La
casa
La casa era viva.
Osservandone
il riflesso tremulo sulla superficie limacciosa del lago, questa
consapevolezza
mi colpì con una forza spaventosa. Per quanto quelle parole
fossero del tutto
prive di senso, risuonavano come un’eco fastidiosa nella mia
testa.
La casa era viva.
Avanzai
lentamente nell’erba alta, che arrivava a lambirmi i fianchi,
cercando di non
pensare agli insetti che certamente brulicavano tra gli steli
argentati. La
sottile coltre di nebbia che il lago sembrava vomitare in sbuffi
perlacei rendeva
l’aria umida e soffocante, ed il
paesaggio vagamente spettrale.
La
villa
aveva un aspetto assolutamente comune, a prima vista: grande e bianca,
aveva il
tetto spiovente ricoperto di tegole piatte, grigie come le rocce che
sbucavano
dall’acqua torbida. Il lato nord era ricoperto di
caprifoglio, che conservava
la sua tinta rossastra nonostante l’estate fosse ormai
terminata da un pezzo. La
facciata principale era perfettamente simmetrica, scandita ritmicamente
da
dodici finestre – sei per piano- e chiazzata qua e
là dalla muffa. Unica
particolarità, il portone di legno massiccio, intagliato in
modo singolare: un
fregio intricato faceva da cornice ad un fauno, che avanzava con le
braccia
tese in avanti e le mani di ferro battuto che infrangevano la
superficie scura
e solida, reggendo due batacchi arrugginiti.
Sfiorai
le
incisioni con le dita, cercando d’imprimerne i dettagli nella
mente, prima di
afferrare con decisione il batacchio destro. Non ebbi il tempo di
bussare:
spaccando il fauno in due metà perfettamente speculari, la
porta si aprì con un
lieve cigolio. Ero talmente convinta che si fosse spalancata da sola,
come in
un prevedibile film dell’orrore di serie b, che restai
interdetta per qualche
istante nel trovarmi davanti una donna dalla figura alta e snella.
Doveva
essere una ballerina classica, così sottile ed aggraziata.
Il volto lucido,
dalle gote arrossate, era senza età; aveva occhi di un verde
incredibilmente
scuro, con la pupilla dilatata in modo innaturale: rimasi a fissarli,
catturata
dai bagliori che danzavano sull’iride come sulla corazza di
uno scarabeo,
mentre la donna m’invitava silenziosamente ad entrare.
L’ingresso
era pressoché in rovina: l’intonaco, dove ancora
era possibile vederlo, era
marcito, mentre il caprifoglio s’insinuava dalla parete nord
attraverso ogni
possibile spiraglio, allungandosi poi, pigramente ma inesorabilmente,
sul
pavimento e lungo le altre pareti.
La donna, immobile, mi
scrutava coi suoi occhi
irreali. Si era avvicinata in silenzio ad una lunga scalinata,
ricoperta da
moquette rossa e lisa. Era più semplice osservarla da quella
distanza, senza
lasciarsi catturare dal suo sguardo: i capelli parevano unti, raccolti
in un
crocchia in cima al capo; indossava un abito di seta rosa pallido,
sottile come
un velo, elegante ma completamente coperto di polvere.
M’indicò di procedere
lungo le scale, prima di congelarsi in un perfetto arabesque accanto
all’ingresso.
Troppo
stupita per far finta di nulla, mi avvicinai a quella che era diventata
chiaramente una scultura: sfiorai la pietra liscia, umida, toccai
incredula i
lineamenti scolpiti. Quando la statua sbatté le palpebre,
sobbalzai e corsi
verso la scalinata.
Tutto
ciò
non aveva senso. La casa era viva.
Salii
di
corsa la rampa, inciampando un paio di volte nei gradini, mentre i
rampicanti
alle mie spalle invadevano l’ingresso, fagocitando tutto
ciò che trovavano. Mi
aggrappai al corrimano, stringendolo convulsamente, mentre mi
avvicinavo al
piano superiore. Questo consisteva in un lungo corridoio buio, tanto
stretto da
rendermi claustrofobica.
Lasciai
scorrere una mano lungo la parete, in cerca di un punto di riferimento
tangibile, abbastanza concreto da darmi sicurezza anche in quel tunnel
privo di
luce. D’improvviso sotto le mie dita prese forma una maniglia
circolare, fredda
e liscia. Girai il pomello lentamente, cercando di non prestare
attenzione al
battito irregolare del mio cuore. La porta sembrò crearsi
nel momento esatto in
cui io vi poggiai la mano, facendo pressione per aprirla.
Mi
ritrovai
in una stanza incredibilmente luminosa: le pareti, di un bianco
immacolato,
erano decorate da sottili disegni rossi; rosso era il pavimento dalle
piastrelle larghe, quadrate e variegate di rosa, così come
rossi erano i
panneggi che si alternavano a quadri dalle tinte calde. Dalla finestra
entrava
una luce intensa, innaturale, che baciava ogni oggetto rendendolo
brillante,
acceso. Persino la mia pelle sembrò rivestirsi di una strana
luminescenza, ma
non ebbi il tempo di restarne catturata. I disegni sulle pareti, che
tanto mi
ricordavano alcune antiche opere cinesi, presero vita: iniziarono una
danza
aggraziata, rincorrendosi sullo sfondo candido, mentre fiori di vernice
sbocciavano sotto l’occhio attento di nubi ricche di
fronzoli.
Non
c’erano
mobili, solo oggetti del tutto superflui: un vecchio manichino, un
braciere
sporco, qualche gabbietta vuota e delle scatole di cartone, appiattite
contro
il muro.
Un
richiamo
mi costrinse a voltarmi: dietro di me, in una piccola gabbia in ferro
battuto,
un maschio di cardinale rosso si lamentava della sua prigionia con voce
monotona.
“Oh,
andiamo, comportarti con gentilezza! Per una volta che abbiamo
ospiti!”
M’irrigidii.
Non c’era nessuno nella stanza, oltre a me.
Percorrendo
le pareti con lo sguardo, mi soffermai stupita ad osservare un
ritratto:
raffigurava una ragazza dal volto appuntito, con profondi occhi neri
come pece,
bordati di rosso, e
lunghi capelli
raccolti in una stravagante acconciatura. Seduta su una poltroncina in
stile
rococò, teneva tra le dita sottili una rosa, mentre sulla
mano destra un ragno
tesseva pacifico la sua tela. Sotto i miei occhi stupefatti, la ragazza
si
riaccomodò con grazia, facendo frusciare il suo abito di
satin nero, bordato di
pizzo.
“Perdonalo,
dopo tutti questi secoli non ha ancora imparato le buone maniere... Mia
cara,
posso sapere cosa stai cercando?”
Rimasi
interdetta per un istante.
“Io...
Non
lo so”
La
fanciulla
inarcò le sopracciglia sottili, mentre la bocca a forma di
cuore si stringeva
in una smorfia di disappunto.
“Tutti
sono
in cerca di qualcosa, tesoro...”
Il
cardinale
parve replicare a quell’affermazione.
“Sì,
Mr
Harris, tutti tranne noi... Ma noi non ne abbiamo motivo ormai. Cara,
attenta... Non smarrire il tuo scopo, o non potrai più
tornare indietro”.
Non
perse la
sua espressione perplessa nemmeno
quando
uscii dalla stanza, voltandomi un’ultima volta prima di
chiudere la porta
dietro di me.
Tornata
nel
corridoio, fui immediatamente attirata da uno spiraglio di luce. Prima
non
c’era, ne ero certa.
Mi
avvicinai
celere, sperando di lasciarmi alle spalle la spiacevole sensazione di
soffocamento che mi aveva attanagliata. Questa volta, la porta si
aprì da sola,
senza emettere alcun suono.
Entrai
di
soppiatto, guardandomi intorno con molta più accortezza di
quanto non avessi
fatto prima: dopo un dipinto vivente ed un uccello dal quoziente
intellettivo
quasi certamente superiore al mio, non sapevo a cosa potessi andare
incontro.
Questa
stanza era più arredata della prima, ciononostante appariva
più spoglia: il
mobilio color mogano si stagliava contro le pareti blu carta da
zucchero; un
tavolino da tè, al centro di quel piccolo salotto, posava su
un tappeto
persiano dai delicati toni dell’azzurro e del violetto,
circondato da
poltroncine foderate di velluto blu notte. Nessun quadro adornava le
pareti, né
erano stati messi soprammobili o ninnoli di qualche genere sul mobilio.
Non
c’era nulla che la rendesse vissuta, personale.
Per
questo
il mio sguardo fu catalizzato immediatamente da una credenza ad angolo:
al suo
interno, unico oggetto non essenziale, stava compostamente seduta una
bambola
di porcellana. Mi mossi verso questa con una lentezza esasperante,
quasi
aspettandomi che saltasse fuori dalla teca di cristallo per farmi a
pezzi.
Giunsi
davanti a lei e posai una mano sulla fragile barriera che ci separava.
Era una
bambola davvero incantevole, e doveva certamente essere costosa. I
capelli
parevano veri, di un bel rosso cupo, e gli occhi erano sospettosamente
simili a
zaffiri; indossava un abito da passeggio blu pavone, con eleganti
scarpette
bianche ai piedi ed un cappellino del medesimo colore sul capo.
Mi
salutò
con un lieve cenno della testa ricciuta, e soffiò le sue
parole leggere e
musicali fuori dalle labbra dipinte.
“Cosa
cerchi,Nausicaa?”.
Di
nuovo
quella domanda. Quella dannata, inutile domanda. Seccata, volsi lo
sguardo
altrove: sul davanzale un piccolo astrilde blu dall’aria
annoiata cinguettava,
producendo una nenia malinconica.
“Lo
sai,
Nausicaa... L’hai sempre cercato, ogni singolo giorno della
tua esistenza”.
Lo
sapevo?
Scossi piano la testa, incredula, senza distogliere
l’attenzione
dall’uccellino.
Sobbalzai,
sentendo qualcosa di soffice contro le mie gambe. Abbassai lo sguardo
allarmata, ma si trattava solo di un gatto. Era uno Scottish fold, a giudicare dalle orecchie
piegate in avanti,
di un bel color grigio fumo. Senza pensarci troppo lo sollevai da terra
e lo
strinsi, ascoltandolo fare le fusa contro il mio petto. Era una
sensazione
piacevole.
“Lo
sai,
Nausicaa. Devi solo ritrovarlo”.
S’immobilizzò
nella sua posizione composta, e capii che non avrebbe più
proferito parola.
Senza smettere di coccolare il micio, abbandonai anche quella stanza.
Tornata
nel
buio, a guidarmi questa volta fu una melodia allegra, che sembrava
uscire da un
violino. Seguii il suono per parecchi metri - ancora non ero riuscita a
scorgere la fine del corridoio – sfiorando la parete con la
mano, sempre in
cerca di un pomello. Quando lo raggiunsi, il gatto sgusciò
via dalla mia presa;
il pelo dritto, gli occhi spalancati fissi sulla porta, soffiava con
furia.
Quella reazione mi fece accapponare la pelle: socchiusi la porta e
gettai
un’occhiata frettolosa nella stanza. Non era un violino a
suonare: con busto di
donna e corpo di ragno, una terribile creatura, simile
all’Arachne mitologica,
suonava i fili della sua stessa tela con un lungo osso giallastro
pericolosamente simile ad un femore umano.
Senza
proferire parola, richiusi la porta. Qualcosa
–presumibilmente il mio istinto
di sopravvivenza- mi suggerì di allontanarmi il
più in fretta possibile da lì.
Il
gatto mi
seguì a testa bassa, muovendo la coda a scatti, mentre
cercavo di tornare sui
miei passi. Mi guardai intorno, confusa: non vedevo più le
scale dietro di me,
mio unico punto di riferimento.
Perfetto, mi ero persa.
Peggio, mi ero persa
in uno stupido corridoio senza capo né coda, al secondo
piano di una casa viva, circondata
da ritratti parlanti,
bambole animate e donne-ragno violiniste con abitudini alimentari
alquanto
discutibili.
“Nausicaa...”.
Mi
voltai,
brancolando nel buio più assoluto. Una voce dalla
consistenza del velluto mi
chiamava, m’invocava in quel buio gelido e soffocante.
“Nausicaa, vieni”.
La
voce,
calda e purpurea, sembrò materializzarsi nelle tenebre e
guidarmi, con
movimenti sinuosi di serpente. I miei passi erano innaturalmente lenti,
pesanti
come se fossi stata immersa nell’acqua fino alla vita. Era
una sensazione
angosciante, più cercavo di uscire da
quell’oscurità insensata e penetrante,
più mi pareva di affondarci dentro.
“Qui, Nausicaa...”
D’improvviso
esplose la luce: una luce bianca, gelida, che mi abbagliò
per un istante. La
voce suadente di prima continuava ad avvolgermi con le sue spire
infuocate,
annebbiando la mia mente già poco lucida. Quando la
luminosità si fece più
sopportabile per i miei occhi, iniziai a scorgere ciò che mi
circondava: mi
ritrovavo in una sorta di sterile giardino,uno spiazzo recintato in un
deserto
di un bianco accecante, che si stendeva a vista d’occhio,
perdendosi
all’orizzonte. Al centro di quello strano giardino
c’era un albero nero, che
pareva morto, con frutti incandescenti che pendevano dai rami nodosi.
Intorno a
me, migliaia di farfalle nere svolazzavano producendo un fruscio lieve.
Mi
mossi lentamente, osservando il loro volo rapita; mi rendevo
perfettamente
conto che abbassare la guardia a quel modo era quanto di più
sbagliato potessi
fare, eppure non potevo farne a meno: quelle piccole creature nere,
tanto
fragili e sottili da sembrare fatte di seta, o di nuvola, incatenavano
il mio
sguardo alle loro danze.
“Finalmente, mia cara”.
La
voce che
mi aveva attirata lì richiamò la mia attenzione,
interrompendo bruscamente
l’incanto.
Mi
ritrovai
a fissare una ragazza al’incirca della mia età,
pallida e sottile, con lunghi
capelli d’ebano e grandi occhi d’ametista. Mi
sorrise, gentile e gelida,
avvicinandosi.
“Ti attendevo... Da molto, davvero. Non puoi
immaginare quanto fossi impaziente di conoscerti.”.
La
freddezza
del suo sguardo mi suggeriva ben altra cosa, ma una voce nella mia
testa mi spinse
ad evitare inutili polemiche. Un corvo si posò sulla sua
spalla, e lei tese una
mano ad accarezzarlo, tubando affettuosamente qualcosa in una lingua
incomprensibile.
“Scusa,
ma... Tu chi...?”
“Perdonami, sono terribilmente sbadata. Sai,
è raro che io riceva visite di cortesia... Di solito mi
viene solo portato il
pranzo, e non ho molto tempo per stare a socializzare col mio cibo...
Inoltre
credo sia considerato maleducazione giocarci.”.
Mi
sorrise
distratta, indicando un cumulo di ossa con la testa. Invece si tornare
al
proprio posto, i capelli le fluttuarono attorno come pigri serpenti
d’acqua.
Rabbrividii, sforzandomi di non arretrare.
“In ogni caso... Il mio nome è Morgana,
lieta
di averti qui.”.
Sottolineò
quelle parole con un inchino ed un ampio gesto ad indicare il giardino.
Il
corvo gracchiò, fissandomi coi suoi occhi neri e lucidi.
“Come
fai a
conoscermi?”.
“Ma è facile , dolcezza! Io,
semplicemente,
so”.
Il
suo
sorriso si allargò, coinvolgendo per la prima volta anche
gli occhi.
“Tutto. Dal momento esatto in cui hai posato
il tuo sguardo sulla casa, io ho avuto libero accesso ad ogni tuo
pensiero, ad
ogni tuo ricordo.”.
La
mia
espressione allibita doveva essere alquanto buffa, e Morgana
scoppiò in una
risata bassa e gorgogliante, simile al suono dell’acqua di
sorgente che sbuca
dalle rocce.
“Vuoi la prova? Beh, è normale... Tutti
la
vogliono. Vediamo... All’età di cinque anni
scappasti dalla tua classe d’asilo
prima delle vacanze di Natale, terrorizzata dall’uomo
mascherato da Santa
Claus. Ti ritrovarono dopo un’ora di ricerche, raggomitolata
sul ramo di una
quercia del giardino.
Mentre il pensiero ossessivo che hai
riguardo questa casa dal primo momento in cui vi hai posato sopra gli
occhi, è
che essa sia viva”.
La
osservai
sbigottita, con la bocca semiaperta e un dito a mezz’aria
come per ribattere,
ma senza una risposta pronta. Deglutii rumorosamente: dannazione, che
cosa
umiliante. Cercai di ricompormi, per non mostrarle il mio turbamento.
Forse era
un comportamento sciocco, eppure feci di tutto per mostrarmi forte,
all’altezza, e persino gentile.
“La
casa
dunque... l’hai creata tu?”
“All’incirca... Diciamo che la casa
è parte
di me, e senza di essa io non sarei che nebbia sulle rive del lago. Io sono la casa, dolcezza”.
Annuii,
come
se avessi capito. Era impossibile che tutto ciò stesse
accadendo sul serio,
doveva essere un’allucinazione... O un sogno. Sì,
mi dovevo essere addormentata
in riva al lago e avevo sognato tutto quanto. Morgana
rispose con un cenno di diniego, per poi
iniziare a camminarmi intorno, come un critico d’innanzi ad
un’opera d’arte. O
come un predatore pronto a balzare sulla preda. Cercai di rimuovere la
seconda
similitudine non appena si affacciò nella mia mente.
“Sono
impazzita, vero?”
Sentivo
la
voce tremare, nonostante i miei sforzi per farla risuonare sicura.
“Impazzita? Certo che no, mia cara. A che pro
impazzire? La realtà è molto, molto
più folle di una
qualunque allucinazione. La realtà è subdola,
nasconde ciò che
la pazzia rivela. Non è meraviglioso come siamo tutti parte
di questo gioco
assurdo? Come tutti lo analizziamo con sguardo
lucido, pensando di averne carpito i segreti? Mentre in
realtà è
l’occhio vuoto ed opaco del pazzo ad aver colto la
verità.”
Si
avviò
verso l’albero, carezzando prima lo steccato con la mano
destra e la mia nuca
con la sinistra. Cercai di reprimere un brivido a quel contatto
inaspettato. Morgana
staccò un frutto e lo addentò con decisione,
mentre i suoi occhi si facevano
neri come scarafaggi, e i capelli parevano arrampicarsi in aria su
tralicci
invisibili; la sua carnagione aveva acquisito una sfumatura verdastra,
e
l’abito le s’incollava addosso come fosse fradicio.
Il corvo svolazzava sopra
di lei senza sosta.
“Chi stabilisce cosa è bene, cosa
è male?
Cos’è giusto e cosa non lo è? Allora
dimmi, Nausicaa. Tu cosa cerchi? Qual è la
tua verità?”
Io
cosa
diavolo stavo cercando? Ripensai alla bambola, alle sue parole: era
qualcosa
che inseguivo da sempre... Ma tutto ciò non aveva alcun
senso.
Ecco.
Un
senso.
Anzi no.
“Il
Senso.
Il Significato”.
Morgana
camminò, e per la prima volta mi accorsi che non poggiava i
piedi a terra, ma
fluttuava ad almeno un palmo dal suolo. Ciononostante, le impronte dei
suoi
piedi nudi erano perfettamente visibili sul bianco del suolo.
“Il Significato. Che magnifica ricerca, mia
cara. Cosa può dare un senso alla vita se non il Senso di
tutto? Però... Non ci
è dato conoscere, dolcezza”
“Fino
alla
fine” sussurrai appena.
“Esatto. Fino alla fine... Ecco cosa volevi,
bimba mia, ecco cosa cercavi. E io, sono qui per donartela”.
Tese
verso
di me il frutto infuocato, ed io respirai il suo profumo dolce misto a
quello
di salsedine di Morgana.
“Quindi...
Questa è la fine... Farà male?”
“Certo che farà male, dolcezza. Ma ne
varrà
la pena. Ne vale sempre la pena, sai?”
Annuii
ed
addentai cauta il frutto, mentre mi sentivo divorata dalle sue fiamme.
Il fuoco
mi trascinò nell’oscurità
più assoluta, mi seppellì nel silenzio
più cupo.
Poi
fu la
Luce.
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