I
cannot separate from this anxiety
Sono in studio
insieme ai ragazzi dei Mr. Bungle, quando il monumentale telefono
cellulare che
ho da poco acquistato squilla.
Non lo uso spesso,
però è comodo perché mi permette di
comunicare con i miei colleghi e
collaboratori anche quando non sono in casa.
Ho dato il numero a
pochi amici fidati, quindi rispondo senza pormi troppi problemi,
approfittando
della breve pausa che ci siamo presi tra una sessione di registrazione
e l’altra.
Premo il pulsante per
avviare la chiamata e mi porto l’ingombrante oggetto
all’orecchio. «Patton»
rispondo.
«Sono Bill. Dove
sei?»
Aggrotto la fronte:
sembra leggermente allarmato, ma non vorrei fraintendere,
così mi limito a
sbuffare. «In studio con i Bungle, lo sai.»
«È successo un
casino.» La sua voce si incrina, ora ne sono sicuro.
Sento il cuore
perdere un battito. «Che casino?» chiedo.
Trevor, appena
rientrato nella stanza, intercetta il mio sguardo e rimane a osservarmi
con
espressione perplessa.
«Roddy. Mike, stiamo
andando al pronto soccorso.»
«A far che?» domando,
non trovando altre parole da pronunciare.
Trevor mi si accosta
leggermente
e mi posa una mano sulla spalla, continuando a fissarmi interrogativo.
Non ascolto
neanche la replica di Bill e lo interrompo
bruscamente: «Dove?»
«Eh?»
«In
che cazzo di ospedale state andando?»
Il bassista
sospira pesantemente prima di comunicarmi la
destinazione.
«Ci
vediamo lì» concludo, chiudendo con foga la
telefonata.
Mi lascio
cadere sul divanetto poco distante e mi prendo la testa
tra le mani, cercando di respirare il più lentamente
possibile. Eppure il cuore
batte all’impazzata, la stanza gira tutta attorno a me e il
mio corpo è
improvvisamente debole e intorpidito.
Che cazzo mi
sta succedendo?
Non so nemmeno
cos’è capitato a Roddy, avrei dovuto ascoltare
meglio
le parole di Bill. Frugo nella mia mente alla ricerca di qualche
ricordo, di
una parola chiave, ma l’unica che rimbomba nel mio cervello
è casino.
«Mike?
Ci sei, amico?»
La voce di
Trevor mi riporta alla realtà e mi ricordo che è
insieme a me. Si è avvicinato e tiene ancora una mano sulla
mia spalla; si
china a osservarmi e posso notare tutta l’apprensione e la
preoccupazione
dipingersi sul suo viso dai tratti dolci.
«Sei
pallido. Che succede?» chiede.
«È
successo un casino» farfuglio.
«Questo
lo avevo intuito. A chi?»
«Non
lo so. Mi ha chiamato Bill, ha nominato Roddy, poi non ho
più
ascoltato.»
Trevor sospira
e si siede vicino a me, circondandomi le spalle con
un braccio. «Adesso cerchiamo di ragionare.»
«Stanno
andando al pronto soccorso…»
«Okay,
okay, vediamo…» Il mio amico si agita appena,
passandosi
una mano tra le ciocche mosse. Poi indica il cellulare che ancora
stringo in
mano. «Me lo presti?»
«A
che ti serve?»
«Richiamo
Bill e ci parlo. Mi faccio spiegare meglio» afferma.
Gli porgo
l’oggetto e inclino il capo all’indietro,
socchiudendo
gli occhi e tentando di regolarizzare invano il respiro. Forse ho un
attacco di
panico, forse l’ansia mi sta stordendo, ma non so neanche io
come mai sto così
di merda.
Ascolto
distrattamente Trevor parlare con Bill, ma drizzo le
orecchie poco dopo.
«Come
sarebbe a dire lo hanno ammazzato di botte?»
esplode.
«Ma che pezzi di merda!»
Non ho neanche
il coraggio di chiedere a chi si riferiscono, anche
perché un’orribile sensazione si sta facendo
sempre più largo dentro me e sto
tentando in tutti i modi di soffocarla per non soffocare io stesso
nell’angoscia.
«È
ridotto male?» prosegue Trevor. Poco dopo lo vedo annuire e
aggrottare la fronte. «Capito. Mike è in panico,
credo. Senti, forse è meglio
se lo accompagno a casa…»
«Non
dire stronzate!» sbotto con rabbia.
Lui si volta a
fissarmi, palesemente in apprensione nei miei
confronti. «Credimi, sarebbe meglio
così» mi suggerisce.
«Non
esiste.» Quelle due parole escono fredde, categoriche,
affilate dalle mie labbra.
E Trevor se ne
accorge, mi conosce troppo bene. «Bill, stiamo
arrivando» conclude, poi mi restituisce il cellulare e si
alza. «Prendi le tue
cose, io vado ad avvisare gli altri.»
«Tu
non resti qui?» lo apostrofo.
«Non
ti lascio solo» afferma con ovvietà.
Esce dalla
stanza prima che possa ringraziarlo, ma con Trevor non
servono parole. Io e lui ci capiamo con un solo sguardo, a volte anche
con la
forza del pensiero, per quanto possa suonare strano e bizzarro.
Mi tiro in
piedi a fatica e vengo colto da un capogiro. Avrei
decisamente bisogno di un caffè per calmare i nervi, ma
dovrò aspettare di
arrivare in ospedale.
Seduto dal lato
del passeggero, guardo fuori dal finestrino e non
riesco a calmare il battito del cuore.
Trevor guida il
suo pick-up e non fa che imprecare contro qualunque
automobilista rincoglionito intralci la sua avanzata; il mio amico
è un tipo
tendenzialmente calmo, ma quando è al volante si trasforma
letteralmente in un
camionista incazzato.
In genere mi
diverto a stare in auto con lui, mi fa morire dal
ridere, ma stavolta sono distratto da qualcos’altro.
Ci sono
emozioni dentro me che non riesco a categorizzare e questo
mi fa totalmente impazzire. Non sono uno che soffre d’ansia,
anche se mi fa
innervosire non avere sempre la situazione sotto controllo; ora invece
sto
malissimo, mi sento a disagio e non faccio che agitarmi e sobbalzare
per ogni
minimo rumore improvviso.
So che Trevor
mi tiene d’occhio nonostante sia concentrato sulla
strada, penso sia molto preoccupato per me; a volte è fin
troppo apprensivo, ma
non gliene posso fare una colpa: lui è fatto così
e io lo accetto, proprio come
lui accetta me in ogni caso.
Non so neanche
a cosa sto pensando, dove va la mia mente. Mi sento
vuoto e pieno allo stesso tempo, è una sensazione
bruttissima.
Morirà?
Rimarrà
ferito gravemente?
Starà
bene?
Frasi sconnesse
si susseguono e mi trapanano il cervello, lo soffocano
e lo rendono inservibile.
Mi scoppia la
testa, ecco qual è il problema. Mi premo le mani
sulle tempie e il respiro accelera di nuovo.
«Levati
dal cazzo, idiota! Perché non guidi quella fottuta auto
anziché guardare il cellulare, stronzo?!» esplode
Trevor, attaccandosi al
clacson e sorpassando con uno scatto un’auto bianca.
La sua voce
è fin troppo alta, mi dà più fastidio
di quanto
vorrei. Eppure non riesco neanche a dirglielo, ho la gola serrata e
comincio a
sudare freddo.
E se
muore?
E se
muoiono tutti?
Mi lascio
sfuggire un rantolo e appoggio la fronte al finestrino,
sentendomi un pochino meglio al contatto con il vetro freddo. Inspiro
ed espiro
forte un paio di volte, massaggiandomi il collo teso.
«Siamo
quasi arrivati» annuncia il mio amico. «Se questo
pezzo di
merda si dà una mossa! Ehi, bello, non è una
processione!» sbraita.
Mi sfugge
perfino un sorriso, non ci capisco più niente.
Ho decisamente
bisogno di un caffè. Questa potrebbe anche essere
una crisi d’astinenza, non lo nego: so di consumare tanta
caffeina e non
intendo neanche darci un taglio.
È
uno dei pochi vizi che ho e me lo tengo stretto. È
così e basta.
Eppure
c’è qualcos’altro che mi infastidisce,
mi assilla, mi
tormenta.
Roddy.
Roddy. Roddy.
Improvvisamente
il nome del tastierista riecheggia nella mia
mente.
E se
lo perdessi?
Considerando il
fatto che stiamo nella stessa band da più di sei
anni, non saprei come fare. I Faith No More hanno già
cambiato il chitarrista
una volta e il cantante in più occasioni, non può
succedere che anche il
tastierista se ne vada.
E
perché poi? Per una stupida rissa?
Non
morirà.
Non se
ne andrà.
Non mi
lascerà.
Sbatto le
palpebre e vorrei sbattere la testa contro il finestrino
fino a spaccarmela. Che razza di pensieri sto formulando?
Lui
è un collega come tutti gli altri.
Se non facesse
più parte della band, potremmo rimpiazzarlo come
abbiamo fatto con Jim. Non sarebbe un problema, ce la caveremmo in ogni
caso.
I Faith No More
non hanno mai avuto difficoltà ad adattarsi a
nuovi musicisti: io sono solo uno dei tanti cantanti che ci sono stati
e che ci
saranno, Jim è stato solo uno dei tanti chitarristi, quindi
Roddy potrebbe
essere uno degli infiniti tastieristi.
Tutti siamo
utili, nessuno è indispensabile.
Chi
cazzo ci crede?
Io ci credo.
Devo crederci perché è così.
A malapena mi
accorgo che l’auto si è fermata, mi riscuoto
soltanto quando Trevor mi sfiora la spalla per attirare la mia
attenzione.
«Eh?»
«Vuoi
scendere o no?» mi interroga il mio amico.
Annuisco e mi
catapulto fuori dall’abitacolo, inspirando a fondo
l’aria frizzante. Non so che ore sono, ma probabilmente la
mezzanotte è passata
da un pezzo, visto il silenzio quasi completo che ci avvolge. I motori
delle
auto sono lontani, solo qualche clacson si fa sentire e sfuma nei
meandri di
San Francisco.
E io sono
più agitato di prima.
«Trev,
ho bisogno di un caffè.»
Mentre
sorseggio la pessima brodaglia a base di caffeina che ho
appena estratto dal distributore automatico, Trevor prende la parola.
«Bill
ha detto di salire in ortopedia» mi informa, restituendomi
il cellulare dopo aver nuovamente telefonato al bassista dei Faith No
More.
Annuisco e
continuo a bere. Questa roba fa schifo, è vero, ma
l’effetto della caffeina è praticamente immediato
e mi dona un minimo di
conforto. Eppure non mi rilassa del tutto, stavolta è
diverso.
Ci dirigiamo
verso l’ascensore e io non so se riuscirò ad
affrontare il viaggio chiuso in quella cabina claustrofobica, viste le
mie
condizioni attuali.
«E se
prendessimo le scale?» propongo.
«Ortopedia
è all’undicesimo piano. Hai voglia di fare
ginnastica
alle due del mattino?» replica scettico, schiacciando il
pulsante di chiamata.
Evito di
commentare e tento di concentrarmi: devo soltanto entrare
nel box, aspettare un minuto al massimo e poi sarò
nuovamente libero. Non ho
mai sofferto di claustrofobia e gli ascensori non mi hanno mai dato
problemi,
perché cazzo adesso mi spaventa così tanto
metterci piede?
E se
rimanessimo bloccati là dentro e nel frattempo Roddy morisse?
Quel pensiero
mi schiaffeggia con prepotenza e il bicchiere in
polistirolo mi scivola di mano, schiantandosi a terra. Lo osservo come
se lo
vedessi per la prima volta e scuoto il capo.
«Tanto
era vuoto» borbotto. «E faceva pure cagare,
‘fanculo.»
«Andiamo»
mi incoraggia Trevor, precedendomi all’interno della
cabina metallica non appena le porte scorrevoli si aprono.
Lo seguo e mi
appoggio con la schiena a una delle pareti,
infilando le mani in tasca per placarne il tremore.
Mi sento un
totale idiota, sono sempre più confuso e riesco a
malapena a reggermi in piedi. Non è decisamente da me.
Il mio amico mi
osserva con la coda dell’occhio, forse teme che io
possa reagire in malo modo se mi fissasse insistentemente.
«Quando
arriviamo?» sbotto all’improvviso.
«Un
attimo e ci siamo» mi rassicura Trevor, rivolgendomi un breve
sorriso. «Sei agitatissimo. Rilassati un
po’.»
«Ci
sto provando.»
«Sono
sicuro che andrà tutto bene e che non è successo
niente di
grave.»
Annuisco, anche
se non ne sono per niente convinto. Più il tempo
passa, più gli scenari all’interno della mia mente
si fanno apocalittici e
sanguinari.
Non appena le
porte si spalancano, mi butto letteralmente
all’esterno e tiro un enorme sospiro di sollievo.
«Stavo soffocando, cazzo»
bofonchio.
«Da
questa parte, vieni.» Trevor mi tocca appena il braccio e mi
fa strada lungo il corridoio.
Lo seguo senza
neanche guardarmi attorno, sono talmente agitato
che vorrei mettermi a correre, a urlare e a fare il pazzo come faccio
sempre
sul palco.
Anche se
l’ospedale non è il luogo adatto.
Anche se non
servirebbe a un cazzo.
Anche se mi
butterebbero fuori a calci e non potrei vedere come
sta.
E se
fosse già morto?
Ancora un
numero di passi indefinito e mi ritrovo faccia a faccia
con Puffy.
Ci fissiamo in
silenzio: lui è stravolto, io devo avere più o
meno
lo stesso aspetto.
Bill prende
Trevor da parte e si allontanano di qualche metro per
confabulare tra loro. Discorsi da bassisti, probabilmente.
«Vieni,
sediamoci» dice Puffy con un filo di voce.
Ci sistemiamo
su un paio di sedie addossate alla parete del
corridoio bianco e silenzioso, ma io non riesco a rilassarmi e rimango
rigido
sul posto: spalle tese, busto eretto, occhi spalancati e fissi di
fronte a me.
«Hai
un aspetto orribile. Forse non saresti dovuto venire.»
Scuoto piano la
testa. «Voglio sapere.»
Il batterista
sospira e prende uno dei suoi dreadlocks tra le
dita, tormentandolo mentre si schiarisce la gola. «Siamo
usciti. Io, Roddy e
Billy, come ai vecchi tempi. Roddy ha insistito per andare in un
locale, non so
neanche perché ci tenesse tanto. Insomma, ci siamo andati e
a un certo punto un
tizio ha attaccato bottone. Lui e Roddy hanno cominciato a discutere e
poi se
le sono date di brutto.»
Deglutisco, ma
ho la gola talmente secca che risulta quasi
doloroso.
«Il
tipo era grosso e stronzo. L’ha pestato e i suoi amici hanno
tenuto occupati noi. Non so neanche perché, non ho capito
niente!»
«Non
c’era qualcuno della sicurezza?» chiedo in un
rantolo.
«Secondo
me erano tutti d’accordo. Non so come, ma siamo riusciti
ad andarcene. L’hanno quasi ammazzato, Mike.» Puffy
sospira pesantemente e si
passa le mani sul viso. «Porca puttana!»
«Come
sta?» domando in tono piatto.
«Non
lo so. Lo stanno medicando, ha pure perso sangue da qualche
parte. Forse ha qualcosa di rotto… lo sa Bill, ha parlato
con i medici.» Ormai
la sua voce è sempre più incrinata e la
disperazione la fa da padrona.
È
davvero strano vederlo tanto provato, ma allo stesso tempo non
lo è: posso capirlo perfettamente.
«Quindi
è vivo.» La mia non è una domanda, ma
una constatazione –
ho troppa paura di porlo come un interrogativo.
«Certo
che è vivo!» salta su Puffy. «Ha
rischiato grosso, ma è
vivo, cazzo.»
«Okay.»
E se
morisse per qualche complicazione?
E se
una costola rotta gli avesse perforato qualche organo
interno?
Scuoto la testa
e mi copro la faccia con le mani. Sto decisamente
esagerando, devo darmi una calmata. La verità è
che sono completamente
terrorizzato e ancora non riesco a credere che sia andato tutto bene.
Mi alzo e,
barcollando appena, faccio qualche passo fino a raggiungere
Bill e Trevor.
«Patton»
mi saluta il primo, dandomi una pacca sulla spalla.
«Ve
l’hanno fatto vedere?»
Bill scuote il
capo. «Col cazzo. Gliel’ho chiesto un paio di
volte, ma niente da fare.»
«Cosa
volevano quei tizi da lui?» Infilo le mani nelle tasche dei
pantaloni e ostento una tranquillità che non mi appartiene
affatto.
«Hanno
saputo che è gay, qualcosa del genere. E lo sai
com’è
Roddy: non sa tenere la bocca chiusa. Non lo sto criticando, cazzo,
sono così
anch’io.»
«Siete
tutti così nei Faith No More» interviene Trevor in
tono
ironico.
«Tranne
me» commenta Puffy, il quale nel frattempo si è
accostato
a sua volta a noi.
«Non
vantarti troppo, anche tu hai i tuoi momenti» lo rimbecca
Bill.
«Chi
se ne fotte? Quindi hanno saputo che gli piace il cazzo, e
allora? Qual è il problema? Mica la gente va da loro a
disturbarli perché gli
piace la figa» sbotto indignato.
«Certo,
ma se ti piace quella è normale, almeno secondo
loro» fa
notare Bill.
«Okay,
quindi le ha prese.»
«E le
ha anche date, non preoccuparti. Ha provato a difendersi, ma
l’altro era un armadio a quattro ante. Però se la
caverà» mi rassicura ancora
il bassista.
In questo
momento Bill sembra il più tranquillo fra noi, anche se
so perfettamente che è ancora più bravo di me a
ostentare sicurezza e calma.
Annuisco e
torno a sedermi, cercando in tutti i modi di
rilassarmi.
Eppure so che
non starò tranquillo finché non vedrò
con i miei
occhi che Roddy è vivo.
Non mi
lascerà.
Non appena un
uomo sulla trentina in camice bianco si avvicina a
noi, balzo in piedi e gli vado incontro senza esitare neanche per un
istante.
«Lei
sa dirmi qualcosa su Roddy Bottum?» chiedo. La mia voce
risulta isterica, anche se ho provato a calibrarla.
Il dottore mi
scruta con i suoi occhi verde smeraldo e fa un passo
indietro. «Si calmi. Lei chi è?»
«Scusi,
però…»
Sento la mano
di qualcuno posarsi sulla mia schiena e intravedo
Bill con la coda dell’occhio. «Dottore, lui
è un carissimo amico di Roddy. È molto
preoccupato, proprio come tutti noi.»
Serro le labbra
ed evito di mollare un pugno al bassista: detesto
chi risponde al mio posto e chi mi tratta come fossi un cazzo di
ritardato, ma
non è proprio il momento di perdere il controllo.
«Capisco.
Sta bene, lo terremo sotto osservazione per un paio di
giorni per assicurarci che le costole fratturate non abbiano lesionato
qualche
organo. Siamo certi di no, dalle ecografie sembra tutto a posto, ma
è meglio averne
la conferma.»
«Voglio
vederlo» affermo con determinazione.
«Possiamo?»
aggiunge Bill.
«Sta
riposando, gli abbiamo somministrato qualcosa per aiutarlo a
rilassarsi e per sentire meno dolore mentre lo medicavamo»
spiega il medico.
«Però, vedete… dovreste denunciare chi
l’ha ridotto così. Potrebbe non fermarsi
a una singola aggressione.»
«Ho
detto che voglio vederlo» ripeto, ignorando completamente le
sue parole.
Lui affila lo
sguardo e indurisce i lineamenti spigolosi del
volto. «Signore, la invito a calmarsi, altrimenti non le
permetterò di avvicinarsi
al paziente.»
«Lei
non…»
«Patton»
mi ammonisce Bill con un ringhio basso.
Faccio per
voltarmi nella sua direzione e prenderlo a cazzotti, ma
proprio in quel momento un’altra voce attira la mia
attenzione.
«Mike,
amico.»
È
Trevor. Si avvicina a me e mi afferra gentilmente per il
braccio, prendendomi per un attimo da parte. Mi fissa intensamente
negli occhi
e tiene le mani sulle mie spalle. «Respira. Calmati,
andiamo.»
Faccio come mi
dice, non so perché gli do ascolto, ma lui è
l’unico che sa sempre come prendermi e come farmi stare
meglio con piccoli e
semplici gesti.
«Okay,
sono calmo. Ma voglio vederlo.»
Trevor continua
a fissare le iridi nocciola nelle mie. «Cazzo, ci
tieni a lui» mormora.
Di fronte a
chiunque altro avrei negato con tutte le mie forze,
avrei portato fuori qualsiasi scusa pur di giustificare il mio
comportamento,
ma con lui è diverso: lui mi legge dentro, mi capisce, mi
esamina senza che io
possa sottrarmi – e, in realtà, non
voglio sottrarmi.
Avere qualcuno
con cui condividere una simile sintonia è pazzesco
e non capita a tutti.
Così
mi limito a tacere, conscio che questo rappresenta una
conferma per il mio amico.
«È
una bella cosa» mormora intenerito.
«Non
cominciare a farmi una sviolinata, Trev…» borbotto.
«Dico
solo che è bello. È un dato di fatto, non una
sviolinata.»
Sospiro per
l’ennesima volta e scuoto la testa. «E
se…» Deglutisco
e distolgo lo sguardo. «E se lui fosse morto?»
«Il
problema non si pone» replica con ovvietà.
«Ma
se fosse successo?» Faccio un passo indietro e mi appoggio
con
la schiena alla parete.
Trevor mi
lascia andare e rimane in piedi di fronte a me.
«Io
come avrei fatto?» domando più a me stesso che a
lui.
Il mio amico
non risponde, perché sa che non c’è
niente da dire;
mi conosce ed è consapevole che questo è il mio
modo di sfogare tutti i
pensieri negativi che ho formulato da quando Bill mi ha chiamato
qualche ora
fa.
«Sarei
impazzito» considero, portandomi una mano al mento.
«Letteralmente impazzito. Sì, impazzirei senza di
lui.»
Trevor non
smette di fissarmi, ma nei suoi occhi non c’è
traccia
di rimprovero o di inquietudine; è soltanto qui per me, mi
ascolta e mi legge
nell’anima senza giudicarmi.
Anche se non
è da me ammettere candidamente cose come queste.
«Non
ce la farei. Ho immaginato una vita senza Roddy ed è stato
un
vero schifo. Una merda totale.»
A interrompere
il mio delirio ci pensa Puffy che, comparso dietro
la spalla di Trevor, si schiarisce la gola e mi sorride appena.
«Se vuoi
vederlo, hanno detto che possiamo.»
Scatto subito
in avanti e, oltrepassati i due ragazzi di fronte a
me, seguo Bill a passo svelto lungo il corridoio.
Roddy sembra
stordito, ma è sveglio.
Il primo ad
avvicinarsi è Bill, e il suo atteggiamento si fa
talmente apprensivo da farmi quasi tenerezza.
La
verità è che tra quei tre
c’è da sempre un legame speciale,
sono le basi solide dei Faith No More e riescono a trasportare anche al
di
fuori della band questo loro rapporto.
È
per questo che Roddy non può morire: non è vero
che potrebbe
arrivare un tastierista qualunque a rimpiazzarlo, lui è
insostituibile.
Rimango per
qualche secondo sulla soglia e lo osservo: è sdraiato
sul letto, circondato di bianco. Lenzuola, mura, tende, pavimento.
Tutto è
asettico e fastidiosamente luminoso.
Penso
ironicamente che Roddy somigli a una specie di angioletto
che fluttua in paradiso e mi sfugge un sorriso.
Trevor, al mio
fianco, se ne accorge e mi dà un colpetto sul
braccio. «Tutto bene?»
«Certo.»
Guardandolo
meglio, mi accorgo che ha un dito della mano sinistra
steccato e fasciato ed è tumefatto in diversi punti del
viso. Per fortuna non
sembra aver riportato danni al naso.
Bill
è chino su di lui e gli parla, cerca di scherzare e gli
lascia una breve carezza sulla guancia. Anche Puffy si accosta al letto
e gli
picchietta sulla spalla, sorridendogli per infondergli
tranquillità.
«Vai»
sussurra Trevor.
A chiunque
altro avrei fatto notare che non ho bisogno che mi si
dica cosa fare e quando farlo, ma lui ha capito che in questo momento
ho
bisogno di un pizzico di coraggio in più.
Perché
ho una paura fottuta e maledetta. Ho paura che Roddy non
voglia vedermi o che la mia presenza non sia gradita; ho paura di dire
la cosa
sbagliata, di compiere un gesto inopportuno e di agire come il solito
Mike
Patton.
Quello che
è una testa di cazzo e non perde mai occasione di
dimostrarlo.
Eppure le mie
gambe si muovono e in pochi passi entro nel suo
campo visivo.
Roddy sgrana
gli occhi, evidentemente sorpreso. «Mike?»
«Ehi,
che hai combinato?» esordisco, tentando di mantenere i nervi
saldi e di controllare i battiti impazziti del mio cuore.
A ben
guardarlo, ha un evidente taglio sul labbro inferiore ed è
conciato parecchio male, eppure sono così sollevato in
questo momento che
vorrei mettermi a gridare di gioia.
Sta bene,
è vivo, mi ha riconosciuto e non sembra infastidito da
me.
«Volevo
provare nuove emozioni e ho deciso di farmi pestare,
cazzo» replica con voce roca. È sempre il solito
Roddy, quel ragazzo ironico e
divertente che conosco e che non sopporterei di perdere.
Mi lascio
scappare una risata e noto che anche Trevor si è
avvicinato.
«Trevor,
che sorpresa! Come stai?» lo saluta Roddy, regalandogli
un piccolo sorriso.
È un
sorriso doloroso, ma è la cosa più bella che ci
sia in questa
fottuta stanza.
Avverto
chiaramente un peso lasciare il mio petto e anche le mie
labbra si tirano automaticamente verso l’alto.
«Portatemi
qualcosa da mangiare, ho una fame allucinante!» esclama
Roddy, per poi esibirsi in una smorfia di dolore. «Fottute
costole, ci
impiegheranno una vita a guarire, queste troie!»
«Non
lamentarti, almeno sei vivo. Patton pensava che fossi morto»
ironizza Bill.
Lo fisso in
cagnesco, so che prima o poi lo gonfierò di botte.
«Addirittura?»
«Eccome,
dovevi vedere come…»
«Gould»
grugnisco.
«Okay,
okay, adesso io e Billy ti portiamo da mangiare!»
interviene Puffy, afferrando il bassista per un braccio e trascinandolo
con sé
verso la porta.
Nel farlo mi
passano a fianco, così ne approfitto per mollare un
pugno sul braccio del bassista. «Attento a come
parli» lo minaccio.
Lui mi liquida
con un’occhiata sprezzante e lascia la stanza
insieme a Puffy.
Trevor mi
sfiora la spalla per attirare il mio sguardo.
Ci scambiamo
un’occhiata, poi lui si dilegua a sua volta e
richiude piano la porta, lasciando me e Roddy da soli.
Non
gliel’avrei mai chiesto esplicitamente, eppure l’ha
capito da
solo.
Ho bisogno di
tranquillizzarmi, così faccio il giro del letto e mi
lascio cadere sull’unica sedia presente nella stanza.
Roddy mi segue
con lo sguardo e mi sorride lievemente. «Pensavi
davvero che fossi morto?» mi chiede.
«Beh,
sai com’è…»
Allunga il
braccio destro verso di me, ma si blocca e il suo viso
viene attraversato dall’ennesima smorfia di dolore.
Così
mi sporgo in avanti e prendo la sua mano tra le mie, scrutandolo
attentamente nelle iridi blu notte. «Fa un male fottuto,
eh?»
«Puoi
scommetterci. Quel tipo dev’essere un lottatore o qualcosa
del genere, non c’era partita…»
Stringo
più forte la presa. «Adesso non possono
più toccarti,
tranquillo» mi sento dire, e mi pare quasi impossibile che
sia stato proprio io
a pronunciare parole simili.
«Non
mi aspettavo che saresti venuto a trovarmi» ammette Roddy con
una punta di ironia.
«Neanche
io. Ma quando Bill mi ha chiamato…» Mi interrompo,
incapace di andare avanti.
«Eri
preoccupato per me?»
Vorrei tanto
scostare gli occhi dai suoi, ma allo stesso tempo non
ne ho il coraggio: ho rischiato di perderlo e di non poterli vedere mai
più,
perciò adesso voglio soltanto godermeli.
Anche se questo
significa essere un libro aperto per lui.
«Certo.
Mi sarei preoccupato anche per quello stronzo di Gould»
minimizzo, ma non suono convincente neanche alle mie stesse orecchie.
Roddy se ne
accorge e mi regala un altro piccolo sorriso. «Ma non
così» sussurra.
Mi rendo conto
che ha perfettamente ragione: per quanto io voglia
bene a tutti i ragazzi, la mia reazione a quest’evento mi ha
fatto capire che
non è vero che tutti siamo utili, nessuno
è indispensabile.
Roddy
è indispensabile per i Faith No More.
Roddy
è indispensabile per me.
Tenendo ancora
la sua mano tra le mie, mi chino a lasciare un lieve
bacio sul dorso, gli occhi ancora immersi in quelli del tastierista.
«Già.
Non così» mormoro.
Rimaniamo a
guardarci per qualche altro istante, finché la stanza
non viene nuovamente invasa dalla rumorosa presenza di Bill. Seguito da
Puffy,
il bassista comincia a blaterare sul fatto che il medico gli abbia
categoricamente vietato di fargli mangiare cibi troppo grassi;
così gli
deposita in grembo uno scarno sandwich dall’aspetto ben poco
invitante.
Io lascio
andare la mano di Roddy e incrocio le braccia al petto,
osservando il tramezzino con fare scettico. «Se ha lo stesso
sapore del fottuto
caffè che ho preso prima, ti consiglierei di non
mangiarlo» commento.
«Ho
così tanta fame che potrei mandare giù anche un
braccio di
Puffy!» scherza il tastierista, afferrando il sandwich con la
mano destra.
«Ehi,
perché il mio braccio? Mangia quello di Bill, ha
più carne!»
Il batterista sghignazza e dà di gomito all’altro.
«Non
è così male, dai» farfuglia Roddy,
finendo il suo spuntino in
pochi bocconi.
«I
tuoi amici si sono dimenticati di portarti un po’
d’acqua»
interviene Trevor, passandogli una bottiglietta stappata.
«Tieni, devi avere
sete» aggiunge. Non mi ero neanche accorto che fosse
rientrato anche lui nella
camera.
«Trevor,
grazie!» Roddy gli sorride grato e sorseggia un po’
d’acqua.
Sbadiglio e mi
allungo meglio sulla sedia. «Bene, gente,
sloggiate. Qui vogliamo dormire!» esclamo, portando le mani
dietro la nuca e
socchiudendo le palpebre.
Tutti mi
guardano straniti.
«Che
cazzo vi prende?»
«Andiamo
a casa» mi suggerisce Trevor.
«Andate.
Io sono talmente stanco che non riesco più ad alzarmi da
qui» ribatto.
«Mike,
non…»
Sbuffo.
«Che palle, voglio restare, okay?»
I ragazzi
ammutoliscono, ma continuano a scambiarsi occhiate e a
lanciare sguardi straniti nella mia direzione.
«Non
ce n’è bisogno, sto bene» mi rassicura
Roddy.
«Anch’io
sto bene qui. Non ti darò fastidio e se russo puoi
prendermi a pugni» lo liquido, stiracchiandomi appena.
«Sei
completamente fulminato, ne sono sempre più
convinto» esala
Bill, passandosi una mano sulla fronte. «Dobbiamo fidarci a
lasciarti qui con
Roddy?»
«Sono
troppo stanco anche per prenderti a cazzotti, ma guardati le
spalle nei prossimi giorni» biascico.
«Sto
già tremando» ironizza il bassista.
«Okay, allora io e Puffy
andiamo. Se questo stronzo ti molesta, chiama gli infermieri,
l’FBI o chi cazzo
ti pare.»
«Non
mancherò!»
Trevor ci
saluta con un cenno del capo e li segue fuori dalla
stanza; sta per uscire quando si volta e incrocia il mio sguardo,
mantenendo il
contatto visivo per un po’ prima di sparire oltre la soglia.
Non so
cos’ha letto nei miei occhi, ma so che ha capito anche
quello che io stesso non riesco a comprendere di me stesso.
Tra noi
è così e basta.
Siamo
nuovamente soli.
Non ho poi
così tanto sonno, più che altro mi sento
fisicamente e
mentalmente stanco. Sfinito come non mi capita neanche durante i tour
più
intensi.
Provare tante
emozioni tutte insieme e cercare di categorizzarle è
stato più complesso di quanto pensassi; il punto
è che non ho avuto il tempo
per rendermene conto, mi sono semplicemente ritrovato in mezzo a tutto
questo
casino e l’ho affrontato a modo mio.
E questo mi ha
destabilizzato parecchio.
«Perché
sei rimasto?»
La domanda di
Roddy mi coglie alla sprovvista. Pensavo che stesse
già dormendo, ma forse tra i due è il meno
provato, a discapito di tutti i
lividi e le ammaccature che ricoprono il suo corpo.
Schiudo le
palpebre e lo metto faticosamente a fuoco. «Per farti
compagnia. E perché non riesco neanche a camminare. Dovrei
pisciare, ma la
trattengo.»
Lo vedo
sorridere lievemente e scuotere appena il capo. «Io sto
bene, davvero. Non ho bisogno di compagnia.»
Lo fisso e non
riesco a trattenermi, come se ormai tutto
l’autocontrollo che ho ostentato nelle ore scorse si fosse
dissolto insieme
all’ansia e all’agitazione. «Sono io che
ne ho bisogno.»
Cala il
silenzio.
Non so neanche
perché l’ho detto, o forse sì.
E se
l’avessi perso per un motivo tanto stupido?
«Perché
se tu ora fossi morto, io qui non ci farei un cazzo.
Invece sei vivo, quindi devo stare con te» aggiungo, come se
cercassi
maldestramente di giustificarmi.
Eppure non
funziona: la mia voce non suona credibile neanche alle
mie stesse orecchie.
Figurarsi a
quelle di Roddy.
«Davvero
ti importa così tanto? Sei ubriaco o strafatto per
caso?»
tenta di sdrammatizzare il tastierista.
«No.»
Scuoto il capo e mi sporgo nuovamente in avanti, afferrando
saldamente la sua mano tra le mie. «Sono serio.»
Ci guardiamo
negli occhi e rimaniamo in silenzio per un po’. Mi
sento stranissimo, un po’ imbarazzato e impacciato, ma
è esattamente qui e così
che voglio essere.
Anche se suona
bizzarro e probabilmente domani mi rimangerò ogni
cosa.
Oppure potrebbe
anche non succedere, perché è vero che
l’adrenalina mi ha sempre giocato brutti scherzi, ma ormai
quella sensazione
sembra quasi un ricordo lontano e non avverto alcuna traccia di
pentimento
all’interno del mio cuore.
«Non
mi hai mai parlato così. Non ti ho mai visto
così» mormora
Roddy, una punta di commozione nella voce.
«Nemmeno
io. Eppure sei qui, in un letto d’ospedale e hai
rischiato di morire. È giorno di
novità» replico con un filo d’ironia.
«Non
esageriamo, non ho rischiato di morire» minimizza.
Lo scruto
meglio negli occhi e li trovo sereni. «Forse ho avuto
più paura io di te» ammetto con un pizzico di
imbarazzo.
«Mi
sa di sì.» Ride piano e mi tira appena per la mano.
Lo lascio
andare e trascino la sedia ancora più vicino, per poi
tornare a cercare i suoi occhi e a sfiorargli il dorso della mano.
«Allora
posso restare?»
«E da
quando Mike Patton ha bisogno del permesso di qualcuno per
fare ciò che gli pare?» mi sbeffeggia.
Annuisco.
«Infatti era una domanda retorica.»
Roddy solleva
nuovamente la mano destra e sfiora lievemente la mia
guancia. «Grazie.»
Appoggio le
dita sulle sue e le trattengo contro la mia pelle,
mantenendo il contatto visivo. Non rispondo, ho soltanto voglia di
sentirlo
vicino per rendermi conto che è realmente tutto a posto.
Sono un fottuto
e ridicolo sentimentale, anche se non lo esterno
quasi mai.
La stanchezza
continua ad avvolgermi il corpo e ad appesantirmi le
palpebre, ma mi sembra quasi un errore chiuderle.
E se
quando mi risvegliassi, lui non ci fosse più?
Sto esagerando,
lo so, ma ci sono volte in cui mi faccio prendere
troppo dal panico e questo mi manda in pappa il cervello.
Non so come
né quando, ma improvvisamente tutto diventa nero.
Mi risveglio
piegato in avanti sulla sedia, la faccia schiacciata
sul lenzuolo e la mano di Roddy tra i capelli.
Sento la
schiena dolorante e mi sembra di essere più stanco di
ieri.
Ho dormito in
una posizione impossibile ed è un miracolo che io
non sia caduto a terra.
Sospiro e mi
sollevo piano, spostando le dita del tastierista con
lentezza, cercando di non disturbarlo.
Ho bisogno di
farmi un caffè e neanche il ricordo della brodaglia
che ho bevuto la notte scorsa mi fa desistere da questo proposito.
Non so che ore
sono, così faccio girare lo sguardo sulle pareti
bianche e anonime della stanza in cerca di un orologio; ne trovo uno
proprio
sopra la cornice della porta e, se la batteria non è
scarica, dovrebbero essere
appena le otto del mattino.
Vengo colto da
uno sbadiglio e cerco di sopprimerlo per non
svegliare Roddy, ma lui sussulta appena e mugola qualcosa di
incomprensibile.
«Mike?»
biascica.
Torno a
voltarmi nella sua direzione e lo guardo in viso. «Sono
qui.»
«Ti
vedo. Ma dove hai dormito?»
Mi stringo
nelle spalle. «Proprio qui, su questa sedia. Con la
faccia sul tuo letto.»
«Devi
avere la schiena a pezzi» mormora dispiaciuto.
«Anche
tu, amico» scherzo.
Ridacchia, poi
si fa nuovamente serio e rifugge il mio sguardo,
voltandosi verso la porta. «Senti…»
«Che
succede?»
«Davvero,
grazie. Ti ripagherò per questo, troverò il modo.
Però
non dovevi. Non voglio essere in debito con te» farfuglia.
«Ehi,
ehi, guardami bene» lo incito, sfiorandogli la mano.
Lui si volge un
po’ titubante e le nostre iridi si scontrano
nuovamente.
«Non
dovevo, infatti, ma volevo. Sono rimasto e basta. Avevo
bisogno di sapere che stai bene. Che non saresti morto. A casa non
sarei
riuscito a dormire» spiego con calma.
Roddy sgrana
gli occhi e rimane in silenzio a fissarmi.
«Non
parliamone più. Tu stai bene, io sto bene. Tutto
tornerà alla
normalità, è perfetto» concludo.
Sorride e
annuisce. «D’accordo.»
Mi metto in
piedi a fatica e mi stiracchio, lasciando andare un
lungo sospiro. «Vado a prendermi un caffè. Lo vuoi
anche tu? Ti avverto che fa
cagare.»
«Procurami
qualcosa da mangiare.»
«Vedo
cosa riesco a trovare» replico.
Faccio un
passo, poi mi fermo e torno a chinarmi su di lui. Lo
guardo negli occhi per alcuni istanti e lascio scivolare la mano
sinistra sulla
sua guancia.
E se
quando tornassi lui non fosse più vivo?
Formulo questo
pensiero nel momento esatto in cui il mio corpo
decide di agire per conto proprio: appoggio le labbra sulla sua fronte
e la
bacio delicatamente, poi mi scosto e gli sorrido.
«Stammi
bene, non fare scherzi.»
«Non
vado da nessuna parte» sussurra.
Prima di
lasciare la stanza, noto che le sue guance si sono
leggermente imporporate e avverto la stessa sensazione sulle mie.
Non so cosa ho
fatto, ma so che lo volevo e che mi piacerebbe
ripetere quest’esperienza.
Perché
Roddy è indispensabile per tutti, me compreso.
Adesso lo so.
Me ne sono
accorto perché ho rischiato di perderlo davvero.
E se
lui morisse?
Adesso so la
risposta a questa domanda, appare talmente semplice e
ovvia da farmi sentire dannatamente stupido per non averla afferrata
prima.
Senza
di lui, non ci sarei neanche io.
C’è
solo un’altra persona che mi fa quest’effetto,
quando penso a
un’esistenza senza: Trevor.
Non so cosa
questo significhi, ma so che è importante e che non
sprecherò mai più il mio tempo lontano da loro.
Lontano
da Trevor.
Lontano
da Roddy.
§
§ §
Questa
storia nasce dal mio spasmodico bisogno di ficcare Mike
nelle situazioni più assurde e immaginarmi come potrebbe
reagire!
Ho
dei problemi, sì, lo so XD però lui è
uno dei personaggi più
complessi che io mi sia mai ritrovata a gestire e, pur non
appartenendomi, riesce
a spronarmi a sperimentare un sacco di cose anche e soprattutto su di
lui! :D
Do
qualche nota esplicativa, anche se non c’è
tantissimo da dire!
Ho
fatto riferimento al monumentale telefono cellulare di Mike
perché, essendo questa storia ambientata presumibilmente nel
’94, i famosi
telefonini erano praticamente appena usciti sul mercato e non tutti ne
avevano
uno ^^
A
quei tempi, visto che sia i Mr. Bungle che i Faith No More hanno
fatto uscire un album nel ’95, ho immaginato che Mike si
dividesse tra il
lavoro in studio con entrambe le band!
Trevor
è infatti il bassista storico dei Mr. Bungle,
nonché colui
che io considero come il soulmate (a livello affettivo e non in senso
romantico, ovviamente) di Mike. Sono amici da sempre, cresciuti insieme
e uniti
anche professionalmente, perciò ho scelto lui come roccia
per il cantante in
quest’occasione un po’ particolare e difficile ^^
Per
il resto… la Pattum è un po’ velata,
dai, non mi sento di
considerarla come coppia, almeno stavolta :D
Ultima notina: il titolo della storia è un verso tratto dal
brano Separation Anxiety
dei Faith No More!
E
niente, fatemi sapere cosa pensate di quest’insieme di
disagio e
di come ho gestito Mike in mezzo a tutti questi eventi ansiogeni!
Grazie a chiunque
sia giunto fin qui e alla prossima ♥
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