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Sono una stupida e invece di modificare il testo ho cancellato la storia (facepalm). Scusate per l'inconveniente!
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Domani sarò ciò
che oggi ho scelto di essere.
James
Joyce
Esistere significa
“poter scegliere”; anzi, essere possibilità. Ma ciò non costituisce la
ricchezza, bensì la miseria dell’uomo. La sua libertà di scelta non rappresenta
la sua grandezza, ma il suo permanente dramma.
Søren
Kierkegaard
In questo mondo ci
sono tre tipi di persone: quelli che fanno succedere le cose, quelli che
guardano le cose accadere e quelli che si chiedono che cosa è successo. Noi
tutti abbiamo una scelta. Tu puoi decidere quale tipo di persona vuoi essere.
Io ho sempre scelto di stare nel primo gruppo.
Mary
Kay Ash
"Nessuno di noi qui ha una scelta, Clarke."
No,
lei pensa e la sensazione di bruciore al petto si diffonde alla gola; ha un
sapore di bile in bocca. Quella è l'alibi
dei codardi.
La pistola è pesante e fredda nella sua mano quanto la
radio nell'altra, eppure calzano alla perfezione, come appendici complementari.
Prende la mira per un colpo pulito (non quanto lo sarebbe uno alla testa, in
mezzo agli occhi), preme il dito sul grilletto, sta per sparare. Riabbassa il
braccio invece.
"Tutti noi abbiamo una scelta." La sua voce
suona secca come lo sparo che non è mai partito. Nella sua mente un'esplosione
incendia il buio della notte con fiori di fuoco. Una nube di terriccio, il
tanfo di corpi bruciati, sangue e feroce senso di colpa, edifici crollati e un
labirinto di macerie da attraversare in incognito e con il favore delle
tenebre. "Tutto il resto sono le scuse dietro cui nascondiamo il nostro
egoismo."
Poggia la pistola e la radio sul tavolo e dà le spalle
a Dante. Con la coda dell'occhio vede Bellamy avvicinarsi e legarlo con una
specie di corda improvvisata.
Mentre guarda i video che le telecamere di
sorveglianza stanno riprendendo in tempo reale, si sente intorpidita e
sopraffatta dalla nausea. Le sue competenze mediche le permettono di
trasformare quello che vede in informazioni che decretano la necessità di una
reazione urgente. Raven è giovane e forte, ma non sopravviverà più di un'ora su
quel tavolo operatorio.
Irradiare la montagna è davvero l'unica scelta
possibile?
Pensa, ordina a sé stessa,
massaggiandosi la fronte madida di sudore freddo. Pensa. I suoi occhi
saettano verso il monitor che mostra il corridoio in cui si trovano Cage ed
Emerson.
"Conosco quell'espressione," dice Bellamy,
spostandosi al suo fianco. "C'è qualcosa che vuoi condividere?"
"La musica di sottofondo," lei risponde,
indicando il monitor che mostra il refettorio. "Nel dormitorio e nel
refettorio c'erano degli altoparlanti. Puoi sintonizzarti agli impianti audio?"
domanda a Monty.
Monty sgrana leggermente gli occhi, prima di annuire e
rimettersi al lavoro.
Bellamy è a braccia conserte e nella penombra
metallica della stanza il suo viso è contratto come una maschera. "Sono
sicuro che parlare non è quello che hai in mente.”
“No, basta parlare con le persone sbagliate.”
Bellamy annuisce, sembra arrabbiato. Deve avere già intuito
cosa ha intenzione di fare, il che non la sorprende affatto. “È un piano
rischioso.”
Devono provarci, anche se è rischioso. Lei inspira
una, due volte. Dall'angolo in cui è legato, percepisce gli occhi penetranti di
Dante fissi su di lei. “È una scelta diversa."
Home is where one starts from
"Se parli qui dentro, ti sentiranno," spiega
Monty e le piazza di fronte un microfono. Accanto c'è il walkie-talkie
programmato per trasmettere su tutte le frequenze radio.
"Anche Cage?" Nel dormitorio, intanto, sua
madre si dimena sul tavolo operatorio a cui è appena stata legata.
"L’intero livello," assicura Monty. "Ho
controllato. Le telecamere di rete sono dotate di funzionalità audio
integrata."
"E -"
Di nuovo, Monty sembra capire al volo. "Dimmi
quando vuoi che dirotti il segnale radio su quello del dormitorio."
La mano di Bellamy si stringe attorno alla sua ed è
percependo il calore che si propaga dal suo palmo, carpendo un po' di quel
tepore, che si accorge per la prima volta di quanto fosse infreddolita.
"Puoi farcela," dice e lei gli crede,
stringendogliela di rimando.
*
Mi chiamo Clarke
Griffin. Sono nata nello spazio e insieme ad altri cento sono stata mandata
sulla Terra perché eravamo l'unica speranza di sopravvivenza del popolo del cielo.
Sono stata rapita
e trattenuta contro la mia volontà in questa struttura. Sono riuscita a
scappare, non prima di scoprire che la vostra vita è una menzogna. Molti di voi
non sanno o fingono di non sapere come siete riusciti a sopravvivere. Avete
scelto di vivere nell'ignoranza perché era un'alternativa migliore rispetto a
quella di affrontare la verità agghiacciante, rendervi complici consapevoli di
quello che succede, accettare che le vostre sono vite rubate, che siete vampiri
e assassini. Pensate di essere in pace, ma siete in guerra da sempre.
Tutto questo
finisce oggi, qui e ora. Mentre voi cenate, il mio popolo viene torturato per
ordine di Cage Wallace. Riuscite a sentire? Quella era mia madre mentre le
viene estratto del midollo osseo senza anestesia. Non è l'unica. Ci sono
ragazzi che hanno l'età dei vostri figli incatenati alle pareti mentre
aspettano il loro turno. Se non li fermo, moriranno. Non posso permetterlo. Non
ho altra scelta se non irradiare l'intera montagna. A differenza vostra, noi
sopravviveremo. Essere nati e vissuti nello spazio ci ha reso immuni a questo
livello di radiazioni. Ho offerto un accordo al vostro presidente. La salvezza
della mia gente per la vostra. Ha rifiutato. Vi offro la stessa scelta. Quando
i leader iniziano ad anteporre i loro interessi personali significa che è
arrivato il momento di deporli, che hanno perso il diritto di parlare per noi.
Agite di
conseguenza, ma sappiate questo. Avete trenta minuti. Se entro trenta minuti
mia madre e il resto dei prigionieri non verranno rilasciati, abbasserò la
leva. Irradierò la montagna. Trenta minuti. Scegliete con saggezza.
*
"E adesso?" chiede Monty dopo che ha premuto
il bottone per mettere fine al messaggio audio.
Clarke posa il walkie-talkie collegato al microfono.
Rilascia un respiro che non si era accorta di trattenere. Le sue spalle sono
talmente irrigidite che i muscoli le dolgono al minimo movimento, le dita della
sua mano sinistra sono indolenzite. Nonostante questo, non lascia andare la
mano di Bellamy. Incrocia il suo sguardo. La sua mandibola è serrata e la sua bocca
è incurvata verso il basso come se non ricordasse più di poter assumere una
forma differente.
"Adesso aspettiamo," lui risponde, dando
voce al suo stesso pensiero.
*
Aspettano, osservando col fiato sospeso le persone nel
refettorio quando iniziano ad abbandonare le attività in cui erano impegnate
per alzarsi e impugnare oggetti contundenti e armi improprie. Osservano Octavia
uccidere due guardie in un corridoio. Quando lei e Maya raggiungono il
refettorio, la maggior parte delle persone è in piedi ormai e si sta accalcando
all'uscita, dirigendosi verso il dormitorio.
"Sta funzionando," commenta Bellamy e lei
non si ferma a riflettere sulla strana espressione con cui la sta guardando.
(Non è la prima volta che lui la guarda con quello sguardo intenso di muta
meraviglia, come se non riuscisse a capacitarsi di quello che ha davanti a sé,
ma questo lei non lo ricorda. Come potrebbe? È sempre stata troppo cosciente
del proprio dovere per concentrarsi sul presente, troppo proiettata sul futuro
e sulle conseguenze per riconoscere quel tipo di sentimenti refrattari alla
labilità del tempo.)
"Ce l’abbiamo fatta." A differenza di
Bellamy, la sorpresa incredula e il sollievo che si fanno largo sul viso di
Monty sono facili da riconoscere. Monty è un libro aperto.
"Non ancora," dice Bellamy e quando le
lascia la mano e si avvia verso la porta, lei lo segue istintivamente.
"Dove stai andando?" domanda, anche se parte
di lei ha già capito. A volte ha l'impressione di conoscerlo meglio di quanto
conosca sé stessa e ne anticipa le reazioni con una facilità che anziché
sconvolgerla ha un effetto stabilizzante. (E non è assurdo rendersi conto che
lo conosce da due mesi? Due mesi soltanto. Due mesi appena. Due mesi e lui è
già diventato parte di lei, una delle cose migliori che potessero mai
succederle e dio, dio, quanto lo odia per questo, quanto vorrebbe
odiarlo.)
"Hanno intenzione di prendere d'assalto il
dormitorio contando sulla loro superiorità numerica, ma Cage e i suoi uomini
sono armati. Hanno bisogno che qualcuno li guidi. Hanno la guerra nel sangue,
ma non ne hanno mai combattuta una dal vivo."
Se fosse una persona diversa, cercherebbe di
trattenerlo. Il punto è proprio questo. Non è una persona diversa. Entrambi
daranno sempre priorità alle persone che hanno promesso di proteggere ed è il
motivo per il quale, invece di sbarrargli la strada e pregarlo di non andare,
lei afferra la pistola. "Prendi questa," dice e gliela porge.
"Bellamy," lo richiama prima che esca. Lui
si volta a guardarla da sopra la spalla, i loro sguardi si incrociano a
mezz'aria e per un attimo le sembra di riconoscere i suoi stessi sentimenti, di
vederli riflessi e amplificati nei suoi occhi. Sono di un marrone caldo, di una
tonalità più scura della terra d'ombra, abbastanza da sembrare nerofumo, le
pupille dilatate al punto da aver reso l'iride un anello sottile. "Sta'
attento."
Lui torce la bocca come fa sempre quando sta per dire
qualcosa di problematico, che non sa come gestire. "Se non dovessi
tornare-"
Lei scuote la testa. "Non dirlo."
"Sai cosa devi fare," lui termina come se
non l'avesse interrotto e per una frazione di secondo i suoi occhi si spostano
sulla destra, verso la leva, prima di tornare su di lei, acuti e saldi. Le
parole che contengono hanno ancora un sapore nuovo e non serve che lui le
pronunci per renderle vere. Sono le stesse che lei sente intrappolate sulla
punta della lingua dal momento in cui ha intravisto il lampo ferito che gli ha
attraversato lo sguardo quando gli ha lasciato credere che per lei fosse
qualcuno di sacrificabile, da quando si è trovata con una radio in mano a
contare i giorni e gli anni contenuti nei minuti che compongono tre ore, da
quando lo ha rivisto per la prima volta in carne e ossa dopo aver lasciato che
bombardassero una città, nascondendosi dietro la logica che il fine giustifica
i mezzi. Lo guarda e tutto ciò che riesce a vedere è l'epitome della sua
debolezza, ma anche della sua forza.
Dopo che è uscito, Clarke si posiziona di fronte alla
leva e osserva la sommossa che ha istigato senza provare la minima
soddisfazione. Le sue mani sono fredde e vuote, le sue braccia rigide e immote
lungo i fianchi.
*
Quando tutto è finito e gli scontri sono terminati,
Bellamy si volta verso la telecamera del dormitorio, scarmigliato e leggermente
sanguinante. Ha un taglio sulla tempia, il labbro spaccato e un paio di ferite
causate da Emerson prima che riuscisse ad avere la meglio. Clarke sa che è lei
che sta guardando, a lei che sta rivolgendo quel sorriso sghembo che gronda
stanchezza e che è un ossimoro, perché è in parte felicità e rassicurazione e
in parte tutto ciò che è il suo opposto.
Clarke scoppia a ridere, portandosi una mano alla
bocca ed è una risata querula, che sa di pianto. Monty emette un urletto di
gioia, solleva le braccia, pugni in aria, si alza per abbracciarla e -
"Ti avevo sottovalutato," commenta Dante,
gli occhi rossi e luttuosi. Non sta guardando lei, ma Bellamy e qualsiasi cosa
stia pensando, la sua fronte è corrugata in un'espressione concentrata che oltre
all’ovvia avversione sembra contenere una parvenza di riottosa approvazione.
"Vi bilanciate. Siete una combinazione efficace e potente. Dove non arriva
uno, sopperisce l'altro."
Dante riporta il suo sguardo su di lei e le si accappona
la pelle. Non si era accorta di aver lasciato trapelare così tanto e l'idea che
anche altri possano leggerle dentro fino a quel punto è francamente
terrificante. "Ti è leale. Quel tipo di devozione può trasformarsi in
un'arma a doppio taglio. Ricorda, Clarke. Non ci è permesso scegliere la
cornice del nostro destino. Ma ciò che vi mettiamo dentro è nostro.”
*
Quando lei e Monty mettono piede nel dormitorio sono
accolti da esclamazioni di giubilo e pacche sulla spalla. Le persone si
abbracciano, soccorrono i feriti, liberano chi è ancora ammanettato. Sono
insanguinati, laceri, sporchi e sembrano reggersi a malapena sulle loro gambe,
ma sono vivi. Ci sono Miller e suo padre, Raven e Wick e -
"Clarke," dice sua madre e lei batte
velocemente le palpebre per disperdere le lacrime che si stanno accumulando ai
bordi, offuscandole la vista. Si avvicina al tavolo su cui è semisdraiata e
lascia che le poggi le mani ai lati del viso, racchiudendolo come ricorda
vagamente che facesse quando era una bambina. Allora le mani di sua madre lo
coprivano nella sua interezza, circoscrivendolo facilmente.
"Ti abbiamo sentito," interviene Kane.
"Quello che hai fatto è.…" scuote la testa con uno dei suoi sorrisi
riservati. "Non so neanche come definirlo."
"Brillante," interviene Monty. Ha un braccio
attorno alle spalle di Harper ed è raggiante. "È stata brillante."
"L'importante è che abbia funzionato," lei si schermisce e cerca di non pensare all'alternativa, di non rabbrividire al
pensiero di quello che è stata ad un passo dal commettere.
"Lo avresti fatto o era solo un bluff?" La
voce di Jasper è abbastanza alta e brusca da ottenere un'istintiva reazione di
silenzio attorno a loro, mettendo in pausa qualsiasi altra conversazione. Si
volta. All'improvviso gli occhi di tutti sono puntati su di lei e l'atmosfera
di gioia ora ha assunto tinte fosche, elusive.
"Jasper," dice Maya sottovoce, tirandolo per
un braccio come se volesse impedirgli di aggiungere altro. Clarke incrocia il
suo sguardo e può vedere che, oltre la solita gentilezza che la
contraddistingue, c'è qualcosa di sfuggente nel modo in cui la sta guardando
che prima non c'era. Non è esattamente paura, ma una sorta di circospezione, di
timore misto a diffidenza. Come se fosse
spaventata da lei. Le si attorciglia lo stomaco.
"Avresti irradiato l'intera montagna?"
Jasper insiste duramente. La sua mano è ancora sporca di sangue ed è chiusa
attorno al coltello a serramanico con cui ha pugnalato Cage alla gola. (La
memoria di questa esperienza è una ferita che non si rimarginerà mai. È una
sensazione che lei conosce per averla provata sulla propria pelle. L’estraniamento.
Il brivido di raccapriccio che insorge nell’animo e si srotola come un serpente
destato dalla brutalità di un gesto per cui non può esistere perdono. Un
crimine di guerra rimane un crimine, che rimanga impunito oppure no.)
"Li avresti davvero uccisi tutti?"
Che senso ha mentire? “Sì," risponde. Non
aggiunge altro, non spiega che per loro sarebbe disposta a fare anche di
peggio. In effetti lo ha fatto, non è vero?
"Perché la cosa non mi sorprende?"
Sente la mano che sua madre le ha poggiato tra le
scapole, il suo modo silenzioso per darle supporto. Anche se è stata lei a
parlare, non è lo sguardo raggelante di Octavia che cerca nel gruppo di
sopravvissuti che la circonda, ma quello fosco del ragazzo che sa di trovare
per certo alle spalle di sua sorella.
"Dopotutto hai lasciato che quel missile
distruggesse Tondc. Sono morti più di duecento. Le tue mani sono macchiate del
loro sangue."
Quando trova gli occhi che cercava, non c’è disgusto, solo
sgomento e le sembra di avere la bocca piena di cenere.
"Ho fatto quello che dovevo," risponde senza
distogliere lo sguardo da Bellamy. "In caso contrario la copertura di
Bellamy sarebbe saltata."
Lui non sussulta e seppure la sua faccia non esprima
disaccordo, vede come contrae la bocca in smorfia involontaria, come se avesse
ingoiato un boccone incredibilmente amaro.
"Perciò l'hai fatto per salvare mio fratello che tu hai mandato in una missione potenzialmente
suicida perché tu avevi deciso che
era sacrificabile," dice Octavia. Ha le labbra assottigliate e ripiegate
in un ringhio di rabbia. "Cosa ti fa credere di avere il diritto di
scegliere chi vive e chi muore?"
"O., adesso basta," dice Bellamy in un tono
che non ammette repliche, lo stesso che ha perfezionato con i delinquenti per
mantenerli in riga quando doveva comunicare i turni di guardia e la
suddivisione settimanale delle mansioni di raccolta, cucina e costruzione.
Chiude una mano attorno alla spalla minuta di sua sorella.
Lei non rimane ad ascoltare il resto e si dirige verso
l'uscita. Nessuno cerca di trattenerla e le sembra di camminare su uno
spartiacque invisibile.
*
Clarke chiude la fila dei sopravvissuti che lentamente
percorrono la strada verso casa.
Bellamy le si affianca dopo un'ora di marcia, con la
sua altezza svettante la scherma dai raggi di sole, offrendole una tregua di
ombra e di refrigerio.
Ha un effetto liberatorio non essere più circondati da
cemento e metallo, respirare nel vento gli odori del bosco bombati
dall’umidità, pietra smossa e fogliame che lei associa istintivamente a
un’illusione di pace. La guerra dopotutto è fuoco e ferro e il sapore acre
della paura contro i denti.
Il sole batte sulle loro teste, forte e implacabile
nonostante sia già autunno inoltrato.
Bellamy ha gocce di sudore sparse sulle clavicole sporgenti,
i capelli scarmigliati e appiattiti sulle tempie in ricci che assomigliano a
commi spruzzati da un intenso riflesso d’oro. Le dita le prudono per il
desiderio di scostarglieli dal collo, lasciare la sua mano dietro la nuca e
usare il pollice per applicare una pressione concentrata sui nodi di tensione.
Lo vede poggiare la mano sul calcio del fucile che
porta sulla spalla destra per evitare che ballonzoli troppo e osservarla con la
coda dell’occhio. L’ha visto farlo anche prima, voltarsi nella sua direzione e
cercarla nella folla da lontano, strizzando gli occhi contro la luce per
metterla a fuoco. È il suo modus operandi: inquadrare, mettere a fuoco e
scattare. Non a caso è un cacciatore provetto, un tiratore scelto. Un paio
d’anni e sarà un guerriero di rinomata fierezza anche tra i dodici clan.
“Giusto perché tu lo sappia,” lui dice, “avrei
abbassato quella leva con te.”
Quello che le sta dicendo è che non glielo avrebbe
lasciato fare da sola. Non avrebbe lasciato che il peso di quella scelta
impossibile gravasse unicamente sulle sue spalle.
Clarke deglutisce. Vorrebbe piangere e così sfogare in
minima parte il magone di emozioni contrastanti che la vessa, ma non ha
intenzione di farlo, non qui dove si sente esposta alla curiosità di sguardi indiscreti
e impietosi. Deve essere più esausta di quanto credeva. La stanchezza
appesantisce i suoi passi, rallentando i suoi processi mentali perché è tentata
di fare qualcosa di immensamente stupido come sfiorargli il polso per
accertarsi che ci sia un battito. Dal momento che entrambi sembrano incapaci di
trasformare in parole quello che rappresentano l’uno per l’altra, non ha altro
modo per fargli capire che -
"Mia sorella era a Tondc. Lo sapevi?"
Clarke non si immobilizza, anche se per un attimo la
vegetazione lussureggiante diventa un pantano desolato. Non si volta a
guardarlo, non ne ha bisogno. Saprebbe ritrarlo basandosi sulla sola memoria,
il profilo tormentato e di cupa ferocia posizionato su uno sfondo che nella sua
immaginazione è stellato, come l’effigie di un princeps sulla moneta
d’ottone di un Impero caduto.
"Sì."
Bellamy annuisce, si trattiene con lei un altro po'
prima di raggiungere di nuovo Octavia. Clarke lo osserva allontanarsi,
strizzando gli occhi per vederlo meglio. (Cattivo equilibrio, vista annebbiata
e mal di testa, elenca i sintomi con praticità, ma non è stato un colpo di sole
a causarli.)
*
Dopo Monty, sa che il prossimo saluto non sarà altrettanto
facile da gestire.
Nulla lo è mai tra di loro.
Bellamy indugia vicino al cancello prima di avvicinarsi
e lei si chiede quanto tempo dovrà trascorrere prima che riesca a perdonarla
per quello che ha fatto, se supererà mai il rancore che deve provare per il
pericolo che ha fatto correre ad Octavia, se la guarderà mai con gli occhi con
cui soleva guardarla prima. La prospettiva di una vita da eremita nella foresta
continua ad essere allettante in confronto all’alternativa. Sentirsi sola
anche in sua compagnia.
“Non posso restare,” dice e sa di averlo preso in
contropiede.
Bellamy è bravo a mascherare le sue reazioni, a
imbottigliare i sentimenti. Spiana la fronte con una dimostrazione di pura
volontà, ma l’acciglio non si disperde del tutto, ne rimane l’eco nel suo
sguardo tempestoso. “Perché no?”
“Non capiresti.”
“Aiutami a capire allora.”
“Ogni volta che chiudo gli occhi,” odia come la sua
voce suona debole, odia lo spazio che li separa nonostante ci sia meno di un
metro a dividerli, odia tutto ciò che ha fatto e sopra ogni altra cosa odia il
fatto che non sia pentita, che non possa rammaricarsi per quello che ha fatto, “vedo
i loro volti, sento le loro urla. Ogni volta che li riapro vedo l'odio negli
occhi di Octavia e Jasper e ricordo il mostro che sono diventata.”
“Credi che non sia lo stesso per me?” L’espressione
sul suo volto, sguardo corrucciato e desiderio frustrato, dice più di tante
parole. “Ho ucciso un uomo, un padre di famiglia in quella montagna. Vorrei
dire che è stato l'unico. Uccisi per non essere uccisi. Quello che facciamo per
sopravvivere-”
“Non ci definisce,” lei finisce al suo posto. Lascia
vagare lo sguardo oltre Bellamy, verso quella che non riesce a considerare
casa. Al momento le sembra solo una gabbia in cui si lascerebbe intrappolare,
se decidesse di entrare.
“Ti prego, non andare.” Non si volta subito verso di
lui, continua a scrutare le recinzioni. “Ricordi cosa mi hai detto mentre
eravamo diretti a Tondc? Per me vale lo stesso. Non posso farlo da solo.”
“Bellamy...” sussurra. Lui deve leggerle in viso
quello che sta provando: lacerata nella carne, sfinita fin nelle ossa. Si sente
barcollare come se avesse bevuto un’intera fiasca di moonshine. Deve aver
capito che le sue parole hanno fatto breccia nella corazza che ha cominciato a
costruirsi dopo la morte di Finn, il tradimento di Lexa, dall’anello di fuoco
in cui pensava di averlo ucciso, perché la afferra per le spalle e si sposta in
modo da riempire il suo intero campo visivo, fino a quando il mondo è ridotto
alle lentiggini che gli cospargono il naso e gli zigomi in una linea
orizzontale e che il sole ha reso più pronunciate nel suo incarnato abbronzato.
“Ascolta, adesso stammi a sentire, d’accordo?” lui domanda,
la voce roca e assertiva. “Ci siamo dentro insieme. So che ti senti messa con
le spalle al muro, ma ne verremo a capo. Te lo prometto.”
Il suo mento ha cominciato a tremare. Alla fine, con
un sospiro accorato lei domanda, “Insieme?”
La sua micro-espressione di ansia è spazzata via da
una di sollievo e, a lei pare, trionfante orgoglio. “Insieme,” lui promette e l’abbraccia.
*
Lo scontro è accidentale o così Clarke pensa
inizialmente. Ha abbastanza prontezza da attutire l’urto cadendo sulle
ginocchia. Si rialza e sta constatando il danno ai suoi palmi quando si accorge
che il ragazzo che l’ha spinta è ancora lì e la osserva con malcelata rabbia, gli
occhi ridotti in fessure. Non è uno dei cento e questa è l’unica consolazione. Le
permette di affrontare il suo sguardo di puro odio senza dare cenni di
cedimento. Le parole che le rivolge sono pregne di disgusto, rabbia, livore. Il suo nome è Nelson, ricorda in un lampo di
riconoscimento. Suo padre è morto durante il bombardamento di Tondc.
Non reagisce. Più tardi riconoscerà che sia stato un
errore controproducente e deprecabile quello di non difendersi, ma al momento
non sa come potrebbe. Non ne ha neppure l’intenzione. Come rispondi a una
provocazione quando parte di te pensa di meritarla?
Alla fine, la voce della ragione si manifesta
nell’arrivo tempestivo di Bellamy che afferra Nelson per il davanti della
maglietta e scrollandolo, gli intima in tono perentorio, “Ehi, dacci un taglio.”
Nelson non sembra particolarmente collaborativo, ma
basta che Bellamy si chini per sussurrargli qualcosa all’orecchio per far evaporare
ogni traccia di lotta. Il suo viso acquisisce un colorito tendente al
verdognolo. Qualunque minaccia Bellamy deve avergli rivolto, l’effetto
dissuasivo è portentoso. Non le rivolge un secondo sguardo e si allontana a
testa bassa, scansando in malo modo le persone che stavano visibilmente
origliando.
Ora che Nelson si è dileguato, Clarke nota per la
prima volta che quella che avrebbe dovuto essere una conversazione privata ha
attirato più attenzione indesiderata di quanto avesse previsto. Nonostante sia
ora di cena si è creato un capannello di persone, non un numero cospicuo, ma
abbastanza da raggelarla per le implicazioni.
Hanno preferito osservare, scegliendo di non
intervenire.
Lo sguardo nei loro occhi è qualcosa a cui ha dovuto
fare il callo nell’ultimo mese e mezzo ed è il motivo per cui si è trasformata
in una creatura essenzialmente crepuscolare. Le sue giornate iniziano quando
quelle della maggior parte del Campo finiscono. Mentre il resto delle persone
si trascinano nei loro alloggi dopo una giornata di duro lavoro, Clarke
percorre corridoi vuoti, copre i turni di notte nell’infermeria. Ci sono
giorni, notti, in cui le sembra di essersi trasformata in una fantasma,
di essere poco più di un’ombra proiettata su una parete.
Sotto lo sguardo facinoroso di Bellamy anche gli ultimi
curiosi sembrano recepire il messaggio e si allontanano in fretta e furia.
Non sa cosa provare nello scoprire di essere
considerata alla stregua di una nemica tra la sua stessa gente.
“Mi odiano,” commenta, inespressiva. Quando è
successo?
“Non è te che odiano,” Bellamy risponde. Clarke si
volta verso di lui e non è stupita nello scoprire che lui la stava già
guardando. Solo perché è rivolto a lei, il suo sguardo non si è ingentilito, al
contrario sembra essersi incupito. Ha le mani sui fianchi e un minuscolo
cipiglio tra le sopracciglia. “Odiano quello che è successo e non hanno ancora
capito come superarlo. Cercano un capro espiatorio perché pensano che
incolpando qualcuno sarà più facile andare avanti.”
“Perché tu non mi odi?” Le parole fuoriescono prima
che abbia il tempo di stemperarle in un approccio meno diretto.
Lui non batte ciglio. “Cosa ti fa credere che non lo
faccia?”
Giusto, per un attimo ha dimenticato il suo posto. Sa
riconoscere la sua battuta d’arresto. Gli dà le spalle perciò non nota il modo
in cui Bellamy assottiglia gli occhi e il raro baleno che li attraversa, come abbia
allungato un braccio per trattenerla e poi lo abbia lasciato ricadere contro il
fianco in un ripensamento, chiudendo la mano a pugno.
(Ha mantenuto la promessa. Anche se i loro orari riducono
considerevolmente le loro interazioni, le è vicino nell’unico modo che lei gli
abbia permesso, che possa accettare ora come ora. Non c’è giorno in cui,
rincasando poco dopo l’alba, lei non trovi uno spuntino lasciato sul tavolo. Il
passaggio di lui facilmente riscontrabile nel letto rifatto, negli stivali
ripuliti dal fango, nei vestiti freschi di bucato e ripiegati, nei calzini
rammendati. Lenzuola che conservano il suo profumo e un lato del letto che è
sempre tiepido quando si infila sotto le coperte e che la richiama a sé con la
forza trascinante di un magnete.)
Non ha fatto nemmeno due passi quando la voce di lui
la raggiunge, bassa e onesta come non è stata dal giorno in cui sono tornati da
Mount Weather. “Non ci riesco,” lo sente dire e si chiede a cosa si stia
riferendo, se in realtà non stia parlando della loro situazione attuale, questa
vita in stallo fatta di attimi rubati e frasi non dette, silenzi assordanti e
notti quiete, albe brumose. “Ho provato a odiarti. Mia sorella sarebbe potuta
morire per colpa tua. Per qualche strana ragione non ci sono riuscito.”
Deve vedere la sua espressione. Deve vederla, non per
capire, ma per accertarsi che sia davvero come pensa, che sia tornata quella
vecchia tenerezza che traspare dalla sua voce.
Si gira verso di lui e Bellamy si stringe nelle
spalle, il suo sorriso sghembo le è più caro della stella più luminosa nel
cielo invernale. “Impara a conviverci, principessa. Arrivati a questo punto,
credo che le probabilità di farti odiare da me siano pari a zero.”
Si morde l’interno della guancia. “Ci deve essere
qualcosa che non mi perdoneresti.”
Bellamy le si avvicina e la sta guardando dall’alto,
incombendo su di lei in quel modo che non è prevaricatore, ma l’esatto
contrario, come se volesse proteggerla dalla meschinità del mondo, farle da
scudo. “Perché vuoi saperlo? Per mettere alla prova la mia pazienza?”
Clarke scuote la testa. “No, per il motivo opposto.
Cercherei di evitarlo. Per sapere fin dove posso spingermi.”
“Perché è così importante che io sia dalla tua parte?”
“Sai perché.”
Lui inarca le sopracciglia. “Lo so?”
D’un tratto qualcosa è cambiato. Lo sente. C’è una
frizione che poco prima non c’era, come una contrattura, una staticità, come se
l’aria fosse in fiamme e lei percepisce l’abbraccio violento di quell’incendio lambirle
la pelle. “Smettila,” ordina seccamente.
La complicità e l’entusiasmo fanciullesco sono
scomparsi. Le sue sopracciglia sono arricciate ed è accigliato e furente. Per
chiunque altro sarebbe la sua solita espressione. Non per lei “Non ho mai
pensato a te come a una codarda. Immagino che ci sia una prima volta per tutto.”
Clarke incrocia le braccia sul petto. “Cosa vuoi da
me, Bellamy?”
“Tutto. Niente,” lui risponde. “Non questa specie di
farsa. Cosa ti spaventa?” domanda, abbassando la voce e sporgendosi
pericolosamente in avanti, tanto che può percepire il suo respiro contro la
guancia, la promessa fantasma di un bacio. Sarebbe così facile voltare il viso
nella giusta angolazione.
Cosa la spaventa? Baciare le sue labbra fredde e
morte, osservare i suoi occhi spalancati e ciechi, il suo sangue sulle mani e
il suo cadavere ai suoi piedi.
Lo guarda con gli occhi pieni di lacrime. Invece di
rispondere, scappa via.
*
Dopo che hanno rilasciato nell’aria i resti di Finn
nel cimitero dietro la navicella, Clarke si attarda di fronte alla tomba di
Wells e piange. Non importa cosa ha fatto, gli errori commessi, cosa l’attende,
che non sia dipeso da lei, Wells rimarrà sempre uno dei suoi più grandi
rimpianti.
Riemergendo dal bosco poco più tardi, Clarke si ferma
ad osservare da lontano le persone raccolte attorno al falò, quello che rimane
dei cento. Octavia con la testa poggiata nel grembo di Lincoln. Monty e Harper
seduti vicini. Miller, Jasper e Monroe che tra un brindisi e l’altro si
scambiano aneddoti divertenti sui primi mesi trascorsi sulla Terra, prima che
arrivassero gli adulti. Come Bellamy anche Raven è un poco discosta dal resto
del gruppo, ma la sua risata roca risuona spesso e di quando in quando le sue
dita sfiorano il container vuoto che fino a un paio di ore prima conteneva le
ceneri di Finn.
Il fuoco illumina intensamente la notte, getta sui
volti di tutti ombre che per la prima volta non le appaiono sinistre. Al
contrario hanno qualcosa di luminoso, riscaldano e smussano la magrezza delle
loro facce. Li alleggerisce dai traumi che hanno vissuto e li rende di nuovo
giovani e spensierati.
Clarke non si avvicina subito. Preferisce rimanere dov’è,
ad assaporare quel raro momento di pace. Finalmente sente che può esserci
davvero un dopo. Voltare pagina è possibile e anche se dimenticare non lo è,
può perdonarsi e andare avanti.
Quando il resto del gruppo si è coricato per la notte,
lei cammina in punta di piedi e va a sedersi nell’unico posto che potrebbe mai
pensare di occupare, accanto al custode che veglia su di loro. (È stata un’idea
di Bellamy quella di riunirli per questa gita di un giorno. Parte di lei si
chiede come faccia ad essere sempre un passo avanti. Capire alla perfezione ciò
di cui hanno bisogno, distinguere il desiderio dalla necessità.)
Lui le porge il bicchiere di moonshine che ha messo da
parte per lei, lei gli restituisce il fucile. Sente il suo sguardo sul suo
viso, sa che deve aver notato i suoi occhi arrossati.
“Stai bene?” domanda Bellamy, l’espressione stoica che
non lascia trapelare nulla e quegli occhi che invece lasciano trapelare troppo.
Annuisce. La tensione abbandona le sue spalle ampie e
lei prova un irrefrenabile moto di tenerezza. Si umetta le labbra. “Avevi
ragione,” sussurra, osservando il riverbero del fuoco, lasciandosi cullare dall’atmosfera
rilassata, dal silenzio ovattato che li circonda.
Visto che si tratta di Bellamy, non è sorpresa che abbia
capito subito che si sta riferendo al modo in cui si è allontanata da lui due
settimane prima, abbandonando bruscamente la conversazione. “Clarke, non sei
obbligata a farlo.”
“Sì, invece,” risponde e sa che è vero. Non può
lasciare che vivano in questa specie di limbo. Serra le dita attorno al
bicchiere. “Avevi ragione. Non sono semplicemente spaventata. Sono
terrorizzata. Eri con me quando hanno legato mia madre a quel tavolo. Sai
perché Cage l'ha fatto. È colpa mia, era per arrivare a me. Per spezzarmi, per
cercare di piegare la mia volontà. Le persone che amo sono perennemente in
pericolo.” Incrocia il suo sguardo. Nell’alone di luce arancione che tinge lo
spiazzo, la fiamma che brucia nella notte ha raggiunto anche i suoi occhi. Sono
come tizzoni strappati dal fuoco. “Tu e mia madre siete la mia debolezza.”
Bellamy solleva un angolo di bocca in un sorriso
ironico. “Di solito si preferisce usare la parola famiglia, ma posso adattarmi.
Flessibilità e capacità di adattamento sono solo due delle mie tante qualità.”
“Non hai ascoltato una parola di quello che ho detto?”
“Sì e fortunatamente per entrambi sono molto bravo a
leggere tra le righe o non potrei fare questo.”
Le poggia le mani ai lati del viso e quando le copre
la bocca con la sua, il contatto è deciso e sicuro. Le reclina la testa per
avere maggiore accesso, lei lascia cadere il bicchiere con un tonfo attutito
dalla coperta. Gli infila le dita tra i capelli e lo attira a sé. Gli sfiora
con la punta della lingua le labbra, il contorno dei denti incisivi. Bellamy emette
un gemito che le risuona in tutto il corpo, approfondisce il bacio e le morde
il labbro inferiore.
“Bellamy,” lei sospira il suo nome, tirandogli
leggermente i capelli per ritorsione. “Sei impossibile.”
“Grazie.” Lui le sfiora il collo con le labbra, il suo
sorriso premuto contro la pelle la fa rabbrividire. Gli poggia le mani sul
petto e può sentire la vibrazione della sua risata.
“Non voleva essere un complimento.” Non posso
perderlo, pensa improvvisamente. Perderlo la distruggerebbe.
Bellamy la fa sdraiare insieme a lui e poi la stringe
di nuovo tra le braccia. Clarke ha la testa incastrata nell’incavo tra collo e
spalla e le dita di Bellamy le accarezzano i capelli in un ritmo costante e
ripetitivo. “Cosa posso fare?”
“Rimani così un altro po'?”
“Tutto il tempo che ti occorre,” le sussurra contro
l’orecchio, baciandole il lobo.
Dopo un po’ sente di nuovo quella vibrazione nel petto
di Bellamy, il torace scosso da un leggero tremore. Con le dita traccia i
contorni del suo viso, il naso, la guancia ossuta, la fossetta del mento, la
sua bocca fermamente arcuata verso l’alto. “Cosa c'è?” lo sente domandare.
“Stavi sorridendo.”
“Suppongo di sì.”
“A cosa stavi pensando?”
“Che sono il tuo tallone d'Achille,” Bellamy risponde
immediatamente con un quieto autocompiacimento.
Tipico. È tentata di fare una battuta al riguardo, ma
desiste. Strofina il naso contro la sua gola. “Un giorno mi racconterai tutte
le storie che conosci?”
“Perché aspettare fino a domani?” domanda lui rocamente
e poi, a voce bassa ed evocativa, come se le stesse confidando un segreto o
leggendo un sonetto, comincia a parlare. “Una volta, molto tempo fa, c'era una
ragazza a cui era stato fatto il dono della profezia. Il suo nome era Cassandra
e presto avrebbe scoperto che quel fantomatico dono non era altro che la
ripicca di un dio crudele.”
Quando Bellamy dice che non essere creduta ha protetto
Cassandra dalla lussuria quando era giovane, Clarke sbuffa. “È un lato positivo
piuttosto tetro.”
“Maledettamente tragico,” lui concorda con una risata
soffocata. “Non hai ascoltato? Tutti gli uomini, dei o mortali e persino un eroe
come Teseo, sono dei vermi.”
“Non tutti,” risponde sovrappensiero e si maledice
quando sente la mano di Bellamy fermarsi sui suoi capelli. Si morde la lingua.
“Voglio dire,” tenta di rimediare, “anche gli uomini possono essere emotivi e
sensibili.”
Può praticamente sentire il suo ghigno. “Parlavo
di come spesso vengono descritti nella mitologia.”
Gli dà un pizzicotto. “Sta' zitto. Continua.”
“Ricevo segnali contrastanti.”
“Bellamy,” dice in tono di avvertimento.
Le stelle sopra di loro sono brillanti e suggestive. C’è
stato un tempo, pensa, in cui i suoi occhi sarebbero stati puntati al cielo e
non sul ragazzo a cui è abbracciata per ricordarsi che il loro mondo non deve
essere per forza cupo e senza speranza, che c’è bellezza anche nell’oscurità
della notte più nera.
C’è un’ironia che non le sfugge nel fatto che sia
proprio qui, dove il loro viaggio ha avuto inizio, la loro prima casa, che lei se
ne sia resa conto.
“Sono felice che tu sia rimasta.”
Lei poggia le labbra in corrispondenza del suo cuore. “Anch’io.”
Non ci è permesso scegliere la cornice del nostro
destino. Ma ciò che vi mettiamo dentro è nostro.
Dag Hammarskjold
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