Gente mia,
ho
finito di sfrangiarvi le gonadi con agenti segreti e aviatori. Questo
è l’ultimo capitolo della lunga vicenda.
Ringrazio
tantissimo ognuno di voi, affezionati lettori, adorati commentatori e
passanti che magari hanno dato un’occhiata. Siete voi che fate
vivere le storie, per cui grazie: senza il vostro prezioso sostegno,
questa storia sarebbe rimasta nel buio di un cassetto.
Capitolo
14
Le
querce nella nebbia sono come come fantasmi silenti. La bruma si
torce adagio nell’aria ferma, scorre sul terreno in una lenta
corrente che nasconde ogni cosa.
Ovunque
regna una quiete ovattata.
Egli
si guarda intorno. Percepisce, più che vederla, la mole immanente di
un castello. Sa che più in basso scorre il fiume. Ne coglie ogni
tanto il profilo sinuoso, quando le falde di vapore si diradano.
A
un tratto comincia a udire un rumore in avvicinamento: è uno
scalpiccio lento di zoccoli, accompagnato da un passo umano. Si
percepisce di tanto in tanto un tinnire lieve di metallo.
Si
volta in quella direzione con uno strano senso di aspettativa.
Dalla
foschia emerge un cavaliere che tiene il destriero per le redini.
Cammina
adagio verso di lui.
Quando
l'ha raggiunto, egli si accorge che è Reiner. Anche se non l'ha mai
visto, sa che è lui, in qualche modo ne è sicuro. Ha un volto
pallido, nobile, pervaso di una strana calma remota. Gli occhi sono
grigi e trasparenti. Porta una lucida cotta di maglia e ha lungo
manto candido, con una croce nera sulla spalla. Lo stesso simbolo è
anche sul petto.
Al
fianco ha una spada.
Si
ferma muto di fronte a lui. Il suo cavallo, un morello nero come il
carbone, dilata le froge per fiutarlo, poi drizza le orecchie nella
sua direzione e lo fissa con occhi di giaietto.
Egli
allunga una mano per accarezzargli il muso, ma l'animale si sottrae
al contatto.
Riporta
il braccio lungo il fianco, e per qualche motivo sa che è giusto
così. Che non è ancora giunto il momento di toccare quel cavallo.
A
quel punto, il cavaliere abbandona le redini dell'animale e sfila la
spada dal fodero. Gliela porge.
Egli
la osserva: l'elsa è una testa d'aquila le cui piume pian piano si
trasformano in foglie di quercia. La lama è lucido acciaio.
“Ora
è tua,” dice pacato il cavaliere.
“Mia?”
ripete lui stupito. Fissa la magnifica arma, poi solleva lo sguardo
sugli occhi dell'altro, limpidi e freddi come i laghi in cui andava a
bagnarsi da ragazzino.
“Spetta
a te,” è la pacata risposta. “Le foglie muoiono ogni anno, ma la
quercia è sempre viva.”
Egli
si trova a deglutire per dominare l'emozione, ma la spada è sempre
immobile di fronte a lui e lo sguardo del cavaliere – di Reiner –
non lo abbandona.
Tende
la mano, la chiude titubante su quell'elsa scura, ed è come se una
scossa di energia gli percorresse il braccio.
L'altro
arretra di un passo. “Ora è tua,” ripete. Raccoglie le redini
del cavallo, gliele passa sul collo e monta in sella. Gli rivolge
un'ultima occhiata, poi si dirige lentamente verso il bosco di
querce.
La
spada stretta in pugno, egli per un po' lo segue con lo sguardo, poi
esclama: “Aspetta!”
Il
cavaliere si ferma, egli lo raggiunge. “Aspetta,” ripete a voce
più bassa.
L'altro
scuote la testa. “No, è giunto il mio tempo. Ora porterai tu
questa spada, combatterai tu al suo fianco.”
Egli
non replica, si limita a chinare il capo in segno di assenso, pronto
a tener fede in ogni modo a quella che a tutti gli effetti è
un'investitura. “Ti rivedrò?” gli chiede.
“No.”
Il
cavallo riprende a muoversi lentamente. Le querce, nere e immobili,
velate dalla foschia, sono come una barriera invalicabile.
Il
cavaliere le raggiunge, si gira a guardarlo un'ultima volta poi vi si
addentra, confondendosi pian piano nella bruma che avvolge ogni cosa.
Il
rumore degli zoccoli sparisce.
Maximilian
von Knobelsdorff aprì gli occhi: non c’erano querce.
Vedeva
un soffitto bianco, alto, da cui pendeva un lampadario rotondo di
metallo smaltato, a sua volta bianco ma con un bordo blu scuro, che
gli fece venire in mente le bacinelle del bucato.
Strinse
gli occhi: non ricordava di aver mai visto un lampadario del genere.
Non c'era in nessuna stanza della tenuta di Rollwitz e non c'era
nemmeno nella villa che fungeva da alloggio per i piloti della Jasta.
L’aria
odorava di disinfettante. C’era silenzio, a parte un lieve
chiacchiericcio lontano che giungeva a sprazzi, come portato da onde
marine.
Cercò
di sollevare la testa, ma non appena tese i muscoli, una fitta
all'addome lo costrinse a desistere.
Ripiombò
all'indietro mentre il dolore gli si irradiava nel corpo come un
sisma, raggiungeva un parossismo e poi man mano scemava, rimanendo
sullo sfondo come una dolenzia sorda.
Per
non ripetere l'esperienza, si accontentò di far girare lo sguardo:
era in una camera dall'arredamento essenziale. Di fronte aveva un
piccolo armadio, e al centro della parete una croce e il ritratto di
Sua Maestà. Alla sua destra c'era una porta chiusa; a sinistra,
sotto una finestra dalla quale si vedeva un cielo azzurro, c'era un
mobiletto basso coperto da un telo bianco, sul quale erano allineati
bendaggi, bacinelle, boccette di vetro scuro e qualche ferro
chirurgico.
Un
ospedale?
La
cosa gli parve plausibile. Ricordava una lotta, delle ferite, degli
spari, ma era tutto confuso. I volti si confondevano, le situazioni
anche.
Aveva
in mente l'immagine di the Bishop chino su di lui, che diceva
qualcosa, ma allo stesso tempo aveva l'impressione di ricordare anche
il Werwolf, che gli parlava in un tono urgente, preoccupato, ma al
tempo stesso anche rassicurante.
Chiuse
gli occhi. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo dopo.
“Ma
chi si rivede: Gretchen.”
I
rebbi del forcone penetrano più a fondo, gli mozzano il respiro, lo
costringono a emettere un gemito soffocato. Sente il ferro strisciare
contro le costole.
E
il dolore, il dolore è come una bestia che lo ha azzannato a mezzo
corpo e sta scrollando la testa per straziarlo maggiormente.
Era
successo prima o dopo l'arrivo del Werwolf? Non riusciva a ricordare
nemmeno questo.
Spostò
adagio la mano fino a toccarsi l'addome, coperto da una spessa
medicazione. Man mano che riprendeva i contatti con la realtà, anche
i ricordi diventavano più nitidi. Rivide the Bishop con le mani
strette sul manico del forcone, pronto a spingerlo più a fondo,
risentì la forma zigrinata del calcio della Mauser contro il palmo
della mano, la detonazione, il rinculo dell'arma.
Poi
le immagini si fecero di nuovo confuse: qualche sprazzo di dolore,
voci, la sensazione di sprofondare in un abisso buio.
Braccia
che lo sostenevano, una voce rassicurante che gli parlava.
La
porta si aprì, sulla soglia comparve un caporale della sanità
anzianotto, corpulento, con un Krätzschen bisunto in testa.
L'uomo
notò che si era svegliato. “Perbacco,” borbottò. Si tolse il
berretto, se lo rigirò un paio di volte fra le mani, quindi lo
indossò di nuovo. “'Giorno, signor tenente,” disse infine,
portandosi due dita alla fronte in un informale saluto.
Prima
che von Knobelsdorff potesse rispondere, il caporale era già uscito
e stava dicendo: “Signor capitano medico! Signor capitano medico,
faccio rispettosamente notare che il ferito della stanza sedici si è
svegliato!”
All'esterno
ci fu un rapido confabulare, poi entrò nella stanza un dottore.
Anche lui aveva l'aria anzianotta, pacifica, da buon medico condotto
di paese. Von Knobelsdorff immaginò che i medici più giovani
fossero al fronte, dove era necessaria maggiore prestanza fisica, e
quelli più vecchi si occupassero delle retrovie.
Si
girò a guardarlo.
“Il
nostro giovanotto si è ripreso, dunque?” lo apostrofò il nuovo
arrivato raggiungendo il letto. Gli prese il polso e per un po'
rimase assorto a tastarlo, controllando di tanto in tanto un orologio
che aveva estratto dalla tasca. “Molto bene,” approvò infine,
deponendoglielo sulla coperta.
Von
Knobelsdorff continuava a fissarlo in silenzio, tanto che l'altro
dopo un po' gli chiese: “Mi capisce, giovanotto? Sente quello che
dico?”
Il
tenente accennò di sì con la testa. “Sissignore,” balbettò
poi.
“Molto
bene,” ripeté il medico. “Sa, non è così raro che al risveglio
da un lungo stato di incoscienza si abbiano episodi di confusione.”
“Capisco.”
“Io
sono il capitano medico Albert Fischer, a proposito. Questo è
l’ospedale militare di Treptow.”
“Maximilian
von Knobelsdorff.”
“Ricorda
quello che è successo, giovanotto?”
Il
tenente rimase per un po' in silenzio, cercando di recuperare le
immagini sfocate di poco prima, poi rispose: “Sì e no.”
Fischer
lo fissò come se non si fosse aspettato altro. Annuì grave e infine
gli rivelò: “È stato aggredito da un pazzo, giovanotto. Uno
squilibrato, un uomo che una ferita di guerra aveva reso folle. Lei,
essendo un eroe che ha ricevuto la più alta delle decorazioni al
valore, è stato l'incolpevole catalizzatore del suo odio.”
Von
Knobelsdorff non replicò. Senza dubbio la faccenda del pazzo era la
scusa con cui il Werwolf aveva sistemato tutto quanto.
La
voce del medico attirò nuovamente la sua attenzione: “Non
ricorda?”
Il
tenente scosse la testa. “Temo di no,” rispose, anche solo per
sentirsi raccontare quello che l’agente segreto aveva inventato.
Fischer
gli tirò giù le coperte, mise a nudo la medicazione. Mentre aiutato
dal caporale svolgeva con perizia le bende, cominciò a raccontare:
“Lo squilibrato, tale Anton Pohl, era riuscito a farsi assumere
come mozzo di stalla. Pareva una persona normale, nessuno aveva mai
avuto motivo di lamentarsi di lui, eppure nel suo intimo covava un
risentimento senza pari. Odiava tutto ciò che aveva a che fare con i
militari, capisce?”
“Sissignore.”
“Molto
bene,” approvò il medico. Gli palpò delicatamente l'epigastrio.
“Fa male qui?”
Von
Knobelsdorff strinse i denti. “Un po',” rispose, irrigidendosi
suo malgrado.
La
mano si spostò verso il fegato. “E qui?”
“Sissignore.”
“Già,
già.” Il medico si sistemò gli occhiali, quindi spiegò: “È
chiaro che sente male. I medici di Pasewalk hanno dovuto operare
d'urgenza, c'era un'importante emorragia interna.” Fece cenno al
sottufficiale, che subito prese una delle boccette scure, pose un po'
del suo contenuto su un batuffolo d'ovatta e iniziò con quello a
ripulire la cicatrice operatoria.
Fischer
frattanto continuava a visitarlo. “Tutto bene,” disse poi, “tutto
nella norma. Lei è molto forte, giovanotto, si rimetterà presto.”
“Grazie,
signore,” disse von Knobelsdorff, irrigidendosi suo malgrado sotto
il batuffolo imbevuto di tintura di iodio. “Signore....?” chiese
poi esitante.
L'altro,
che si stava lavando le mani in un catino, si voltò. “Sì,
giovanotto?”
“Ecco,
signore... io credo di ricordare che ci fosse un ufficiale degli
ussari con me. Un Rittmeister che...”
L'altro
non lo lasciò nemmeno finire. “Ma certo,” rispose subito. “Un
suo buon amico, direi, o forse il suo angelo custode, dato che le ha
salvato la vita non una, ma due volte.”
Tra
le sopracciglia aggrottate di von Knobelsdorff comparve una ruga
verticale. “Che intende dire?”
“Il
Cielo ha voluto che fosse presente, quando lo squilibrato l'ha
aggredita. È stato lui a neutralizzare quell'uomo e a prestarle le
prime cure, ed è stato sempre lui a offrirsi per una trasfusione
quando lei rischiava di morire dissanguato.”
A
quella notizia il tenente sussultò e d'istinto cercò di sollevarsi
a sedere, ma subito intervenne il sottufficiale, che lo afferrò per
le spalle e gli impedì il movimento.
“Mi
lasci!” protestò von Knobelsdorff irritato. Imperturbabile,
l'altro si limitò a rivolgere un'occhiata al medico.
Questi
scosse la testa. “Non è bene che lei si alzi, giovanotto,” lo
ammonì severo.
Il
tenente rinunciò ai suoi propositi di ribellione. Si rilassò sotto
la presa erculea del caporale, emise un sospiro e ripeté: “Una
trasfusione?”
“Molto
consistente,” fu la risposta. “Quel bravo capitano le ha dato
così tanto sangue che abbiamo dovuto tenere ricoverato anche lui per
qualche giorno.”
A
quelle parole, von Knobelsdorff sentì il cuore balzargli nel petto.
“È ancora qui?” chiese. Fece saettare lo sguardo tutt'intorno,
come aspettandosi di vederlo da qualche parte.
L'altro
scosse la testa. “È rientrato in servizio: ordini superiori. Io
ero contrario, naturalmente, il paziente aveva ancora bisogno di
riposo, ma...” Si strinse nelle spalle, con l'aria di chi si piega
all'ineluttabile.
“Non
c'è più?”
Di
nuovo, Fischer scosse la testa.
Il
tenente aggrottò le sopracciglia e chiese: “E io quando posso
andarmene?” D'un tratto, gli sembrava importantissimo uscire,
rientrare in servizio. Ma soprattutto andare a cercare Karl.
Ancora
non aveva idea di come l'avrebbe trovato, ma doveva assolutamente
cercarlo.
Il
medico toccò di nuovo la ferita, facendolo irrigidire per il dolore,
quindi rispose: “Ci vorrà ancora un po', giovanotto.”
“Ma
io sto già bene!” protestò von Knobelsdorff.
L'altro
alzò teatralmente gli occhi al cielo. “Siete tutti uguali,”
proferì infine, “nessuno che abbia pazienza, nessuno che dia il
tempo alla Natura di fare il suo corso.”
“Sto
bene,” ripeté caparbio il tenente.
La
voce di Fischer si fece dura: “Lei non sta affatto bene, e se
avesse un minimo di buon senso se ne renderebbe conto da solo.
Obbedisca agli ordini di chi ne sa più di lei e attenda di
ristabilirsi come si deve.”
“Sissignore,”
sospirò von Knobelsdorff, mentre già vagliava mentalmente la lista
dei superiori che avrebbe potuto interpellare per farsi richiamare in
servizio.
§
Il
maggiordomo si avvicinò al principe von Thurn und Taxis reggendo
cerimoniosamente un vassoio su cui si trovava un telefono. Alle sue
spalle, il filo dell'apparecchio serpeggiava sul pavimento di marmo e
si perdeva nel buio di un corridoio. “Una chiamata per lei,
eccellenza,” annunciò compassato. Posò il vassoio su un tavolino.
Il
principe abbandonò il libro che stava leggendo, si alzò dalla
chaise longue e raggiunse il domestico. “Chi è?” chiese,
raccogliendo la cornetta.
“Non
l'ha detto, eccellenza. Ha detto che lei l'avrebbe riconosciuto
subito.”
Il
Werwolf annuì. “Zio Oswald?” chiese nel ricevitore.
“Volevo
congratularmi per il cinghiale che hai abbattuto, ragazzo mio,”
provenne dall'altra parte del filo.
“Non
è il caso.”
“Sciocchezze!
Era un bel po' che quella bestiaccia ci dava filo da torcere. Quando
passi da questo povero vecchio?”
“Quando
vuoi, zio.”
“Beh,
mettiti in viaggio, allora. Per dove sai tu. Quel cinghiale non era
mica l'unica bestia che ci rovinava le colture, eh.”
Il
Werwolf scosse la testa come se l'altro avesse potuto vederlo, poi
rispose: “Ho bisogno di qualche altro giorno. Giusto un paio.”
La
voce dell'interlocutore suonò costernata: “Diamine! E per fare
cosa?”
“Ecco...
c'è un giovane segugio che mi ha aiutato nella caccia, zio. È
rimasto ferito e voglio controllare che si ristabilisca nel modo
giusto, prima di venire a trovarti.”
“Lascia
queste cose a chi se ne intende, ragazzo mio. A ognuno il suo
mestiere, non è così che si dice?”
“Sì,
zio.”
“E
poi, non avevi deciso di lasciar perdere i segugi? Dopo ti affezioni
e sai come va a finire. La caccia è un'attività pericolosa.”
Il
Werwolf si limitò ad annuire.
“Ragazzo?”
chiese dopo un po' l'interlocutore.
“Sono
qui, zio.”
“Dicevo:
lo sai come va a finire.”
“Sì,
lo so.”
Chiuse
la comunicazione mentre l'altro stava ancora parlando, quindi disse:
“Non voglio essere disturbato.”
Il
maggiordomo si inchinò. “Sì, eccellenza.”
“Nemmeno
se richiamasse questa persona.”
“Certamente,
eccellenza.”
Rimasto
solo, il Werwolf gettò uno sguardo al libro abbandonato sulla chaise
longue, ma rinunciò a riprendere la lettura.
Andò
alla finestra, invece, e da lì rimase immobile a contemplare il
cielo.
Si
trovava in una situazione che non gli era capitata spesso nella vita:
non sapeva cosa fare. Forse avrebbe dovuto dar retta a Matthesius, e
dimenticare Maximilian. Seguirlo da lontano, magari, nell'ombra.
Accontentarsi di proteggerlo senza dar segno di sé.
D'altra
parte, aveva fantasticato su quel ragazzo. Lui, che da anni si
allontanava dalla realtà contingente solo per prevedere, supporre e
pianificare, si era trovato a immaginare se stesso e Maximilian,
fianco a fianco, impegnati in qualche missione.
Quelle
fantasie invariabilmente terminavano con l'immagine di Maximilian
riverso in un torrente, esattamente come anni prima era successo a
Reiner.
Per
quel motivo aveva smosso ogni suo contatto e si era fatto dimettere
il prima possibile dall'ospedale militare di Treptow, poi non ci era
più tornato. Se ogni ospedale militare inglese o francese pullulava
di spie tedesche, anche quel posto doveva essere pieno di spie
nemiche. Non era bene che i servizi segreti inglesi, inferociti per
la morte del loro migliore agente e desiderosi di fargliela pagare,
sapessero cosa lo legava a quel ragazzo.
Si
staccò dalla finestra, fece qualche passo nervoso nella stanza.
Maximilian era un cavaliere dei cieli, un asso. Era orgoglioso,
coraggioso, deciso, ma per nulla avvezzo allo spionaggio.
Certo,
avrebbe potuto addestrarlo, ma cosa avrebbe ottenuto? Forse di
snaturarlo e basta, di esporlo al rischio di una fine iniqua, senza
gloria e senza dignità, senza nemmeno l'onore di indossare
l'uniforme del Paese per cui stava dando la vita.
Tirò
il cordone del campanello, il maggiordomo si presentò sulla porta e
chiese: “Eccellenza?”
“Il
telefono,” ordinò il Werwolf.
“Quel
signore ha chiamato altre due volte, eccellenza,” lo informò il
domestico.
“Lo
immaginavo. Porti qui il telefono e poi mi lasci solo.”
“Come
vuole, eccellenza.”
L'agente
segreto aspettò che l'uomo se ne fosse andato, quindi compose un
numero e attese tamburellando col piede per terra. Quando dall'altra
parte ci fu la risposta, smise di tamburellare e disse: “Zio
Oswald? Vengo alla tenuta, dammi solo il tempo di fare una cosa
stasera.”
§
È
notte, è sdraiato nel letto. A parte il riflesso delle luci del
corridoio, che filtra dal vetro che c'è sopra la porta, la stanza è
immersa nel buio. Nel silenzio che aleggia ovunque si ode solo il
camminare lento del caporale infermiere Schulte, impegnato nel giro
di ronda.
Si
accorge che nella camera c'è una presenza. Non la vede e non la
sente, ma è come se ne percepisse l'essenza vitale. È nell'angolo
in cui l'oscurità è più densa, e lo sta guardando.
Non
ha paura, però. Lo sguardo che percepisce su di sé è attento,
indagatore, ma anche carico di una strana tenerezza, che scalda e
rinfranca come vino forte.
Si
puntella sul gomito per guardare meglio e dalle tenebre, appena
delineata dal fioco chiarore che filtra dal corridoio, emerge la
sagoma di un lupo.
“Sei
tu?” chiede sottovoce. Non sa bene a chi si stia rivolgendo, né
perché in quei termini. Sa solo che quella misteriosa presenza gli
comunica una sensazione di familiarità, di protezione.
Si
solleva maggiormente. A quella vista, il lupo avanza appena, egli
percepisce il lucore dei suoi occhi. Si ferma però prima di uscire
dal buio.
“Sei
tu?” ripete. Prova ad alzarsi per raggiungerlo, ma le gambe non lo
reggono e cade a terra.
Von
Knobelsdorff si svegliò con un sussulto. Non era sul pavimento come
aveva sognato, ma la sensazione della presenza rimaneva.
Si
girò verso l'angolo buio e la sensazione divenne più forte che mai.
“Sei tu?” sussurrò.
Non
ci fu risposta.
Puntò
il gomito sul materasso e stringendo i denti fece forza per
sollevarsi. Gli parve di vedere una sagoma alta, che lo guatava
silenziosa. “Karl,” disse, e non era una domanda.
La
figura si staccò dalla parete, si spostò verso di lui come un
misterioso lembo di oscurità. Si fermò muta a un metro dal letto.
Il
tenente non poté fare a meno di sorridere. “Karl,” ripeté.
Ricadde all'indietro spossato.
Il
Werwolf rimase immobile. Dopo qualche secondo, il tenente girò il
volto nella sua direzione e mormorò: “Karl, ti aspettavo.”
A
quel punto, l’altro si avvicinò e tese adagio una mano a
sfiorargli i capelli. “Sono venuto a salutarti,” gli disse poi.
Il
più giovane si irrigidì. “A salutarmi?” ripeté. Lo squadrò
diffidente e l’ormai famosa ruga verticale gli comparve tra le
sopracciglia.
“Devo
andare.”
Maximilian
tentò nuovamente di sollevarsi sul gomito, non vi riuscì e ricadde
all’indietro con un gemito di disappunto. “Io vengo con te,”
ansò poi.
Il
Werwolf si limitò a scuotere la testa.
“Certo
che ci vengo,” insisté il tenente. “Appena sono guarito, è
ovvio. Il che accadrà molto presto.”
L’altro
si chinò fino a che non ebbe il volto a livello del suo, poi
rispose: “Non sai quello che mi stai chiedendo.”
“Lo
so benissimo, invece. Voglio tornare in missione con te, voglio
combattere al tuo fianco.”
Di
nuovo il Werwolf gli accarezzò i capelli, poi disse: “È troppo
pericoloso.”
“Davvero?
Lo sai perché i piloti vanno in volo portandosi dietro una pistola
carica?”
“No.”
“Perché
se va a fuoco l’aereo, si sparano per non bruciare vivi.”
L’altro
rimase in silenzio. Dopo qualche secondo, il tenente insisté:
“Secondo te, fare voli di guerra è più o meno pericoloso di
quello che abbiamo fatto insieme dietro le linee?”
A
quelle parole, il Werwolf si rialzò in piedi, allontanandosi
addirittura di un passo. In tono duro, replicò: “Qui non si tratta
di giocare a chi ha l’ultima parola in una disputa verbale,
Maximilian. Seguirmi in missione significa abbandonare la tua vita
precedente, gli affetti, le amicizie, il tuo ruolo nella Jasta, il
tuo aereo. Diventeresti un anonimo impiegato senza gloria né
decorazioni, che svolge lavori spesso sporchi e pericolosi, costretto
a fare cose perlopiù contrarie all’onore di un ufficiale.”
“A
me non pare che tu sia senza onore,” lo interruppe il tenente.
“Perché
non mi conosci, oppure sei accecato da...” Non finì la frase. Gli
girò bruscamente le spalle, valutando l’eventualità di andarsene
in quel momento e far perdere per sempre le tracce di sé.
“Da
cosa?” lo incalzò Maximilian.
Senza
voltarsi, il Rittmeister rispose: “Dai sentimenti.”
“E
tu no?”
“Forse,
ma non intendo per questo metterti in pericolo o spingerti a una vita
che non ti darebbe alcuna soddisfazione e ti priverebbe di quello che
sai fare meglio.”
“Ovvero
discutere con te? Non penso proprio che me ne priverei.”
Il
Werwolf si girò con un sospiro. “Maximilian...”
“Portami
con te, Karl, oppure giuro che troverò il modo di seguirti
ugualmente.” Detto questo, il tenente con risolutezza buttò da una
parte le coperte e fece per scendere dal letto. Le gambe non lo
ressero ed egli crollò in avanti con un gemito.
D’istinto
il Rittmeister si lanciò in avanti e lo afferrò prima che toccasse
il pavimento. Lo strinse a sé, poi lo adagiò nuovamente sul
giaciglio. “Perché hai fatto una cosa del genere?” ringhiò.
“Sei stupido e impulsivo.”
Fece
per ritrarsi, ma il tenente gli circondò il collo con un braccio,
impedendogli il movimento. Rimasero immobili a fissarsi per qualche
istante, poi il più giovane rispose: “Sono le stesse cose che mi
ha detto anche the Bishop...”
“Perché
è vero.”
“...Prima
che gli sparassi.”
Il
Werwolf, che aveva passato notti insonni a struggersi sulla sorte del
giovane ufficiale, reputò quella frase una tracotante provocazione.
Aggrottò le sopracciglia e replicò: “Ma prima o dopo che ti
infilasse un forcone nella pancia?”
Maximilian
lo fissò serio. “Dopo, e questo dimostra quanto so resistere al
dolore, dominare la paura e mantenere il sangue freddo.”
L’altro
annuì. “Lo so.” Avvicinò il proprio viso al suo. Il più
giovane per tutta risposta rinsaldò la presa sul suo collo, egli
percepì contro il torace il battito accelerato del suo cuore. Lo
rivide cereo, abbandonato in un lago di sangue, e poi lo rivide
orgoglioso, fiero, che sfoggiava la decorazione appena conseguita con
l’eleganza spavalda di una giovane aquila. “Se ti impedisco di
venire con me, è perché il mio è un lavoro sporco. Non è un modo
onorevole di combattere, non riceverai mai medaglie per quello che
hai fatto, i nemici ti disprezzeranno, i tuoi colleghi ti
considereranno un pantofolaio codardo che se ne sta rintanato nelle
retrovie.”
“Non
m'importa, io voglio combattere al tuo fianco.”
“Maximilian...”
I
volti ormai si sfioravano. La presa del tenente non accennava a
sciogliersi, ma anzi di attimo in attimo sembrava farsi più ferrea,
come se il giovane avesse voluto fondere le loro due persone in
un'entità sola.
“Voglio
combattere al tuo fianco,” ripeté, quindi risolutamente incollò
le proprie labbra alle sue.
§§§
La
veranda del Raffles Hotel di Singapore aveva un pavimento di marmo
così lucido che ci si poteva specchiare. Qua e là vi erano dei
tavolini di legno esotico, intorno ai quali si trovavano poltroncine
di rattan intrecciato. Oltre gli archi candidi che delimitavano
l'area, lussureggiava una vegetazione dai mille toni di verde,
opulenta, carica di fiori dai profumi inebrianti. L'aria torrida,
madida, risuonava del canto di innumerevoli uccelli.
Le
palme ondeggiavano lente.
Sul
prato passarono due ragazze flessuose, fasciate in sarong
multicolori, ognuna con un cesto in equilibrio sulla testa. Un macaco
saltò con uno strido da un ramo all'altro, balzò a terra, raccolse
un frutto caduto e si dileguò nella vegetazione.
Maximilian
von Knobelsdorff – nome in codice Hati
– sorrise e disse: “Hai visto?”
Il
Werwolf, seduto al suo fianco, chiese: “Che cosa?”
“La
scimmia.”
“Non
le avevi mai viste prima?”
Il
più giovane scosse la testa. Si passò una mano sulla fronte,
coperta da un velo di sudore: nonostante indossasse un fresco
completo di lino chiaro, faticava ad abituarsi al caldo dei tropici.
Volse lo sguardo verso il compagno, che invece sembrava indifferente
alla temperatura: nei panni di un commerciante olandese di legname,
il Werwolf sedeva tranquillo, lasciando vagare sul parco del Raffles
lo sguardo di chi sta calcolando il costo di ogni tronco d'albero.
“Hai fatto quella cosa?” domandò l'uomo.
Maximilian
annuì. “È stato facile. Ora sulla lista dei passeggeri del
Sentosa Queen
figurano anche i fratelli van Rijthoven, uomini d'affari di
Rotterdam.”
“Ottimo
lavoro.”
“Mi
hai insegnato tu a falsificare i registri.”
Sopraggiunse
un cameriere che depose sul tavolino due bicchieri alti, colmi di una
bevanda di un sontuoso rosso aranciato, guarniti con una fetta
d'ananas e una ciliegia.
Il
Werwolf ringraziò con un cenno del capo e stese la mano verso il
suo.
Maximilian
lo fissò diffidente, poi chiese: “Che cos'è?”
“Singapore
Sling.”
“Cosa?”
“Un'invenzione
del capo barman dell'hotel. Provalo, è buono.”
“Di
cosa sa?”
Il
Werwolf alzò gli occhi al cielo. “Ti ho detto che è buono. Perché
devi sempre essere così diffidente?”
“Perché
nel nostro mestiere la diffidenza salva la vita.”
In
quel momento sopraggiunse una coppia, lui con il completo di lino
chiaro tipico degli europei ai tropici, lei con un vaporoso abito
d'organza. Sedettero a un tavolino poco distante.
In
olandese, il Werwolf disse: “Certo, evita che ti rifilino del
legname tarlato.” Poi con il labiale articolò: “Eccoli.”
Maximilian
gettò un fugace sguardo ai nuovi arrivati e colse la stessa occhiata
in tralice da parte della giovane donna. Le sorrise come un
giovanotto un po' vanesio che si scopre oggetto di attenzioni da
parte del gentil sesso, l'altra si affrettò a distogliere il viso.
Il
Werwolf sorrise a sua volta, poi sollevò il bicchiere verso di lui.
“Brindiamo?” propose.
“A
cosa vuoi brindare?”
“Ai
lupi, che cacciano di nuovo insieme.”
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