Pensai di non arrivare in tempo,
ma me lo meritavo: ero io a non essermi svegliato, a non aver preparato la
sveglia la sera prima; a non essere stato abbastanza attento, in poche parole.
Mancava all’incirca mezz’ora all’inizio del concerto, ma per arrivare a piedi,
seppur correndo, ci voleva almeno il doppio del tempo,
e le porte dello stadio non aspettavano di certo me per chiudere. Appena sceso
di casa presi la prima di una lunga serie di
scorciatoie che, probabilmente, conoscevo solo io: vicoli sperduti dal mondo,
buchi negli steccati di alcuni giardini (anche se quelli non erano del tutto
leciti) e balconi da scavalcare. Fortunatamente conoscevo bene il parkour, non per niente i miei compagni, nonché miei
maestri, erano tra i migliori a livello nazionale. Calcolai che con quelle
scorciatoie avrei potuto guadagnare una decina di minuti scarsi, che
probabilmente mi avrebbero permesso l’ingresso allo stadio giusto in tempo. Con
il primo vicolo evitavo un enorme giro inutile del parco pubblico, ma l’entrata
era occupata da due cassonetti dell’immondizia. Ovviamente per me non erano un
problema: presi una piccola rincorsa, saltai quanto più in alto possibile, un
saltello mortale in avanti giusto per fare spettacolo nel caso in cui qualcuno
mi stesse osservando, ed ero nel vicolo, a correre come un forsennato per
scavalcare la grata che chiudeva l’uscita alla strada principale. Per
sorpassarla mi ci volle l’aiuto del muro: col piede destro mi diedi una spinta
verso l’alto per poter raggiungere il culmine della grata, l’afferrai e mi
catapultai dal lato opposto. Purtroppo avevano da poco riverniciato la grata di
un magnifico arancione acceso, così, dopo l’acrobazia, le mie mani risultarono
simili a quelle di un Simpson abbronzato. Ripresi a correre appena toccato terra. Quel giorno era di fine primavera, ma il
caldo era pari ad un giorno di piena estate. Fortunatamente ebbi il buonsenso
di indossare pantaloncini corti e cannottiera. Solo
le scarpe erano da ginnastica, pesanti, ma quelle mi servivano obbligatoriamente,
se non volevo ritrovarmi spiaccicato con la faccia sull’asfalto. Presi la
strada che portava al ponte che univa le due sponde del fiume che divideva
esattamente la città in due zone: noi le chiamavamo zona dello stadio e zona
cittadina. La prima la chiamavamo così perché lo stadio era l’unico nostro punto d’incontro. Poco prima di arrivare al
ponte passai davanti ai due grattacieli che fungevano da “ingresso” allo
stradone principale. La prossima scorciatoia mi evitava una rotonda immensa,
anche se il tempo guadagnato era pari ad un paio di minuti, sempre meglio che
niente. Purtroppo la scorciatoia prevedeva un saltello un po’ pericoloso. Presi
la rincorsa, saltai e mi aggrappai ad un cartellone pubblicitario, uno di
quelli a forma di U rovesciata. Dondolai un po’ e mi lasciai andare verso il
secondo cartellone, cercando di afferrarlo con i piedi. Il pericolo era una
sorta di piramide posta al centro della rotonda, giusto tra i due cartelloni.
Se avessi preso la punta della piramide con la testa non solo
non avrei assistito a quel concerto, ma non mi si sarebbe mai più ripresentata
l’occasione di vederne un altro. Fortunatamente la testa viaggiò ben più in su della piramide, ma non appena toccai il secondo
cartellone il mio cuore si fermò per un millesimo di secondo: l’avevo preso con
la suola della scarpa destra, il che voleva dire che la possibilità di
aggrapparmi era andata a farsi benedire, e di certo una caduta sullo spigolo
della piramide non sarebbe stato molto piacevole. Ma l’istinto di un free runner è un tantino diverso da quello di un uomo che corre
e fa una capriola. Istintivamente non feci alcuna pressione col piede destro,
permettendo alla gamba sinistra di aggrapparsi alla barra del cartellone.
Restai così appeso per una sola gamba, in equilibrio precario, così subito
portai la gamba destra al di sopra della barra del cartellone e feci presa
anche con essa. Dondolando, notai gli sguardi di
alcuni automobilisti che mi guardavano esterrefatti, le donne impaurite, le
bambine e i bambini divertiti e incuriositi. Mentre ero appeso per una sola
gamba mi era sembrato di sentire addirittura un urlo di spavento. Era bello
dare spettacolo, ma non potevo perdere tempo. Dondolai un paio di volte e con
un altro salto mortale atterrai coi piedi per terra e ripresi la mia corsa
sfrenata. Un ingorgo di macchine bloccava la strada, ma senza alcun problema,
con il salto del gatto (ci si lancia col corpo allungato su di un auto, si fa presa con le mani e ci si spinge oltre la
vettura) superai in un battibaleno tutte quelle macchine. Ero quasi arrivato al
ponte, data l’ora potevo ancora farcela in tempo. Arrivato all’inizio del
ponte, notai delle transenne che bloccavano il passaggio. Inizialmente pensavo
che avessero cementato, quindi pensai di poter scavalcare e continuare in
qualsiasi caso. Decisi comunque di avvicinarmi lentamente e vedere cosa fosse
successo. Con frustrazione e collera vidi che era esattamente il contrario di
ciò che avevo pensato. Avevano letteralmente demolito una parte di suolo,
cosicché, se avessi tentato di scavalcare, avrei finito col farmi un bel bagno.
Ma, essendo un free runner, avevo più possibilità di
passare all’altra sponda senza giri immensi. Inizialmente analizzai il salto,
sperando di potercela fare spingendomi quanto più potevo sulle gambe. Capii poi
che era inutile. Analizzai ogni altro appiglio per vedere se potevo scavalcare,
ma pensai che era troppo pericoloso: se fossi caduto
in acqua avrei perso ogni speranza di vedere il concerto, anche se un bel bagno
fresco mi allettava non poco. Analizzai qualche altra possibilità, e quasi
subito trovai il rimedio giusto. Mi avvicinai al corrimano del ponte, ci saltai
su e cominciai a correrci sopra, sperando che il ponte non crollasse.
Probabilmente la fortuna era dalla mia parte quel giorno, perché il ponte non
crollò. E, ripensando anche a quanto c’era mancato ad uno scontro fatale con la
piramide, pensai che dovessi essere davvero fortunato. Ma finora era passato il
tratto più semplice. Nella zona dello stadio c’erano addirittura dei nemici a
cui dovevo sfuggire: nemici veloci e abili, con zanne
taglienti, tanta fame e la rabbia. I cani erano tra i peggiori ostacoli,
anche se, con alcuni accorgimenti, potevano essere facilmente seminati. Dopo il
ponte, tenuto conto delle scorciatoie, la strada per lo stadio era tutta
diritta, lunga, ma diritta. Il ponte era anche
l’ingresso per il parco pubblico della zona dello stadio. A una trentina di
metri c’era il primo ostacolo. Il tronco di un enorme quercia
secolare, caduta solo un paio di giorni prima, che era anche l’albero
più antico e grande di tutta la città. Il suo diametro si avvicinava ai due
metri, ma era una passeggiata superarla. Un semplice salto bastò per lasciarmi
dietro il tronco. Molte persone mi osservavano mentre correvo, e alcune di
loro, la maggior parte giovani, mi prendevano in
giro:”corri che arrivi primo” gridavano, ma io non rispondevo alle loro offese,
anche perché non mi colpivano più di tanto. Correvo imperterrito verso la mia
meta, facendo, durante quel lungo tratto di strada priva di ostacoli, una sorta
di lista delle cose che avrei dovuto portarmi: zaino con panini, coca cola,
birra, aranciata, mortadella, salame, speak,
sottilette, formaggi e acqua; macchina fotografica o videocamera; telefono
cellulare e soldi. Mi sbocciò un sorriso sulle labbra quando mi accorsi di aver
portato solo i soldi e il cellulare. Intanto correvo, e il fiato cominciava a
farsi pesante. Il primo ostacolo si presento sotto forma dell’ingresso
posteriore del parco, che quel giorno era chiuso per problemi di manutenzione.
Nessun problema, sapevo già cosa fare: mi arrampicai su una barra del cancello,
lo percorsi in tutta la sua altezza e mi lanciai all’esterno, compiendo una
capriola quando toccai terra per evitare danni ai piedi, dati i tre metri e
mezzo di altezza da cui mi ero gettato. Continuai la mia corsa per lo stradone
principale, quasi sempre attraversato da numerose macchine, eppure tanto grande
che c’era ancora tantissimo spazio libero dove camminare. Una macchina mi
sfrecciò davanti, quasi mi investì, suonando il clacson per mandarmi a quel
paese. Ma, oltre lo spavento iniziale, non ci prestai molta attenzione. Tra
poco sarebbero arrivati i cani, ed erano quelli il problema più grosso a cui
pensare al momento. Il problema più alto e lungo, invece, arrivava ora. Quella
zona la chiamavamo Indiana Zones, un po’
per prendere in giro il film Indiana Jones,
un po’ perché assomigliava ad un vero e proprio bazar del film di Aladdin. Sembrava di essere in medio oriente: palazzi color sabbia; vicoli stretti
stracolmi di muretti che collegavano le mura di due palazzi vicini; casette di
piccole dimensioni alternati ad alti palazzi. L’unica anomalia era la presenza
di numerosi cumuli di immondizia e alcuni drogati che ne avevano fatto la loro
tana. Per evitare i drogati e l’immondizia, dovevo attraversare il vicoletto
passando di muretto in muretto. Serviva una gran rincorsa per il primo salto.
Partii dall’altro lato della strada, mi fiondai nel vicoletto di fronte e,
aiutandomi con le pareti dei palazzi, salii sul primo muretto di collegamento.
Alcuni ragazzi mi urlarono contro come cani rabbiosi, ma una volta giunto sul
primo muretto non dovevo più preoccuparmene. Ebbi come l’impressione che il
telefono stesse volando via dalla tasca, così mi portai subito la mano alla
gamba per controllare, ma solo per ricordarmi che le tasche avevano le
cerniere. Non persi tempo a controllare l’altra tasca, quella in cui avevo i
soldi, ma mi precipitai verso il secondo muretto. Quando fui salito sul secondo
muretto controllai l’orologio: mancavano ancora venti minuti, ed io ero ancora
troppo lontano. Ora arrivava la parte più difficile e pericolosa della scalata
dell’Indiana Zones. Il terzo muretto era troppo
distante per poterci arrivare con un semplice salto. Dovevo camminare sulla
parete, almeno quattro o cinque passi, saltare sul palazzo opposto, non più
distante di un metro e mezzo, e aggrapparmi al davanzale della finestra che mi
trovavo di fronte. L’ avrò fatto si e no almeno
quattro volte, ma la paura delle mani sudate, di scivolare durante la
traversata, di cadere e rompermi qualcosa di importante era molta. Presi
coraggio, un respiro profondo e mi lanciai sul muro. Il primo passo era quello
più importante, perché stabiliva l’aderenza, la velocità e la distanza del
secondo passo. Spinsi il piede destro in lungo con molta forza e appoggiai il
piede sinistro sul muro. Lo stesso feci col terzo ed
il quarto passo, facendo ben attenzione a non incrociare le gambe e rischiare
una brutta caduta. Appoggiando il quinto passo, col piede destro, il cuore mi
si fermò in petto per un lunghissimo istante. Sentivo l’adrenalina scorrermi
nelle vene, il sudore bagnarmi il viso e l’acido lattico che cominciava a
prodursi nei muscoli delle gambe. Il quinto passo era essenziale. Una volta
aderito per bene al muro, mi piegai verso il muro quanto più potevo,
preparandomi a spiccare il balzo dal lato opposto. Sentì le mani sudate, e
questo mi fece una grande paura, quanta non avevo mai provato in vita mia. Una
volta raggiunto il massimo della carica, mi spinsi con tutta la forza verso
l’altro palazzo, verso i davanzale che mi avrebbe
salvato la vita. In quell’istante in cui il mio cuore era fermo ed io non avevo
che aria intorno a me, una voce si rivolse alla mia famiglia, dicendo che le volevo
bene, e ciò mi fece ancora più paura. Ma quando col piede toccai il palazzo e
le mie mani fecero presa sul davanzale, il cuore riprese a battere così
improvvisamente che quasi mi spaventai, sentii una felicità immensa per non
essere morto, e ringraziai le mie mani per non essere scivolate nonostante il
sudore. Ma non potevo perdere tempo, così, quasi immediatamente lasciai il
davanzale con la mano destra e con essa mi aggrappai al terzo muretto. Appena la
presa fu salda, mi portai al centro del vicolo e, facendo ben attenzione che
nessuno mi stesse tra i piedi, mi lasciai andare e caddi sull’asfalto della
strada dal lato opposto del vicoletto. Alcuni drogati ricominciarono a gridarmi
contro, ma io ritornai a correre vero lo stadio senza badarvi. Tutto sommato
non ero proprio così lontano, l’unico problema erano i cani e il resto degli
ostacoli. Ritornai sulla strada principale, questo tratto era completamente
deserto, d’altronde non portava in nessun posto particolare. Entrai in un
piccolo giardinetto al di là della strada, scavalcai qualche siepe, alcune
panchine e mi ritrovai di nuovo sulla strada principale. Attraversai per
l’ennesima volta e mi diressi verso il groviglio di palazzi che avevo di
fronte, ed eccoli lì, come ad attendermi da chissà quanto tempo, che mi
guardavano con gli occhi iniettati di sangue e a bava alla bocca: i cani
affamati e rabbiosi erano a protezione di un vicolo, e proprio quel giorno
dovevano badare a quello in cui dovevo passare io. Pensando a come distrarli,
inciampai in un pezzo di legno e mi venne un’idea. Lo raccolsi e cominciai a
camminare questa volta, in direzione dei cani sempre più vicini, quei cani che
mi guardavano fisso eppure non si muovevano. Sembrava che stessero aspettando
che io mi avvicinassi per chissà quale ragione. Cominciai a giocherellare col
bastone di legno, pensando se fosse meglio usarlo per respingere un eventuale
attacco o lanciarlo nella speranza che quegli stupidi cani gli corressero
dietro: optai per la prima scelta, la più sensata e di certo la più probabile.
Il problema era che io amavo gli animali, e non mi sarei mai sognato di
pestarne qualcuno: l’unica colpa nei loro confronti era l’assassinio di un
centinaio di formiche, una miriade di zanzare e due o tre mosche, ma chi non
aveva mai ucciso un insetto in vita sua? Persino Padre Pio avrà schiacciato
qualche zanzara che gli dava il tormento. Mi feci coraggio e mi avvicinai a
passo più deciso. Ormai erano vicinissimi, eppure non un solo accenno di
attacco, ed ora che ero più vicino notavo che i loro sguardi non erano
famelici, bensì tristi e abbattuti. E quando fui troppo vicino, mi resi conto
che non avevano a minima intenzione di attaccarmi, oppure non ne avevano le
forze. Erano tre cani, due labrador e un pastore tedesco. Abbandonai il bastone,
rallentai il passo, dimenticandomi momentaneamente del mio obiettivo. In testa
avevo solo i volti tristi e affamati dei cani. D’un tratto ebbi un lampo di
follia: mi controllai nella tasca dove avevo messo i soldi, li presi e li
contai. Erano più del doppio del biglietto d’ingresso, levando i soldi per una
birra e un panino, mi restavano abbastanza soldi per…..
D’un tratto mi fermai, mi guardai intorno e vidi ciò che cercavo: una
macelleria. In un impeto di pensa e compassione, i
avvicinai al negozio, chiesi tre fette di carne, pagai, e ritornai dai cani.
Vedendomi con le fette di carne più grosse, e forse le uniche, che avessero mai
visto, i cani saltarono in piedi e cominciarono a scodinzolare, capendo
immediatamente le mie intenzioni. Presi la prima fetta di carne e la lanciai in
direzione del pastore tedesco (per quanto amante degli animali, preferivo non
avvicinarmi per precauzione), che la afferrò al volo, se la portò in un
angolino del vicolo e cominciò a mangiarla. I due labrador diedero una veloce
occhiata al loro compagno, poi riportarono la loro attenzione su di me, o
meglio, sulle due fette di carne rimanenti. Presi entrambe le fette e le
lanciai contemporaneamente, in direzioni opposte. I cani seguirono le fette di
carne, le presero da terra e andarono entrambi vicino al pastore tedesco,
scodinzolando, felici di aver ricevuto un pranzo quantomeno decente. Sapevo che
quelle fette di carne non sarebbero bastate, ma non potevo fare di più. D’un
tratto mi ricordai improvvisamente del concerto, guardai l’orologio: mancavano
solo dieci minuti. Potevo farcela, ma avrei dovuto correre, saltare e ancora
correre. Mi fiondai nel vicolo, passando di fianco ai cani, che non mi
degnarono neanche di uno sguardo. Verso la fine del vicolo, un balconcino di
una casa a pianterreno del palazzo occupava il passaggio. Osservando che non ci
fosse nessuno, saltai verso la ringhiera, entrai nel balconcino, il tempo di
poggiare i piedi per terra che ero di nuovo in aria, e in meno di cinque
secondi fui fuori dal vicolo. Il posto oltre il vicolo era una zona di uffici e
aziende, colma di palazzi, giardinetti, panchine, fontane e giovani che
andavano sui pattini. Poco dopo il vicolo c’era una grande fontana in funzione.
Preso dal caldo mi levai al volo la maglia, mi fiondai nella fontana, con
l’acqua gelida che mi investì completamente ed improvvisamente, la gente che mi
guardava stupita e divertita. Uscito dalla fontana per poco non scivolai,
provocando una sonora risata di molti presenti. Fregandomene altamente del
giudizio altrui, mi arrotolai la maglia alla vita e ritornai a correre. Il
fiatone si faceva pesante, ma l’acqua fresca sulla pelle alleviava la
sofferenza dovuta dall’eccessivo caldo. Durante la mia corsa mi ritrovai a
scavalcare panchine, aiuole, e persino persone sedute sulle panchine. Dovetti
scavalcare numerosi muri di divisione tra una zona e l’altra, e molto spesso
dall’altra parte mi aspettavano lunghe rampe di scale interrate che
minacciavano di farmi prendere botte pesanti. Mi ci vollero sette minuti per percorrere
tutta la zona degli uffici. Appena fuori dal centro direzionale (così la gente
chiamava quel posto) intravidi lo stadio: grande, aperto, tutto di pietra e
gremito di persone in fila, di macchine parcheggiate e sorveglianti in divisa
blu a spasso con i loro cani da guardia. Vista la fila per entrare, mi presi
qualche secondo di pausa per analizzare il percorso per arrivare allo stadio
attraverso le macchine, ma non c’era molto su cui riflettere: girare in tondo
occupava troppo tempo, e inoltre i miei compagni stavano quasi per entrare,
intravidi l’enorme zaino rosso acceso di Paolo e i numerosi elmetti
porta-birre. Non mi restava altra soluzione. Salii sulla prima macchina, una
Ford Mondeo, e cominciai una piccola traversata, calpestando delicatamente i
cofani di Peugeot, Fiat, qualche Porsche e una Lamborghini blu elettrico.
Fortunatamente nessuno mi notò, così quando toccai di nuovo terra, a pochi
metri dalla fila quasi conclusa, nessuno mi guardò storto. Alcuni miei compagni
si voltarono e mi guardarono, mi fecero cenno di raggiungerli e così feci.
Il concerto fu strepitoso, il più
divertente che avessi mai visto: c’erano cartelli di tutti i tipi, scoprii di
avere in tasca una somma maggiore di quella che avevo contato, così potei
comprarmi due panini, una birra e una red bull. I panini erano mediocri, ma la birra era ottima.
Paolo, Carmine, Sara e Laura avevano portato videocamere e fotocamere,
Gianluca, Domenico, Antonio e Chiara si erano occupati di panini e bevande, il
resto ognuno per se. Io fui l’unico a non aver portato niente, ma non mi trovai
per niente in difficoltà. Tornando a casa, passai nuovamente per il vicolo dove
avevo dato le fette di carne ai cani, che però non c’erano più. Quando tornai a
casa, mi infilai sotto la doccia, con acqua fresca, e mi insaponai per bene.
Uscito dalla doccia si espanse per la casa un odore forte di pino. Non appena
mi fui vestito (in estate indossavo solo un paio di pantaloncini), sentii un
rumore continuo, simile al guaito di un cane, provenire dall’ingresso. Subito
insieme ad esso si unì il rumore di qualcuno o qualcosa che grattava
incostantemente la porta. Spaventato mi avvicinai alla porta, guardai dallo
spioncino ma non vidi nessuno. Il guaito era appena fuori dalla porta. Decisi
di lasciar perdere, così presi un succo di frutta dalla cucina e mi stesi su
divano, con l’intenzione di vedere un po’ di tv. Il guaito però diventava
sempre più insistente. Posai il succo sul tavolino di fronte al divano e andai
alla porta, prendendo la mazza da baseball di mio padre. Lentamente toccai la
maniglia, la abbassai lentamente, facendo attenzione a non fare rumore, poi
aprì di scatto, per avere l’effetto sorpresa. Inizialmente non vidi nessuno,
poi sentì qualcosa strusciarmi contro i piedi. Abbassai lo sguardo: erano i due
labrador e il pastore tedesco a cui avevo dato da mangiare poco prima, mi
avevano seguito fino a casa. Commosso, aspettai che entrassero tutti e tre, incurante della sporcizia che portarono in casa, e richiusi
la porta. Ma, viste le impronte di terreno che lasciavano, decisi
immediatamente di lavarli. Li portai in bagno, aprì l’acqua, portandola a
temperatura normale, e riempii un po’ la vasca. Non sapendo cosa aggiungere,
decisi di fare un mix di shampoo e bagnoschiuma, il cui risultato fu una montagna
di bollicine. I cani non attesero alcun tipo di ordine e, attratti dalle
bollicine, saltarono uno alla volta nella vasca, che era abbastanza grande da
accoglierne due, ma tre erano troppi, così finirono
per allagare il bagno e anche me. Mi divertii un sacco a lavarli per bene,
sporcandomi a più non posso. Il problema, dopo essermi rifatto un’altra doccia,
era asciugare tutto prima che arrivassero i miei: erano le 24:45, mancavano due
ore all’arrivo dei miei genitori. Le faccende, nonostante il disturbo di Lilly, Lucky e Max
(rispettivamente i nomi che diedi al labrador femmina,
al labrador maschio e al pastore tedesco), furono concluse in un’ora, così ebbi
tutto il tempo di addormentarmi, per terra in camera mia, avvolto dai cani.
Quando mi svegliai il giorno dopo
i cani non erano con me, e mi spaventai. Corsi in cucina e vidi Lilly, Lucky e Max che
osservavano mia madre mentre cucinava: i miei avevano deciso di tenerli, e da
allora non fui più solo in casa.