Kyoto,
1865
Prologo I
Nell'aria
primaverile si mescolò un soffio freddo, quella vaga ma
reale
presenza di pericolo che il samurai conosce istintivamente. Come
l'ombra di un aggressore oltre l'angolo.
Di
ombre il sole
ne proiettava tante, quella mattina: pezze d'innocua frescura
sull'erba del giardino e sul legno dell'engawa. Sulle prime Kenshin
rimase interdetto – con gli anni era diventato naturale, per
lui,
associare la casa alla sicurezza e più difficile tendere
l'orecchio
oltre, per riconoscere un passo furtivo. Anche se non avrebbe mai
scordato l'amaro sapore di una premonizione.
Distolse
lo
sguardo dal libro dei conti per posarlo sul portone, ancora
spalancato. La strada al di là era deserta.
Shinta
e alcuni
amichetti attraversarono di corsa il giardino, schiamazzando.
Dall'altro lato della casa provenne la voce di Kaoru che congedava
gli allievi dall'ultima lezione; ridevano, rilassati. Li
salutò
anche la voce di Inoi, che poi comparve oltre l'angolo della palestra
col suo bel kimono rosso.
Kenshin
rimase in
ascolto, teso. Niente.
Forse
era stata
un'impressione.
Un
venticello
sfogliò le pagine del libro mastro. Quando fu sul punto di
rilassarsi, udì quei passi.
Oh,
erano
familiari e non troppo graditi. La loro cadenza dinoccolata gli
faceva pensare sempre a cattive notizie e di riflesso quindi si
alzò,
corrugando la fronte. Una visita di (s)cortesia? Oppure qualche nuovo
guaio, qualche nuova congiura, qualche–
Quando
l'alta
sagoma di Saito comparve nel vano del portone, proiettando un'ombra
lupina sul sentiero, Kenshin trattenne il respiro. L'ispettore teneva
fra le braccia Kenji, pallido e privo di sensi.
Kenshin
lasciò
cadere tutto e si precipitò da loro.