Questa
storia è stata scritta per mughetto nella neve
per il superamento di un esame.
Mi
era stato chiesto tutt'altro prompt, ma alla fine l'ispirazione mi ha
scagliato verso lidi ben diversi da quelli di partenza, e sono stata
abbastanza soddisfatta del risultato finale che ho deciso di
pubblicarla nonostante la tematica inusuale.
Qualche
precisazione, Italia e Romano in questa storia sono riferiti come
"Venezia" e "Napoli", nazioni che rappresentavano prima del
risorgimento italiano (in quanto vivo della headcanon che siano in
effetti gli unici due "superstiti" del processo di unificazione) e
spero non sia troppo di confusione. Inoltre ho fuso in questa storia
un'altra mia headcanon, ovvero sul perché il cognome umano
dei due fratelli sia così spagnoleggiante. Lo scoprirete
andando avanti nella lettura.
Cronologicamente inoltre la storia è ambientata nell'autunno
del 1860, non ho voluto dare una datazione precisa per via della mia
conoscenza parziale degli eventi e del poco tempo per documentarmi.
Da quando Venezia era stato
introdotto al Palazzo Reale si era reso subito conto del cambio
dell’atmosfera.
Napoli,
fuori dalle mura del palazzo, festeggiava. Venezia poteva sentire le
sue urla di gioia, quelle di festa, quelle di un popolo che non vedeva
l’ora di essere una cosa unica. Durante tutta quella guerra,
aveva pensato che per Napoli fosse la stessa cosa.
Gli altri
fratelli erano entusiasti, volevano vivere insieme, o almeno
così dicevano. La realtà al nord era ben chiara,
da soli erano deboli, uniti sarebbero stati molto più forti.
Nessuno si biasimava per un simile scopo egoistico, tanto meno Venezia
stesso che era stato inizialmente restio a partecipare a tutto
ciò ed era stato più trascinato dentro con
Lombardia che per reale accettazione.
Napoli,
invece, sembrava più opposto a una simile scelta.
Venezia
ricordava vagamente quel fratello incagliato nella penisola, sotto le
amorevoli cure di un impero ormai morto. Lui non era mai incorso
nell’amore del grande Impero Romano, e nemmeno in quello che
poi l’aveva succeduto, cosa di cui poteva invece vantarsi
Napoli, amato fin dalla sua nascita e trattato come unico vero erede di
tutta quella ricchezza che ormai stava svanendo e marcendo in giro per
il mondo. Napoli sembrava essere nato per essere amato da imperi, che
si trattasse della loro famiglia o di stranieri. Chiunque venisse a
contatto con Napoli sembrava amarlo così naturalmente da
fargli quasi spavento, e nei secoli Venezia aveva nutrito
curiosità per quel fratello che
nell’antichità si era adoperato per sopprimere per
poter dominare quel mare che aveva considerato suo, unica
eredità su cui era stato in grado di mettere la mano e
restio a lasciarsi strappare via.
Ora invece
erano di nuovo una famiglia.
Venezia era
curioso di quel fratello, ma Napoli continuava a nascondersi nel
Palazzo Reale, rifiutava di ricevere alcuno, e si rifiutava persino di
mettere piede fuori per qualsiasi ragione. Venezia aveva scritto a
Piemonte a riguardo, e questi aveva risposto in maniera sbrigativa,
probabilmente con parole di Cavour più che sue, di attendere
ancora, di avere ancora un po’ di pazienza, e poi di
costringere Napoli a uscire ed accettare la realtà dei fatti.
Venezia non
era troppo sicuro di una simile risoluzione, e anzi si chiedeva quando
si sarebbe parlato di riprendere il Veneto dagli austriaci, ma alla
fine aveva messo in sospeso la stesura della lettera per focalizzarsi
su come far uscire Napoli dal suo stesso isolamento. Non sarebbe stato
facile, anzi, aveva l’impressione di un’impresa
impossibile.
Aveva
parlato con uno dei servitori diretti del regno.
Questi non
aveva prospettive troppo lucenti, e nemmeno parole troppo buone per il
padrone che serviva. Napoli era chiamato “malerba”
da chi lo seguiva, anche se probabilmente non di persona. Aveva
liquidato il servitore, cercando di decidere se tenerlo oppure se
sbarazzarsene alla prima occasione. Di certo possedeva informazioni di
cui aveva bisogno, ma non era sicuro che gli fossero di alcuna
utilità ormai.
La sera,
però, aveva comunque deciso di sostituirsi a lui, prendendo
il vassoio con la cena e infilandosi direttamente dalla porta
principale. Le stanze private di Napoli erano certo scelte con cura tra
le più belle del palazzo, spesso riservate a figure
importanti, quale Napoli in effetti era. Venezia non aveva frequentato
luoghi simili come nazione libera da secoli, ormai. Il palazzo
napoletano, comunque, non aveva niente di austriaco. Era squisitamente
influenzato da altre corti, altre idee e altre architetture. Venezia
non era cieco, era perfettamente in grado di vedere di chi fosse la
vera influenza sul regno di Napoli.
«
Chi sei tu? » l’improvvisa voce lo coglie di
sorpresa, il piatto che tiene in mano vacilla un poco. Quello di fronte
a lui era Napoli. Se per secoli uno dei suoi fratelli maggiori era una
figura sfocata, ora Venezia aveva di fronte Napoli nella sua forma
concreta.
Non si
sbagliava a pensare che in effetti Napoli fosse il più bello
tra di loro, e dire che nel nord di fratelli con cui paragonarlo ne
aveva tanti. Nonostante la sua nobiltà la sua pelle era
piacevolmente scura, non come quella di un contadino, ma di un
incarnato quasi esotico che accompagnava i capelli scuri e gli occhi,
un misto curioso tra verde e marrone.
«
Che strano. » mormora, battendo le ciglia.
«
Cosa? » borbotta l’altro, improvvisamente distratto
da quella figura sconosciuta nel suo luogo più privato.
«
Nei tuoi quadri hai sempre gli occhi verdi. » dice,
appoggiando quindi il piatto, cercando di evitare la caduta.
«
Ce li ho verdi. » replica Napoli.
«
A me sembrano marroni. » controbatte Venezia, e vede il
pallore farsi strada sulle gote di Napoli, che si affretta a cercare
uno specchio. Venezia lo osserva specchiarsi in silenzio, come se
trovasse qualcosa di sgradevole nel suo viso, portandosi le mani ad
esso. Napoli trema, e all’improvviso si gira, dando le spalle
allo specchio. « Non te n’eri accorto? »
chiede quindi Venezia, sorridendo.
Un errore
che poteva evitare di fare, ma parlare senza che gli fosse consentito
era una qualità che nemmeno la casa austriaca era riuscita a
sopprimere. Napoli infatti si rende nuovamente conto della sua presenza
nella stanza, lo vede chiaramente tremare. Non era una reazione
normale, anche se faticava a coglierne le motivazioni.
«
Vattene. » sibila improvvisamente. « Vattene!
» strilla, più forte.
Era un
qualcosa che però non spaventava Venezia come avrebbe
dovuto, infatti questi piega la testa leggermente di lato, per far
intendere di non essere stato minimamente intimidito da un simile
atteggiamento. Napoli lo guarda e lo comprende subito.
Forse
finalmente si era reso conto con chi aveva a che fare.
«
Chi sei tu? » Venezia esita, non sapendo come rispondere. In
quel ventennio aveva dato una decina di nomi, tutti diversi, tanto che
iniziava a divertirsi per trovarne sempre di più fantasiosi.
A questo giro sceglie probabilmente quello più sciocco che
gli era venuto in mente.
«
Feliciano Scarpa. » Napoli inarca un sopracciglio, non sembra
molto convinto.
«
Il tuo vero nome. Sei uno dei lacchè di Piemonte? Me lo
ricordo, non gli assomigli più di tanto. » Napoli
fa una pausa, massaggiandosi una tempia. « Oppure sei uno dei
cari nipoti dello stato pontificio? »
«
Sono Venezia. »
«
Ah. » la reazione di Napoli è delusa. «
Pensavo che mandassero qualcuno di importante, per me. Non uno dei cani
austriaci. »
«
Sono italiano tanto quant- »
«
No, non lo sei. Non assomigli molto a me. O a Firenze, se proprio
dobbiamo fare paragoni. » Venezia stringe le labbra, ma cerca
di mantenere la sua compostezza. Lui era La Serenissima, doveva
atteggiarsi come tale, come aveva sempre fatto. Non sarebbe certo stata
una nazione di radici più illustri ad oscurare la sua tempra.
«
Sì, questo è l’aspetto di una nazione
che è cresciuta senza le sottane di imperi a cui
aggrapparsi. » Napoli sgrana gli occhi, probabilmente punto
sul vivo. Non era una buona mossa, ma di certo Venezia non avrebbe
abbassato la propria stima per farli usare all’altro come
gradini. Napoli apre bocca un paio di volte, probabilmente cerca di
trovare una risposta ma non riesce ad articolarla, facendo intendere a
Venezia di aver vinto quello scontro.
«
Il tuo cognome comunque è orribile. » dice
finalmente, facendo intendere come si stesse ritirando in maniera
strategica. Venezia inarca un sopracciglio.
«
È il cognome che io ho scelto per me, quando- »
«
Prenderete tutti il mio cognome. » Venezia mi morde la
lingua, detestando come Napoli non avesse alcun rimorso ad
interromperlo o a essere diplomatico con lui. Forse in quello stava la
differenza tra di loro, tra un viziato e uno che aveva sempre fatto
tutto da solo. Tutta la nobiltà di Napoli terminava
lì, il suo comportamento era maleducato e probabilmente
incoraggiato dall’antica influenza spagnola. Venezia si
impone la calma, la serenità, desideroso di terminare quel
colloquio al più presto.
«
Non penso Piemonte accetterà. » replica lapidario.
«
Lo farà se vuole l’amore del mio popolo.
»
Una simile
replica colpisce Venezia. Napoli non era stupido, sembrava sapere cosa
aveva a disposizione da barattare per la sua posizione. È
una rivelazione che lo colpisce in positivo.
Napoli era
un connubio di vizio e illuminazione, una combinazione rara in una
terra di nazioni ambiziose e aggressive. Di certo non poteva aver preso
dall’antico impero simile attitudine, o forse sì.
Lui non ne aveva memoria, ma fratelli della pianura avevano spesso solo
parole gentili per l’anziano impero, cosa che Venezia
continuava a non condividere ma a cui sorrideva e annuiva, fingendo di
comprendere ciò a cui si stavano riferendo.
«
Non penso gli serva a molto. »
«
Se non gli servisse, dubito si ostinerebbe a tenerti con sé.
»
«
Che intendi dire? »
«
Sento le voci sul come desideriate strappare il Veneto
all’Austria, state solo aspettando di trovare
l’alleato giusto. »
«
Acuta osservazione, e io che pensavo fosse una corte di artisti e
illuminati. » Napoli si appoggia a un mobiletto, sembra
improvvisamente stanco.
«
Voglio cenare. » dice, voltandogli le spalle e spingendosi
verso una stanza interna. « Fammi compagnia. »
Venezia lo
guarda sparire dietro la porta e tentenna.
Un
confronto simile non gli era piaciuto, in realtà desiderava
girarsi a sua volta e abbandonare quel luogo, insieme a Napoli, tornare
al nord, pensare a come riprendere la sua città, la sua
terra, la sua gente. Venezia sentiva la loro sofferenza, il loro
desiderio di unirsi agli altri sotto un’unica bandiera sotto
la pelle. Non aveva idea di cosa stesse facendo lì, nel sud,
sotto ordine di Piemonte, che più che un fratello sembrava
solo un altro dominatore sulla sua testa.
Eppure,
nonostante tutto, Venezia prende quel piatto inizialmente abbandonato e
segue la scia lasciata dall’altro, in silenzio.
La camera
in cui entra è persino più lussuosa della
precedente, gli ricordava un po’ la propria quando era una
repubblica, una ricca e indipendente che spadroneggiava su qualsiasi
avversario, che aveva piegato persino un impero pur di non farsi
conquistare. Non godeva di un simile lusso da un bel po’ di
tempo.
Con calma
appoggia quindi il piatto di fronte a Napoli, sedendosi quindi di
fronte a lui, in attesa. Questi osserva il suo piatto, prende le posate
che accompagnano la portata, e mettendole a lato lo allunga verso di
lui.
«
Mangia. »
«
No grazie. » Napoli non risponde, assottiglia lo sguardo, e
Venezia lo ricambia, per niente intimidito. Il silenzio continua per un
po’.
«
Non capisco perché tu mi abbia chiesto di rimanere se non
hai intenzione di parlarmi. » dice allora, e Napoli non alza
gli occhi dal suo piatto, continuando a mangiarlo senza prestargli
attenzione. Era un comportamento che stava iniziando a dare al suo
stomaco dal fastidio, tanto che pondera l’idea di alzarsi e
andarsene senza dare alcuna spiegazione.
«
Sto cercando di capire perché Piemonte ha mandato te.
»
Nuovamente
silenzio. « Non hai più un’importanza
strategica, anzi, tutto ciò che è tuo
è ancora in mano agli Asburgo. »
La cosa
irritante di Napoli era che poneva le stesse domande che si era fatto
lui, anche se non l’avrebbe ammesso ad alta voce e
soprattutto non in simile sede.
«
Probabilmente contava sul mio bell’aspetto. »
risponde allora, sorridendogli. Napoli inarca un sopracciglio, ma non
sembra avere altro da aggiungere.
«
Perché siete così ostinati nel volere anche me
sotto la giurisdizione di Piemonte? » chiede
all’improvviso, prendendo Venezia in contropiede.
«
Non- »
«
Sappiamo entrambi che è così. »
«
Allora saprai anche quanto siamo deboli se non ci uniamo. »
finalmente il segreto di pulcinella era all’aperto,
finalmente lui l’aveva detto. « Non abbiamo avuto
alcuna possibilità contro Francia, tanto per citarne uno.
» Napoli storce la bocca, probabilmente ricordando qualcosa
di sgradevole. Probabilmente le voci in cui era stato definito barbaro
dalla bocca dello stesso Francia avevano un fondamento. «
Diventare una famiglia è l’unica soluzione valida,
per adesso. »
«
Io ho avuto una famiglia. » risponde quindi Napoli.
« Di recente ho anche sposato Sicilia, anche se è
un matrimonio durato poco. » fa una pausa, come se ricordasse
qualcosa di ancora più sgradevole. « E posso dire
di averli seppelliti tutti. »
«
Curioso che tu stia dando Spagna per morto. »
Venezia
sapeva di toccare un tasto particolarmente dolente in Napoli, e in
fondo a nessuno nel Mediterraneo era sfuggita la devozione che la
nazione iberica provava per quel regno, di quella miriade di quadri
commissionati, vestiti in cui lo viziava, di come si toglieva il pane
di bocca per poterlo nutrire e tenerlo semplicemente sulle sue
ginocchia. Era un attaccamento che aveva incuriosito un po’
tutti, della cui natura un po’ tutti avevano speculato ma su
cui nessuno aveva osato fare domande.
In Venezia
aveva scatenato una sorda gelosia. Napoli continuava a essere amato,
tanto da fargli chiedere ciclicamente cosa avesse più di
lui. Certo era stato amato a sua volta, ma il suo amato aveva infranto
promesse che probabilmente non era stato in grado di mantenere fin dal
principio, lasciandogli solo amaro in bocca.
Forse era
dopo simile evento che Venezia aveva finalmente compreso il suo bisogno
di essere amato, un bisogno che aveva sopperito maltrattando i suoi
vicini e primeggiando su quelli che non poteva maltrattare, ma non
aveva mai goduto dell’amore che invece sembrava essere
destinato solo a Napoli. « Oppure lo consideri ugualmente
morto? »
Napoli
stringe le labbra, sembra mortalmente offeso da simili insinuazioni.
«
Non ti azzardare a- »
«
A dire la verità? Non sto mentendo, le notizie di Spagna
sembrano tutt’altro che buone. » quella sensazione
di supremazia sull’altro stava iniziando a piacergli, anche
se Napoli era nel suo territorio, nel suo posto, nelle sue stanze,
Venezia stava riuscendo a metterlo alle strette.
Non doveva
farlo, non era quello il modo migliore per conquistare la sua fiducia,
eppure non riusciva a fermarsi.
Napoli si
irrigidisce sulla sedia, muove febbrilmente gli occhi. La sua reazione
era tutt’altro da quella di una nazione liberata da un
dominatore straniero.
Ed
è lì che la realizzazione lo colpisce.
Napoli
amava Spagna.
È
una rivelazione che lo spinge a boccheggiare, salvo controllarsi poi.
Certamente Napoli odiava Francia tanto quanto loro, se non di
più forse, ma amava Spagna probabilmente di più.
Non era una cosa buona, amare una nazione straniera non si rivelava mai
qualcosa di positivo nella vita di nazioni come loro. Improvvisamente
Napoli gli fa pena, quasi tenerezza, spogliato di
quell’alterigia che lo aveva caratterizzato fino a quel
momento.
«
Faresti bene a dimenticarlo adesso. » dice quindi.
« È meglio se lo fai adesso, invece di essere
costretto a farlo quando non ci sarà più.
» Napoli sembra riscuotersi dal suo torpore, il suo viso
diventa più rigido.
«
Cosa intendi? »
«
Che ora sei parte del regno d’Italia, Napoli. Siamo una
famiglia e ti sto dando un consiglio fraterno. »
«
Non ne ho bisogno. »
«
D’accordo, se preferisci vederla in questa maniera puoi anche
non ascoltarmi. Ma io te lo dirò lo stesso,
perché voglio essere onesto. Amare uno straniero non va
bene, soprattutto se è uno straniero che ti ha dominato.
»
Napoli di
fronte a lui è livido, ancora più di prima.
Venezia vorrebbe che avesse abbastanza buon senso per comprendere che
non aveva alcuna intenzione di nuocergli, ma non ci sperava
più. Il ritratto che aveva di Napoli stava lentamente
venendo consumato dalla figura che aveva di fronte, diventando quasi
una rappresentazione certamente più vera ma altrettanto
grottesca della sua vera immagine.
«
Che cosa ne puoi sapere tu? Non sai quello che- che quello che io-
» Napoli si era alzato in piedi, si era messo a camminare
furiosamente avanti e indietro. Sembrava mortalmente offeso dalle sue
parole, più di quanto Venezia potesse immaginare. Era quindi
quello fin dove arrivava l’amore tra le nazioni?
Era uno
spettacolo ridicolo, ma del quale Venezia si sentiva particolarmente
geloso. Quando una cosa simile era stata detta a lui era stato
costretto a sorridere, a buttare giù tutto con un
atteggiamento più positivo, a non mostrare quanto simili
parole fossero come coltelli nella sua gola. Napoli invece poteva
comportarsi così, incurante e spontaneo intorno alle persone
che lo circondavano. Gli faceva paura, gli faceva persino ribrezzo.
Aveva speso secoli ad immaginare quel fratello che si era rivelato solo
una pallida persona rispetto alla sua fantasia.
Il pensiero
che probabilmente l’annessione sarebbe stata difficile lo
coglie subito dopo. Piemonte non sarebbe stato contento, quei
sentimenti che Napoli provava per l’ormai andato impero
spagnolo erano più un problema che una benedizione. Napoli
non avrebbe avuto altri nel cuore per un bel po’, quella era
una cosa che Venezia aveva compreso sul momento. Non poteva negare di
essere nella sua stessa situazione, e per un breve momento si sente
quasi affine a Napoli, così diverso ma improvvisamente
uguale in maniera terribile.
«
Hai altro da aggiungere? » gli chiede, alzandosi quindi dalla
sedia. Napoli lo guarda, ma non gli risponde. « Bene, allora
ti lascio alla tua cena. »
Venezia
esce dalla stanza, chiudendosi la porta dietro le spalle e passandosi
le mani tra i capelli. Forse era per quello che l’avevano
mandato lì, invece di altri. Venezia
all’improvviso si sente nudo, osservato e giudicato, come se
i suoi sentimenti fossero scritti sulla sua pelle e visibili a tutti.
Chissà se Napoli si sentiva così.
No, Napoli
non sembrava provare alcuna vergogna per ciò che sentiva.
Lui amava Spagna, forse più di quanto lui avesse amato Sacro
Romano Impero. Non lo nascondeva, anzi, sembrava non vedere
l’ora di urlarlo al mondo intero. Non era buono, non ne
sarebbe uscito niente di buono da una situazione del genere. Se si era
brevemente illuso riguardo alla situazione, sul come potesse andare
d’accordo almeno con quel fratello così lontano e
così ideale nella sua mente, ora la realizzazione lo
colpisce con ancora più forza, facendolo quasi boccheggiare
dal dolore.
Napoli non
era il fratello che pensava. Napoli era un fratello che non lo avrebbe
mai amato, così come non avrebbe mai amato alcuno al di
fuori di Spagna.
|