà.
Il suo aereo atterrerà a breve e lei tornerà da noi.
Carla dice che il lavoro come hostess è stancante, per
questo è felice di tornare a casa.
Io non devo dormire perché altrimenti lei non mi troverà.
Sembrava una sorta di diario senza date, ma Ethan stava pian
piano comprendendo che suo padre doveva aver cominciato a scriverlo dopo la
morte di sua madre.
Il bambino ricordava poco e niente la signora Carla Murphy,
l’unica prova tangibile della sua esistenza era il pupazzo a forma di dinosauro
che lei gli aveva regalato.
Non aveva mai avuto una madre, non ne sentiva la mancanza
perché non sapeva cosa significasse vivere accanto a una figura femminile che
si prende amorevolmente cura della propria famiglia.
Ma suo padre… suo padre doveva sentire terribilmente la sua
mancanza.
Lo suggerivano quelle frasi sconnesse e deliranti, che non
facevano che inquietare e spaventare Ethan.
Oggi mi hanno detto che si chiama Clinofobia, la paura di
dormire. Io non ho paura, sono terrorizzato. Mi hanno detto che finirò per
impazzire, ma io devo vedere Carla. So che tornerà da me solo se rimango
sveglio.
Ethan si ritrovò con le guance rigate di lacrime, alcune
gocce salate si infransero sulla carta sottile che stringeva tra le dita.
Anita gli aveva parlato delle fobie di suo padre, ma lui non
aveva mai preso la questione sul serio.
Ora invece le cose erano cambiate. Il suo unico genitore era
scomparso, lasciandolo soltanto con un pugno di parole tra le mani.
Poi il giovane estrasse il carillon dalla tasca interna
della giacca. Tirò delicatamente la cordicella, ancora e ancora, poi la lasciò
andare e permise alle note di formare una melodia strana, non gli ricordava
qualcosa di familiare.
Era leggermente inquietante, ma più la ascoltava, più il suo
cervello la assimilava e la faceva sua.
Se suo padre aveva conservato quell’oggetto con tanta
attenzione, per lui doveva significare molto.
Ethan se lo strinse al petto e scoppiò nuovamente in
lacrime.
Smise di dormire definitivamente perché voleva sperare che
suo padre tornasse e lo trovasse pronto ad accoglierlo.
Capitava che si appisolasse, ma subito un’ondata di ansia lo
riscuoteva dal torpore e lo rendeva nuovamente parte del mondo reale.
Cominciava a capire suo padre, in fondo non era poi così
folle.
Quando due poliziotti giunsero a casa di Anita e
annunciarono che il signor Murphy era morto, Ethan sentì come un peso enorme
abbandonare il suo cuore.
Adesso sapeva dove trovare suo padre, ora sapeva che poteva
aspettarlo davvero, come lui aveva sempre fatto con la sua amata Carla.
Dissero che si era gettato da un ponte ed era finito nel
fiume, il suo corpo era stato trovato in riva ed era stato difficile
identificarlo.
Ethan sembrava non essere più interessato agli eventi che si
susseguivano intorno a lui.
Anche quando sua madre era morta qualcuno doveva essere
andato a dirlo al signor Murphy.
E anche lui era stato consapevole di poter finalmente
trovare Carla e farsi trovare da lei.
Doveva essere andata così, Ethan se lo sentiva fin nel
profondo.
Anita insistette per mandarlo da uno psicologo, poi da uno
psichiatra e perfino da un pedagogista.
Ethan aveva smesso di parlare, o meglio, parlava soltanto
attraverso le citazioni di suo padre. Aveva imparato decine e decine di frasi a
memoria, utilizzandone sempre una diversa per rispondere alle domande di chi lo
circondava.
I medici cercavano di fare il possibile per aiutarlo, ma la
verità era che Ethan non voleva l’aiuto di nessuno.
Lui stava bene così.
Un pomeriggio, rinchiuso in mansarda, cominciò a smontare il
carillon. Era sicuro che dovesse contenere qualche segreto.
Tra rotelle, molle e viti, si trovò tra le mani un piccolo
foglietto stropicciato.
Quasi esultò per la scoperta appena fatta, sapeva che
avrebbe trovato qualcosa di importante!
Era certo che suo padre lo avesse lasciato lì per lui.
Spiegò il biglietto e lesse ciò che era riportato,
trovandolo inciso in una calligrafia che non conosceva.
Amore mio,
questo viaggio mi porterà lontano da casa per più tempo
del solito. So che il mio lavoro ci separa spesso, ma so che puoi badare a
Ethan e a te stesso. Sei forte, lo sei sempre stato. Ti lascio questo piccolo
regalo, spero ti ricordi il mio sorriso anche quando non potrai vederlo.
Ti amo,
Carla
Ethan si ritrovò a piangere per l’ennesima volta e si rese
conto che quello doveva essere stato l’ultimo messaggio di sua madre per suo
padre.
Prima di morire, prima di lasciarli.
Lasciò scivolare il biglietto sul pavimento e fissò con
occhi appannati il carillon completamente distrutto.
Non aveva idea di come aggiustarlo, non sarebbe mai più
tornato a essere quell’oggetto perfetto che Carla aveva donato a suo padre.
Cominciò ad armeggiare con i pezzi scomposti, poi li scagliò
lontano con fare frustrato.
Aveva rovinato l’unico oggetto che suo padre aveva custodito
con estrema gelosia per sei lunghi anni.
Si rannicchiò sul letto e fissò il cielo nuvoloso oltre la
finestra.
Doveva rimanere sveglio, voleva che suo padre lo trovasse.
Voleva chiedergli scusa per aver violato in quel modo i suoi sentimenti, i suoi
ricordi.
Vide Laudir portare alle labbra quella che aveva tutta
l’aria di essere una sigaretta. Nascosto in un anfratto umido, lo spiava come
faceva un tempo con suo padre.
Laudir aspirò con calma, poi sbuffò il fumo dalle narici e i
suoi muscoli parvero immediatamente rilassarsi.
Gli sarebbe piaciuto provare anche lui, ormai stava
diventando un ometto e doveva darsi un tono.
Ormai non aveva più niente da perdere.
Corse a casa e fece irruzione in camera di Laudir,
cominciando a metterla a soqquadro. Voleva cercare quelle sigarette, rubarne
una e provare a fumarla.
Forse così avrebbe attirato l’attenzione di suo padre e lui,
durante una notte stellata, sarebbe apparso, lo avrebbe abbracciato e gli
avrebbe promesso che sarebbe andato tutto bene.
Trovò un sacchetto di plastica trasparente contenente una
strana polverina verdognola. Delle sigarette neanche l’ombra.
Stava per lasciare la stanza, quando il figlio più piccolo
di Anita, Juan, lo sorprese a frugare in camera di suo fratello.
I due non avevano quasi mai parlato, ma Ethan lo trovava
simpatico e tranquillo. Juan non era ostile come Laudir, era un ragazzino
studioso e introverso, sempre intento a leggere e scarabocchiare disegni
incomprensibili.
«Laudir ti ucciderà» mormorò Juan.
«Tu sai cos’è questa?» domandò Ethan, mostrandogli la
bustina in plastica.
Juan annuì. «Droga» sibilò.
Un lampo di consapevolezza attraversò lo sguardo del più
piccolo. «Quella che usa Laudir per le sue sigarette?»
L’altro non replicò ma continuò a fissarlo dritto negli
occhi.
«E sai come si usa?» insistette Ethan, facendo un passo
verso di lui.
«L’ho visto fare a Laudir una volta…» balbettò.
«Insegnami» affermò.
«Io non…»
Gli occhi verdi di Ethan luccicavano in quelli neri di Juan.
«Ti prego» mugolò. «Devo richiamare l’attenzione di mio padre» aggiunse.
L’altro scosse appena il capo, poi gli fece strada verso
l’esterno della casa, pronto a mostrargli come avrebbe potuto distruggersi la
vita alla soglia dei suoi undici anni.
Ethan imparò in fretta a costruire le stecche d’erba, imparò
a rubare la marijuana a Laudir e imparò a procurarsela.
Ancora sotto gli effetti del suo primo spinello, quasi non
si accorse della furia del ragazzo quando entrò in camera sua e la trovò
sottosopra.
Laudir urlava, bestemmiava, anche Anita aveva paura di lui.
Non sopportava che quel marmocchio frugasse tra le sue cose, che facesse parte
della sua vita.
Ethan si sentiva sempre meno amato, sempre più solo, ma la
consapevolezza di poter finalmente ritrovare suo padre lo faceva andare avanti
con una piccola fiammella ad ardere nel suo cuore.
Conobbe ben presto gli amici di Laudir e il suo spacciatore.
Era suo cugino Davíd, tutti lo
chiamavano Dave, perché non gli piaceva mostrare le sue origini argentine.
Ethan lo seguiva come un’ombra e pian piano riuscì ad avvicinarsi
a lui, imparando i trucchi del suo mestiere: riconosceva con sempre più
facilità i diversi tipi di droga e si rese conto che in fondo l’erba che lui
fumava era talmente innocua da non essere quasi considerata tale.
Dave diceva sempre che Laudir era uno sfigato perché si
faceva soltanto le canne e aveva quasi diciotto anni. Dave non si drogava, ma
gli spacciatori non sono mai sfigati.
Erano regole che Ethan si ripeteva mentre trascorreva le
notti sveglio. Ormai non guardava più le stelle, impiegava il suo tempo a
leggere all’infinito le frasi che suo padre aveva annotato nell’agenda.
Fumava e cercava di farsi largo nella vita dei grandi, ma il
signor Murphy sembrava essersi dimenticato di lui.
Il giorno del suo undicesimo compleanno, il 18 febbraio, si
guardò allo specchio: i capelli neri erano cresciuti e si erano fatti
disordinati, gli occhi verdi erano dilatati e spenti, la pelle diafana era
quasi traslucida ed evanescente.
Era il fantasma di se stesso, lo spettro di un bambino che
ormai era morto la notte in cui suo padre se n’era andato di casa, lasciandogli
leggere i rottami di un romanzo mai esistito.
Lui non sarebbe tornato mai più.
Fu uno schiaffo in pieno volto, una consapevolezza dolorosa e
terribilmente reale.
Ethan capì in quel momento che suo padre era stato soltanto
un pazzo, un povero pazzo che aveva creduto di poter rincontrare sua moglie
mentre combatteva contro la sua paura di addormentarsi.
Lui non voleva essere così, no, lui voleva trovare la sua
strada.
Così decise che cosa fare, ora lo sapeva.
Aveva ormai undici anni.
Uscì di casa e corse a cercare Dave, quello che ormai
considerava anche suo cugino. In fondo quel ragazzo muscoloso e tatuato di
diciannove anni gli voleva bene, lo aveva preso sotto la sua ala e gli stava
dando la possibilità di guadagnare qualche soldo, permettendogli di aiutarlo e
di stare al suo fianco.
Lo trovò al solito posto: all’inizio di un vicolo umido
c’era un anfratto celato agli occhi dei passanti da un intricato intreccio di
edera rampicante.
I drogati sapevano dove trovare Dave, anche se un passante
qualsiasi non si sarebbe accorto di quell’apertura.
Lo spacciatore lo accolse con un sorriso sghembo, ma Ethan
non sorrideva affatto.
«Ho qui tutti i miei risparmi» esordì il più giovane,
porgendogli i pochi dollari che aveva guadagnato grazie a lui. «Voglio
dell’eroina.»
Dave sgranò gli occhi e lo afferrò saldamente per le spalle.
«Che cazzo dici? Sei impazzito?»
«No. Ora sono un tuo cliente e tu devi darmi quello che ti
chiedo» replicò Ethan con fermezza.
Lo spacciatore lo lasciò andare e parve sul punto di dire
qualcosa, poi scosse il capo completamente rasato e cominciò a preparare una
dose per lui, ignorando i soldi che ancora il ragazzino gli porgeva.
Non appena Ethan strinse tra le mani la roba avvolta in
carta stagnola, si sentì soddisfatto.
Se suo padre voleva trovarlo, doveva fare in fretta.
Stava ufficialmente cominciando la sua corsa contro il
tempo.
§ § §
Ciao a tutti e benvenuti in questa storia drammatica e
angst!
Forse chi mi conosce potrebbe aver riconosciuto Ethan, ma vi
spiego: è un mio OC nato quasi per caso durante la mia fanfic sui Faith No More
And the
pieces of my puzzle keep crumblin’ away, e grazie ai due contest a cui
partecipa questo racconto ho avuto l’ispirazione per approfondire la sua storia
e la sua infanzia problematica.
È un personaggio che mi è rimasto nel cuore e che mi ha dato
molto da pensare, così ho deciso che fosse lui il protagonista indiscusso di
questa vicenda ^^
Il pacchetto che ho scelto per il contest “Come lo Struzzo”
è il numero 3, ovvero questo:
Clinofobia, il timore del sonno e di addormentarsi
Obbligo: uno dei vostri personaggi (sia secondario che
protagonista, ma deve essere rilevante per la trama) è uno scrittore
Prompt: Cielo stellato
Citazione: Attenzione alle paure del giorno. Amano rubare i sogni della notte.
(Fabrizio Caramagna)
Invece il prompt per il contest “Le canzoni più belle” è il
brano che ho suggerito all’inizio della storia come sottofondo da ascoltare
durante la lettura ^^
Spero di essere riuscita a sviluppare tutto al meglio,
facendo incastrare ogni elemento con la vita tormentata di Ethan.
Ho volutamente interrotto il racconto nel momento in cui lui
decide di cominciare a fare uso di eroina, perché poi certe cose verranno fuori
in altre mie storia già pubblicate e non XD
Mi auguro che sia piaciuta a chiunque sia giunto fin qui, vi
ringrazio per aver letto e se deciderete di lasciare una recensione!
Alla prossima ♥
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