ATTENZIONE: questa storia tratta tematiche molto delicate,
come specificato negli avvertimenti e nelle note all’esterno del racconto. Ho
cercato di essere il più delicata possibile nel trattarle e non voglio
assolutamente offendere o sconvolgere chi legge. Se siete particolarmente
sensibili a temi di violenza domestica e incesto, vi sconsiglio di leggerla,
anche se non sono ovviamente entrata in dettagli, anche perché lungi da me
voler violare il regolamento di EFP o calcare la mano su certi argomenti. Se
pensate che io abbia esagerato, vi prego di farmelo notare. Grazie a chi
deciderà di leggere e anche a chi non lo farà, non sentitevi assolutamente
obbligati a farlo, anche se magari siete miei lettori affezionati e seguite
ogni mia mossa. Tranquilli, davvero.
Vi consiglio di ascoltare questo brano durante la lettura:
Spiel Mit Mir
Gioca con me
Io e mio fratello Jason condividevamo la camera e il
letto. Quando ci eravamo trasferiti nella casa nuova, c’erano solo due
camere con un letto matrimoniale ciascuna.
I mobili c’erano già tutti, i nostri genitori l’avevano
presa in affitto perché l’altra era troppo grande e non potevamo più
permettercela; soltanto mamma lavorava come infermiera, mentre papà aveva visto
fallire il suo piccolo negozio di alimentari giorno dopo giorno, finché non era
stato costretto a chiuderlo.
Ma mio padre era un uomo sorridente e solare, avrebbe saputo
risollevarsi, ce l’aveva promesso e io mi fidavo di lui.
Jason invece era arrabbiato con loro. Ci eravamo trasferiti
in un altro paese perché soltanto lì avevamo trovato una casa a basso prezzo
già ammobiliata, ma questo aveva impedito a mio fratello di continuare a
frequentare i suoi amici. Quando andammo a vivere nel nuovo appartamento, lui
aveva tredici anni ed era nel pieno dello sviluppo della sua vita sociale.
Io invece avevo otto anni, ero una bambina curiosa e mi
piaceva fare nuove conoscenze, non avrei certo avuto problemi a farmi dei nuovi
amici.
Io e Jason non avevamo mai dormito insieme fino ad allora,
lui aveva sempre preteso di avere una stanza tutta sua, dove potersi rifugiare
per ore e ore a fare chissà cosa.
Ma adesso eravamo più poveri di prima, non potevamo permettercelo.
Così fummo costretti a dormire insieme, condividendo anche
il letto. A me non importava, davvero, io volevo bene a Jason, anche se lui non
voleva che glielo dimostrassi perché diceva che abbracciarsi o farsi le coccole
erano cose da femminucce e lui ormai era grande per certe fesserie da
poppanti.
Wir teilen Zimmer
und das Bett
Bruderlein komm
sei so nett
Poi un giorno qualcosa cambiò nel suo atteggiamento.
Jason rientrò dall’oratorio completamente sconvolto e
arrabbiato. Si chiuse nella nostra camera da letto e io lo sentii piangere,
anche se non mi permise di entrare, affermando che non stava affatto piangendo,
perché i veri duri non piangono mai.
Ma io lo sapevo e lo volevo consolare.
«Sii gentile, fammi entrare, non voglio che stai
male» piagnucolavo, mentre bussavo forte alla porta.
Mamma era al lavoro, papà era uscito a cercarne uno. Eravamo
soli e io non sapevo come comportarmi.
Trascorse un sacco di tempo prima che Jason aprisse la porta
e mi guardasse dall’alto, anche se non mi superava di tanti centimetri. Papà
diceva sempre che io sarei stata più alta di lui e sarei cresciuta prima, anche
se ero più piccola di cinque anni.
«Fratellino, che succede? Perché sei triste? Chi ti
ha fatto arrabbiare?» gli chiesi, cercando di abbracciarlo.
Ma Jason scappò dentro la stanza e si buttò sul letto,
rannicchiandosi sotto le coperte. Non piangeva più, si limitava a tremare.
Lo guardavo senza sapere cosa fare o cosa dire. Non voleva
essere consolato, mi veniva soltanto da urlare come una bambina. Aveva ragione
lui quando diceva che non capivo ancora niente del mondo degli adulti.
Lasciai la camera soltanto quando nostro padre rientrò.
Jason fece una doccia lunghissima quella sera, prima di
cena. Non c’era verso di farlo uscire dal bagno, era chiuso lì dentro da due
ore quando infine ascoltò papà che lo minacciava di aprire la porta se non
voleva che la buttasse giù a pugni.
Cenammo in silenzio, la mamma sarebbe rientrata più tardi
dall’ospedale. Per fortuna a papà piaceva un sacco cucinare, non ci avrebbe mai
lasciato senza un buon pasto.
Poi Jason si alzò e se ne andò, tornando a chiudersi in
camera nostra. Avevo paura di raggiungerlo perché non volevo disturbarlo o
farlo arrabbiare.
«Faith, tesoro, sai che cosa è successo a tuo fratello?»
chiese papà, mentre i miei occhi si riempivano di lacrime e il mio cuore
batteva a mille.
Scossi il capo e non gli dissi niente, anche perché non sapevo
niente.
Poco dopo mi alzai e andai in bagno. Infilai il pigiama, mi
lavai i denti e mi diressi in punta di piedi verso la mia camera. Prima di
entrare, bussai per avvertire Jason della mia presenza.
Trovai la stanza immersa nella penombra, solo i tenui raggi
della luna la illuminavano appena.
Jason era steso a letto, con lo sguardo fisso sul soffitto e
il respiro regolare. Mi infilai timidamente sotto le coperte accanto a lui e mi
voltai per guardarlo, cercando il coraggio per dirgli qualcosa.
«Fratellino» mugolai.
«Faith, non rompere» replicò bruscamente.
«Ma… perché non mi racconti cos’è successo? Vieni vicino
a me, ti voglio solo consolare.»
Jason si mise su un fianco e mi fissò per un lungo istante,
mentre i suoi occhi scuri divenivano ancora più scuri, come non li avevo mai
visti prima. Mi facevano quasi paura, ma Jason era mio fratello e io gli volevo
bene.
Così gli sorrisi e lo abbracciai di slancio, perché volevo
che non piangesse più e che si confidasse con me come faceva quando eravamo più
piccoli. Era cambiato da quando era entrato in seconda media, parlavamo molto
di più quando io ero in prima elementare e gli chiedevo aiuto per imparare a
scrivere l’alfabeto.
Jason si aggrappò a me e sentii che singhiozzava appena.
«Io ti voglio bene, fratellino» dissi.
«Sì, anche io…» mormorò, ma sembrava assente, come se la sua
mente fosse da tutt’altra parte.
Mentre le sue mani, quelle erano presenti e facevano una
leggera pressione sulla mia schiena, scivolando piano fino a serrarsi sui miei
fianchi di bambina.
Sgranai gli occhi stralunata e cercai di scostarmi da lui,
ma mio fratello mi tenne ferma e si lasciò scappare una risata strana, quasi
cattiva.
Non sembrava neanche il mio dolce Jason dai capelli color
miele e gli occhi neri e vispi. No, quello non era lui.
Bruderlein komm
fass mich an
rutsch ganz dicht
an mich heran
Poi d’improvviso mi lasciò andare e mi diede le spalle.
Io ero senza parole e mi sentivo strana, non mi aveva mai
abbracciato in quel modo.
«Dormiamo, Faith, domani sarà tutto passato» mormorò.
«E tu sarai nuovamente il mio fratellino gentile?»
chiesi, giusto per esserne sicura.
«Certo, certo…»
Ci misi un po’ a prendere sonno, perché quella era una
giornata davvero bizzarra e io avrei voluto soltanto che mamma tornasse presto,
così sarei andata a rifugiarmi nel suo abbraccio e allora sì che sarei stata
tranquilla.
«Mia mamma è un’eroina» raccontai alla mia nuova compagna di
classe, una bambina di nome Elizabeth che aveva i capelli rossi come il fuoco e
gli occhi azzurri e luminosi.
«Davvero? E perché?» chiese lei curiosa.
«Fa l’infermiera e guarisce un sacco di persone. E la tua
invece cosa fa?»
Beth – così si faceva chiamare, mi aveva proibito di
chiamarla Elizabeth – ci pensò su e rise. «Quale delle due?»
Non capivo, così le lanciai un’occhiata smarrita. «La mamma
è solo una, Beth, che stai dicendo?»
Lei si strinse nelle spalle. «Io ne ho due. La mia vera lavora
in un ufficio dove fa un sacco di calcoli, mentre la mia altra mamma, Lucy, è
una cameriera in un posto molto prestigioso.»
Aggrottai la fronte e le diedi una leggera spinta. «Hai due
mamme e neanche un papà? Ma questo non è possibile!» strillai.
«Sì che ce l’ho un papà! Ma io vivo con le mie due mamme e
con mio fratello Bernie. Sai, a lui fa schifo il suo nome, proprio come a me.
Si chiama Bernard ma si fa chiamare Ben. Quest’estate siamo stati in vacanza in
California e abbiamo conosciuto un ragazzo molto simpatico, ma mio fratello si
è presentato come Ben e…»
«Non mi interessano queste cose! Tu hai davvero due mamme?»
Beth sbuffò. «Certo! Non c’è niente di male! E invece tuo
papà cosa fa?»
Abbassai lo sguardo sul banco vuoto. «Lui adesso non lavora,
ma prima o poi lavorerà di nuovo.»
«E hai un fratello o una sorella?» indagò ancora.
«Sì, ho un fratello. Lui si chiama Jason, è in terza media
ed è antipatico. Prima non era così, però! Io e lui giocavamo insieme, mi
parlava un sacco, ma adesso dice che è grande e non ha più tempo per me.»
«Invece Bernie con me è tanto dolce! Mi fa un sacco di regali,
mi porta a giocare al parco…»
«Beata te» sussurrai sconsolata.
Beth mi prese le mani tra le sue e sorrise entusiasta. «Ma
se tuo fratello non ti porta al parco, puoi venire con me e Bernie! A lui farà
tanto piacere!»
Subito il morale mi si risollevò. «Davvero?»
«Ma certo! Siamo amiche, no?»
«Sì, siamo migliori amiche!»
Avevamo fatto amicizia in un attimo, forse perché tutte e
due eravamo piuttosto espansive e ci piaceva curiosare l’una nella vita
dell’altra.
Beth era fortunata, perché aveva due mamme e un papà, e poi
aveva un fratello simpatico e carino con lei.
Io mi sentivo così sola.
«Faith, voglio raccontarti una storia» disse Jason qualche
notte dopo, mentre eravamo stesi a letto uno vicino all’altra.
Io subito mi entusiasmai. «È una favola? Sì, che bello!»
esclamai. Forse Jason aveva capito di essere diventato antipatico con me e ora
voleva farsi perdonare.
«Non proprio» borbottò.
«Voglio sentirla!»
Mio fratello si mise su un fianco e mi prese le mani tra le
sue, guardandomi negli occhi. «A volte prima di dormire, vedo un buco nero
di fronte al letto.»
«Cosa? Ma non c’è nessun…»
«E poi vedo tante pecore.»
«Quelle che contavamo insieme quando non riuscivamo a
dormire in campeggio?» chiesi timorosa.
«Brava, quelle. Tutte quelle pecore cadono dentro il buco,
una a una, tutte quante.»
Il suo tono aveva qualcosa di strano, qualcosa che mi
metteva i brividi. «Smettila, questa storia non mi piace…»
«C’è un lieto fine, aspetta. Dicevo… le conto anche se
sono grande, perché non riesco a dormire. E mi sento meglio. Conto, conto,
conto… una, due, tre…»
Mi sentivo stranamente ipnotizzata da quel racconto così
strano, così poco da Jason.
E sentivo anche le sue mani stringersi più forte sui miei
polsi, strattonarmi per avermi più vicina a lui.
I miei occhi si riempirono di lacrime, ma Jason le ignorò,
continuando il suo racconto: «Ma poi mi accorgo che c’è qualcuno con me, la mia
sorellina Faith, pronta a consolarmi». Mi abbracciò stretta, come aveva fatto
tempo prima. «Non è vero, piccola?» chiese con voce suadente.
E io mi ritrovai ad annuire, anche se non mi sentivo così
confusa e sapevo che c’era qualcosa che non andava nelle sue parole e nel modo
in cui mi toccava.
Vor dem Bett ein
schwarzes Loch
und hinein fallt
jedes Schaf
bin schon zu alt
und zahl sie doch
denn ich find
keinen Schlaf
Mi sentivo agitata, avevo promesso a Jason di non raccontare
niente di quello che era successo. Lui mi aveva assicurato che era soltanto per
dimostrarmi che mi voleva bene, che era il modo più bello che conosceva.
Ma per me non era stato bello, mi aveva fatto paura.
Perché Jason aveva fatto qualcosa che era andato oltre le
solite cose, oltre il nostro rapporto di sempre.
Una volta, quando ero nella vecchia scuola, una poliziotta
bionda e gentile era venuta a trovarci e aveva spiegato a noi bambini la
differenza tra affetto e violenza.
«Non dovete avere paura della parola violenza, perché
solo se saprete cosa vuol dire, sarete in grado di riconoscerla e difendervi»
aveva detto in tono dolce e pacato.
Le avevamo fatto un sacco di domande ed eravamo tornati a
casa felici e incuriositi, sentendoci tutti più forti. Forse Adam un po’ meno,
ma tutti sapevano che i suoi genitori non erano delle brave persone e che lui
non viveva con loro perché non gli volevano bene.
Io però ero stata davvero felice e avevo raccontato tutto
alla mia famiglia, spiegando ogni singola cosa. mi avevano guardato sbigottiti,
ma alla fine mi avevano ascoltato con interesse. Anche Jason.
Anche lui che adesso mi aveva chiesto di nascondere il
nostro affetto.
«Non è violenza, lui non mi fa del male come diceva quella
poliziotta. Non è violenza» mi ripetevo, guardandomi allo specchio del bagno
per scoprire se c’era qualcosa di diverso in me.
Ero sempre la stessa Faith, sempre la bambina curiosa e
sorridente. Non ero cambiata, quindi quella di Jason non era violenza.
Era affetto. Lui mi voleva bene, era mio fratello.
Il mio fratellino.
Qualche giorno dopo trovai il suo diario aperto sulla
scrivania, mentre lui litigava furiosamente con papà.
Lo stava rimproverando per i brutti voti che stava prendendo
a scuola nell’ultimo periodo, così Jason era dovuto correre fuori dalla nostra
stanza per affrontarlo.
Io mi avvicinai allo scrittoio e trovai quello che sembrava
un normale quaderno; lo sbirciai senza toccarlo, ma ero curiosissima e volevo
sapere cos’era, cosa c’era scritto.
Così avvicinai il viso alle pagine e lessi, sentendomi
sempre più a disagio. Il mio corpo tremava, i miei occhi si appannavano di
lacrime, le mani mi sudavano, il cuore batteva fortissimo.
Me lo chiedeva, di toccarla.
Non parlava, ma il suo corpo era così caldo, e anche le
sue lacrime erano calde, cazzo.
E io ero eccitato.
Forse è così che si è sentito il Reverendo quando mi ha
toccato e mi ha fatto quelle cose. Su internet ho letto che ha voluto una
“sega” da me.
Non voglio pensarci, lui non è bello, puro e delicato
come Faith.
Lei non si lamenta, lei sa che le voglio bene.
Certo che le voglio bene, cazzo, oh sì, voglio bene alla
mia sorellina.
Non pensavo fosse così bella, così soffice, così liscia…
devo dimenticarmi del Reverendo, non sono un frocio.
Certo che non lo sono, io sono un vero uomo.
E lo dimostro anche a Faith, perché lei non deve
dubitarne.
Non voglio deluderla, sono il suo esempio, me lo dice
sempre anche mio padre.
Unterm Nabel im
Geast
wartet schon ein
weisser Traum
Bruderlein komm
halt dich fest
und schuttel mir
das Laub vom Baum
«Non devi dire le parolacce» mormorai, indietreggiando fino
a sbattere contro il letto. «Non devi dire le parolacce, fratellino» ripetei.
Erano le uniche cose che continuavano a volteggiare nella
mia mente, quelle parolacce.
Cazzo, aveva scritto.
«Non devi dire le parolacce» continuai a sussurrare,
rovinando a terra in un lago di lacrime e umiliazione.
«Non devi… dire… le parolacce, Jason, mamma… mamma e papà…
non vogliono…»
«Gioca con me, Faith, sorellina cara.»
«Che gioco vuoi fare?»
«Madre, padre, figlio.»
«E tu chi sei?»
«Il padre.»
«Io allora sono la figlia?»
«No. Tu sei la madre.»
«E il figlio chi è?»
«Ancora non c’è…»
«Non devi dire le parolacce!» strillai, tappandomi le
orecchie per non sentire le grida di papà, di Jason, di papà, e di Jason, di
Jason, di Jason…
«Mi vuole bene, mi vuole bene…»
Respiravo a fatica, era veramente difficile respirare.
Sentivo un forte dolore al petto, alla testa, alle ossa.
Forse stavo per morire, a volte nei film la gente moriva per
dei dolori come quelli.
«Non è violenza» mi dissi. «Lui mi vuole bene.»
Spiel ein Spiel
mit mir
gib mir deine Hand
und
spiel mit mir
ein Spiel
spiel mit mir
ein Spiel
spiel mit mir
weil wir alleine
sind
spiel mit mir
ein Spiel
Vater Mutter Kind
«Jason, tu mi vuoi bene?» chiesi timidamente, rannicchiata sul
bordo del letto. Tremavo, avevo paura e non sapevo neanche perché.
«Certo che te ne voglio, Faith» replicò, afferrandomi per la
mano e strattonandomi verso di sé.
«Allora non farmi male, lasciami…»
«Non ti farò male. Come l’altra volta, ricordi il nostro
gioco?»
Sgranai gli occhi e mi morsi l’interno della guancia. «No,
tu… hai scritto delle bugie nel tuo diario. E non devi dire le parolacce.»
Jason divenne subito nervoso e strinse più forte la mano
intorno alla mia. «Cazzo, lo hai letto?»
«Non devi dire le parolacce!» esplosi, scoppiando a piangere
e tentando di liberarmi dalla sua presa.
Ma lui era più forte, più deciso, lui decideva sempre tutto.
Io piangevo, ma a Jason sembrava non interessare.
«Se non la smetti, non ti voglio più bene» mi minacciò con
cattiveria. Non lo riconoscevo più, non era più il mio Jason.
«N-non… non dire così» gridai disperata.
«E sta’ zitta! Adesso giochiamo, d’accordo?»
E io piansi più forte, mentre tenevo tra le mani la sua,
mentre la mordevo per non gridare, per non piangere, per non chiedere aiuto.
Ma Jason era più grande, più forte, e anche se io gli
imprigionavo una mano, aveva l’altra libera.
Dem Bruderlein
schmerzt die Hand
er dreht sich
wieder an die Wand
Quando Jason mi diede le spalle, la mano gli faceva male.
Rimase a fissare la parete e mi ignorò.
Io ero triste, mi sentivo così sola.
Quando udii la porta di casa aprirsi, corsi giù dal letto e
fuori dalla mia stanza, per poi rifugiarmi tra le braccia di mia madre.
«Faith, tesoro, perché piangi?» mi chiese lei in
apprensione, accarezzandomi i capelli con dolcezza. Dalla sua voce capivo che
era molto stanca dopo il turno in ospedale.
«Jason ha… ha…»
«Cos’ha fatto quel mascalzone stavolta?»
«Lui ha… detto una parolaccia» buttai fuori, sentendomi così
cattiva a mentire a mamma.
Lei mi aveva fatto promettere di dirle sempre la verità, ma non
potevo. Altrimenti lei e papà avrebbero punito Jason e lui mi avrebbe odiato
davvero, per sempre.
«Le parolacce non si dicono, vero mamma?»
«No, tesoro. Domani sgriderò Jason, non le dirà più, te lo
prometto. Adesso…»
Non riuscì a finire di parlare che un fracasso assordante ci
fece spaventare.
Mamma si guardò attorno, era allarmata, forse aveva paura
che ci fosse un ladro.
«Tesoro, resta qui, d’accordo? Vado a controllare, il rumore
veniva dal bagno…»
Senza farmi notare, la seguii in silenzio e quando sbirciai
all’interno del bagno, i miei occhi si riempirono di paura.
«Jason, cos’hai fatto? Ti sei ferito alla mano, oh tesoro,
ma perché…»
Jason piangeva, stringendo a pugno la mano destra. Una
pioggia di vetri rotti e sangue lo circondava, mentre il suo corpo tremava e
veniva scosso dai singhiozzi.
Era colpa mia, era tutta colpa mia. Lo sapevo.
«Fratellino» lo chiamai con un filo di voce.
Intorno a me c’erano un sacco di rumori, urla, parole che
non capivo. Mamma gridava, papà gridava, ma per me esisteva soltanto Jason che
piangeva tanto, stava davvero male.
Ero stata io a farlo soffrire.
«Jason» chiamai più forte, spingendomi verso di lui.
No, non era stata violenza, lui mi voleva bene.
Lo abbracciai in silenzio, e anche lui mi abbracciò.
Lui piangeva e anche io piangevo.
Ci volevamo bene, lo avevo sempre saputo.
Per il bene di Jason, per non farlo piangere e arrabbiare,
non mi lamentai più di quel modo nuovo di dimostrarmi affetto.
Non piansi neanche quando mi faceva un po’ male, perché poi
sapevo che era felice e stava meglio dopo avermi dimostrato il suo affetto.
La poliziotta che era venuta nella mia vecchia scuola non
capiva proprio niente, non conosceva me e Jason.
«Quello che c’è tra noi è speciale» diceva sempre mio
fratello.
Ed era vero, era per questo che non dovevo raccontarlo a
nessuno.
Anche se mi sentivo male, anche se mi sentivo sola, anche se
qualcosa era cambiato tra me e lui.
Ma Jason diceva che era normale perché stavamo crescendo, e
i grandi si dimostrano affetto in maniera diversa dai bambini.
Io non avevo capito niente e lui mi stava insegnando molte
cose.
«Jason, gioca con me.»
«Allora ti piace, eh?»
«Gioca con me.»
«Che gioco vuoi fare?»
«Tu sei il padre e io la madre.»
«E il figlio?»
«Non importa.»
«Faith, sei proprio una bambina cattiva! Perché mi hai
rubato il gelato?» strillò Beth un pomeriggio, mentre eravamo al parco.
«Perché mi va!»
«Cosa ti ho fatto? Noi due siamo amiche.»
Ben, il fratello maggiore di Beth, si avvicinò a noi e ci
guardò con fare severo. «Non litigate, avanti.» Poi si fermò di fronte a me e
mi sorrise. «Vuoi ridare il gelato a Beth?»
«No!» replicai.
«Bernie, perché è così cattiva?» piagnucolò Beth, aggrappandosi
al braccio di suo fratello.
«Lei non…»
Ghignai e sollevai il gelato, per poi lanciarglielo in
faccia. «Prenditi questo cazzo di gelato! E smettila di piangere, solo le
bambine piangono! Io ormai sono grande!»
Ben era senza parole e non sapeva come comportarsi, mentre
sua sorella singhiozzava sempre più forte e cercava di togliersi il gelato
dalla faccia paffuta.
«Faith, ma cosa ti prende?» domandò il ragazzo.
«Io non voglio più essere tua amica, Elizabeth, hai capito?
Per me sei una poppante! Io ormai sono grande e ho un fratello davvero
speciale, che mi dimostra affetto come fanno i grandi! Non è uno stupido come
il tuo!»
Detto questo, mi voltai e me ne andai senza aspettare che mi
rispondessero.
Mi sentivo così fiera di me, anche Jason sarebbe stato orgoglioso
di me quando gliel’avrei detto.
Era stato lui a farmi capire che non potevo fidarmi di
nessuno, nemmeno di Beth, perché lei non poteva capire quello che c’era tra me
e mio fratello.
Jason mi avrebbe premiato con un abbraccio, ne ero sicura.
Non vedevo l’ora di dirglielo.
«Jason?»
«Sì, Faith?»
«Un giorno una poliziotta è venuta nella mia vecchia scuola,
era molto gentile ma era anche tanto stupida. Proprio come Beth e suo
fratello.»
«Perché?»
«Ha detto che dobbiamo capire la differenza tra affetto e
violenza. Ha detto che ci sono dei posti del nostro corpo che nessuno dovrebbe
toccare, solo la mamma quando ci fa il bagno. Ma io il bagno lo faccio da
sola.»
«E tu le hai creduto?»
«Un po’ sì, ma solo un po’. Adesso non ci credo più.»
Jason sospirò bruscamente. «Oh, cazzo…»
«Non devi dire le parolacce, fratellino, me l’hai
promesso.»
«Scusami.»
«Ti perdono.»
«Sì, quella poliziotta era davvero stupida.»
«Quello che mi fai non è violenza, vero?»
«Certo che no, amore mio. È affetto.»
Sorrisi, trattenendomi per non piangere. Ormai avevo
imparato, ero bravissima. Solo i bambini piangono, e io non ero più una
bambina.
«Solo affetto» sussurrai.
* * *
Ringrazio davvero di cuore coloro che sono giunti fin qui,
sperando di non aver esagerato, come accennavo anche nelle note iniziali.
Il personaggio di Faith è nato proprio in mezzo a questo
dramma, probabilmente influenzato dalle tante storie che vengono raccontate
nella serie tv “Law & Order – Unità Vittime Speciali”, che seguo da un sacco
di tempo e che mi fa riflettere su moltissimi argomenti come questo.
Questo è solo il preludio alla sua storia futura, per la
quale ho in mente già delle idee!
Chi di voi è giunto fin qui e mi segue da un po’, avrà forse
riconosciuto i due fratelli Ben&Beth, personaggi che hanno incrociato il
cammino del mio Martin di Martin&Joe. Non vi svelo nulla, ma in futuro ogni
cosa andrà al suo posto :3
Vi invito a lasciare commenti, positivi o negativi che
siano, purché mi diano spunti di riflessione e mi aiutino a capire cosa ho
sbagliato e come poter migliorare.
Passando ad aspetti un po’ più tecnici, ho disseminato
durante la storia varie frasi in corsivo e non, riferite al testo del brano che
vi ho consigliato di ascoltare, canzone dei Rammstein che – insieme a Tier
– mi ha fatto piangere più di una volta quando ho scoperto qual era il tema
trattato. Potete trovare QUI
la traduzione completa del testo, dato che è in tedesco e io stessa ho dovuto
cercarla XD
Ringrazio la mia carissima Gella per aver indetto il contest
e avermi così dato l’opportunità di scrivere questo racconto e creare Faith e
il suo background ^^
Grazie, vi sono già immensamente grata per essere giunti fino
in fondo, non è da tutti e me ne rendo perfettamente conto.
Alla prossima e spero non mi odierete per questo racconto
così drammatico e colmo di sofferenza!
Vi mando un forte abbraccio ♥
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