Neve
e caffè
Quando
aveva deciso di trasferirsi in un paese di montagna lo aveva fatto a
cuor leggero, pensando alla neve come ad un manto candido, una
carezza gentile che annunciava il passaggio dell'inverno e imbiancava
i tetti e gli alberi; un'idea un po' infantile, di cui erano stati
complici certamente tutti quei film natalizi che aveva visto da
bambina, quelli in cui c'è sempre il miracolo di Natale, le
famiglie si riappacificano, i vecchi amori rinascono come nuovi e
tutte le disgrazie del mondo sembrano un po' più lontane con
l'avvicinarsi del nuovo anno.
Crescendo,
aveva smesso di credere nei miracoli, come i bambini fanno con Babbo
Natale, ma la neve continuava ad immaginarla così, un'amica
composta e timida che si presentava puntuale per le feste, giusto il
tempo di bere insieme una tazza di caffè o di cioccolata calda
e poi via, lasciava il posto ai fiori e al tepore della primavera.
Peccato
che le era bastata una settimana nella sua nuova realtà per
rendersi conto che, se proprio era necessario un paragone, la neve
poteva essere al massimo la matrigna di Biancaneve.
L'immagine
graziosa di un paese addormentato sotto una coperta di fiocchi di
ghiaccio non aveva retto lo scontro con la realtà: fare i
conti con tutti quei piccoli ritardi quotidiani, quelle seccature di
più o meno conto che si accumulavano mentre la vita deve
andare avanti, non era come se l'era aspettato.
Qualcuno
avrebbe detto che era una romantica, sua madre sicuramente le avrebbe
rinfacciato il suo voler vivere a tutti i costi in una favola,
"Dovrai pur crescere prima o poi" amava ripeterle; lei
preferiva pensare che la realtà toglie la magia ad ogni cosa.
Da
adulti, la vita diventa un'eterna rincorsa di un tempo che fugge e
sembra non bastare mai; si vive su un treno sempre in corsa, mentre
paesaggi tutti uguali scorrono come macchie sfocate lungo i
finestrini, finchè non ci si stanca di guardarne i contorni
confusi e si dà un'occhiata al resto dello scompartimento:
affollato di persone vestite tutte uguali, tutte rispettabili nei
loro cappotti e sotto i cappelli, le borse delle signore poggiate
sulle gambe o sui sedili, abbandonate, mentre le loro proprietarie
emettono un tubare senza sosta che sa di caffè amaro e vecchi
rancori.
La
verità è che lei non vuole diventare una di quelle
vecchie signore, non vuole sedere in un vagone strapieno a fissare i
contorni di paesaggi grigi e tristi; vuole viaggiare su una
locomotiva a vapore, magari, perchè no?, l'Oriental express, e
sedere in un vagone vuoto a fissare fuori da un finestrino semiaperto
le campagne e le valli fiorite, sentirsi la protagonista di un
romanzo d'altritempi che sa che ad aspettarla in stazione troverà
la sua avventura.
Strofinandosi
le mani, ghiacciate nonostante i guanti che le aveva regalato sua
sorella il giorno del trasloco, entra in uno di quei cafè che
sembrano fuori dal tempo, con i tavoli consumati dalle troppe passate
di straccio e i soliti quattro avventori affezionati, con l'aria da
sessantottini che non vogliono ammettere a se stessi di essersi
arresi allo scorrere degli anni.
Si
siede al tavolino più lontano possibile dalla porta, ma la
stufetta accesa in fondo alla stanza non è comunque
sufficiente a riscaldarla, perlomeno non quando gli spifferi gelidi
entrano da sotto lo stipite della finestra a cui è appoggiata,
gli occhi un po' sognanti mentre guarda la neve che ha ripreso a
scendere lenta, pigra, come si addice ad un immobile martedì
di dicembre.
Prende
tre bustine e lascia che lo zucchero scivoli come una cascata di
diamanti minuscoli nel caffè.
Forse
non è la realtà a togliere la magia al mondo, si dice
mentre il dolce amaro del caffè le scalda la gola, forse siamo
noi a dimenticare che esiste.
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