Il
ventilatore girava ad alta velocità e una forte corrente
d’aria riempiva la stanza dell’abitazione, sobriamente
arredata.
Genzo
Wakabayashi, steso sul letto, lasciava smarrire lo sguardo sul
soffitto. Era trascorso un anno, ma nulla era mutato.
Il
silenzio di quell’abitazione, in un paese lontano, proteggeva
la sua psiche, dilaniata dai rimorsi.
Se
fosse rimasto in Germania, non avrebbe retto e si sarebbe spezzato.
O
era una sua errata convinzione?
Si
girò e posò lo sguardo sul giornale che era posato
accanto al suo letto.
In
prima pagina, severo, duro, implacabile, nereggiava il titolo:
I
soldi hanno protetto un assassino. Che destino ha la nostra
giustizia?
La
giustizia tedesca è morta. Non si è visto dai tempi del
processo di Norimberga un simile, intollerabile abuso.
Un
giovane di venticinque anni, Andreas Schumann, con la passione per la
bicicletta e il volontariato, è morto sulla strada, investito
dalla BMW nera guidata da Genzo Wakabayashi, portiere nipponico e
stella dell’Amburgo.
Andreas
lascia i suoi genitori, Martin e Susanna, e sua sorella, Hilda,
straziati dal dolore.
Tutti
ricordano di lui la dolcezza, la passione per il ciclismo e l’estrema
abnegazione verso i bambini disabili. Tutto questo non è più,
a causa dei capricci di un ragazzino nipponico annoiato, desideroso
di forti emozioni.
Con
la sua crudele stupidità, ci ha sottratto un giovane prezioso,
che tanto avrebbe potuto dare alla comunità.
Grazie
ai soldi e alle testimonianze compiacenti, è libero,
nonostante il sangue sulle sue mani. Può riprendere la sua
carriera, ma qualcuno darà la vita ad Andreas?
Ai
suoi genitori e a sua sorella sarà ridato il calore del suo
sorriso?
Wakabayashi,
grazie ai soldi e alle amicizie influenti, può rifarsi una
vita e non pagherà il suo delitto. Come i nazisti a
Norimberga, lui sarà amnistiato.
Questa
è la giustizia della civile Germania.
– No…
Basta! Basta!–
sibilò.
Di
scatto, si alzò a sedere e si strinse la testa tra le mani,
frenando a stento le lacrime. Non voleva ricordare, ma la sua mente,
in un moto masochista, si perdeva nelle memorie di quella terribile
giornata.
Con
la sua automobile, aveva investito un giovane motociclista.
Lo
aveva visto apparire così, come per un incantesimo, e non era
riuscito a evitare l’impatto.
Giungeva
ad una velocità folle, quasi stesse correndo un gran premio!
Quel
giovane sventurato era volato per circa dieci metri e aveva battuto
la testa.
Nemmeno
le cure dei medici erano riuscite a salvarlo.
Grazie
alla testimonianza di un giornalista, era stato scagionato
dall’accusa infamante di omicidio, ma questo non aveva posto
termine alle sue pene.
I
media lo avevano trasformato in un mostro, a cui erano stati
risparmiati anni di galera a causa del suo stato di stella del
calcio.
Erano
giunti al punto di paragonarlo ai criminali nazisti che, nonostante i
loro orrendi crimini, erano stati amnistiati.
Consapevole
della situazione, aveva deciso di ritirarsi dal calcio, con il
consenso della dirigenza dell'Amburgo, per non coinvolgere nell'infamia i suoi compagni e si era allontanato dalla Germania.
Il
dolore e il rimorso l’avevano seguito e lui, pur di non vedere
nessuno, si era ridotto a uscire di sera.
Aveva
paura dello sguardo delle persone, poiché temeva di vedere in
loro il biasimo di quei genitori sofferenti.
Dei
colpi alla porta interruppero le sue meditazioni.
Stanco,
si alzò dal letto e andò ad aprire la porta. Forse, era
il padrone di casa.
Ma
perché era giunto lì? Aveva pagato l’affitto con
la sua consueta puntualità.
Non
gli aveva dato alcun motivo di lamentela.
– Ken?
– esclamò, stupito. Pochi conoscevano il luogo di
residenza.
Pur
di non trascinare i suoi compagni di squadra nella rovina, aveva
deciso di rescindere il contratto con l’Amburgo e di isolarsi
in un villaggio sperduto della Romania.
Aveva
domandato a Schneider e ai suoi compagni di non dire nulla e loro
avevano acconsentito.
Perché
Ken era giunto lì? Chi gli aveva rivelato la sua residenza?
Si
passò una mano davanti al volto. Non sapeva perché, ma
in quel momento avvertiva una morsa di calore stringersi attorno alla
sua testa e provocargli atroci dolori.
Strinse
i denti e sbatté le palpebre. L’alta figura del suo
rivale cominciava a perdere i suoi contorni definiti, quasi fosse
coperta dalla nebbia…
Inoltre,
perché Ken muoveva la bocca senza emettere alcun suono?
Provò
ad indietreggiare per farlo entrare, ma un accesso di nausea, come un
pugno, lo colpì allo stomaco e svenne.
Qualche
minuto dopo, aprì gli occhi e si guardò intorno.
Una
densa cappa grigia, simile alla nebbia, copriva il suo sguardo,
mentre nuove, atroci fitte di dolore trapassavano la sua testa.
Un
forte peso, come un masso, opprimeva il suo petto e violenti brividi
scuotevano la sua schiena.
Si
agitò un poco e gemette. Le sue membra erano trapassate da
fitte di pena.
Ricordava
solo l’arrivo di Ken, poi l’oscurità era calata su
di lui.
– Ben
svegliato. – borbottò una voce pacata.
Stupefatto,
Genzo sbatté le palpebre e si accorse di essere disteso sul
letto, mentre Ken, seduto a poca distanza da lui, scorreva con lo
sguardo il giornale.
Genzo
provò a muovere la bocca, ma le parole parvero impigliarsi
sulle sue labbra, come insetti nella tela del ragno. Aveva fallito.
Col
suo eremitaggio, aveva creduto di proteggere i suoi compagni dal
disonore.
Eppure,
Ken era lì e il suo sguardo scorreva su quei fogli di
giornale, su cui era descritta la sua infamia.
Perché?
Perché lo aveva seguito?
Con
un gesto sprezzante, l’ex karateka buttò il giornale sul
pavimento.
Genzo,
stupefatto, sbarrò gli occhi e lo guardò. Il suo volto
era imperscrutabile, come una statua, eppure i suoi occhi ardevano
d’ira…
Rise
di sé. No, non poteva illudersi.
Ken,
nonostante l’apparenza severa e dura, era d’animo limpido
e non avrebbe mai tollerato un assassino accanto a sé.
E
nessuno dei suoi compatrioti lo avrebbe mai accettato.
– Dovresti
smettere di leggere questa robaccia. – dichiarò, pacato.
Per fortuna, grazie ad una iniziativa estemporanea di Schneider,
avevano saputo il luogo di ritiro del loro compagno.
Dopo
varie discussioni, a lui era stato dato il compito di parlare con
Genzo e aveva accettato.
I
suoi vecchi compagni di squadra prima della Shutetsu, poi della
Nankatsu, pur animati da buone intenzioni, erano ingenui, mentre
Kojiro Hyuga avrebbe cercato di convincerlo a pugni che non era colpa
sua.
Una
simile violenza, pur generata da un sincero desiderio di giustizia,
non avrebbe aiutato il loro compagno.
Per
questo egli, Ken Wakashimazu, era stato ritenuto il più
adatto.
Era
fermo e deciso, ma non aveva l’impeto collerico del suo ex
capitano, ai tempi della Toho.
La
loro natura chiusa e schiva poteva costituire un insolito ponte tra
di loro.
Un
triste sorriso, per alcuni istanti, sollevò le labbra di
Genzo.
– Perché?
Certo, usano un linguaggio enfatico, da giornaletto scandalistico, ma
non sono lontani dalla realtà. Immagino tu sappia tutto.–
rispose,
ironicamente amaro.
Ken
scosse la testa e un sospiro fuggì dalle sue labbra. Genzo, in
quel momento, non riusciva a vedere l’assurdità di
quell’articolo.
Continuavano
ad accusarlo di quella disgrazia, ma non aveva alcun senso.
Un
giornalista, che, per puro caso, si era trovato sul luogo
dell’incidente, aveva filmato tutto e quel video mostrava
l’assenza di colpe del loro compagno..
Anzi,
aveva cercato di evitare l’incidente, ma non ci era riuscito e
aveva rischiato anche egli la morte.
Si
era rotto un braccio, eppure non aveva esitato a scendere dall’auto
e a chiamare i soccorsi.
Un
campione viziato e annoiato non si sarebbe preoccupato di soccorrere
uno sconosciuto!
Perché
avevano proseguito una simile campagna di esagerazioni e bugie?
Appoggiò
la mano sull’avambraccio del rivale e, con suo dispiacere, lo
sentì sussultare. Aveva paura di un tocco amichevole?
A
tale punto era giunto il lavoro di convincimento dei media?
Il
tenace e risoluto Genzo Wakabayashi era stato colpito, lacerato,
polverizzato da uno scandalo assurdo, costruito su un evento tragico.
Al
suo posto, su quel letto, giaceva un ragazzo spaurito, che non si
riteneva degno di attenzione e rispetto.
E
questo era colpa di una stampa degenerata, che, per compiacere la
brama di drammi di alcuni suoi lettori stupidi, non esitava a
manipolare una famiglia colpita da un lutto.
Strinse
ancora di più la mano sull’avambraccio di Genzo. Il suo
intervento non poteva guarire repentinamente l’anima ulcerata
del suo rivale, ma non poteva desistere dal suo proposito.
Genzo
aveva bisogno di un porto stabile ed egli, a nome suo e dei suoi
compagni, glielo avrebbe donato.
L’ex
portiere titolare chiuse gli occhi e alcune lacrime bagnarono le sue guance.
– Non
dovreste preoccuparvi per me… Voi non c’entrate nulla
con questa storia.– mormorò.
Ne era sicuro, qualcuno dei suoi colleghi dell’Amburgo aveva
raccontato tutto ai suoi compagni nipponici.
Non
riusciva a provare rabbia verso di loro, ma solo stupore.
Che
senso aveva coinvolgere i suoi vecchi amici in una storia tanto
sordida, che riguardava lui solo?
– Questa
è una scelta nostra, Genzo. – affermò Ken, la
voce decisa.
Colto
di sorpresa da quelle parole, l’ex titolare dell’Amburgo
aprì gli occhi e li fissò in quelli dell’altro.
Non
vi era alcun biasimo in quelle iridi nere.
Ken,
avvedutosi della reazione dell’altro, accennò ad un
sorriso. Quello sguardo, così confuso, riverberava di emozione
e vita.
La
speranza non era morta.
Il
suo cuore, nonostante la sua devastante esperienza, non aveva perduto
la sua generosità.
Era
disposto a sopportare da solo un simile tormento, pur di non
trascinare nella rovina le persone a lui care.
Ma
non gli avrebbero permesso di consumarsi nella solitudine.
Ha
un’enorme forza di volontà. Ma non può bastare in
una situazione simile. Non da sola., rifletté.
Quella tragedia era per lui causa di pena e occupava i suoi pensieri,
ma il suo orgoglio, pur provato, era rimasto e gli aveva permesso di
non crollare.
La
dignità riverberava nei suoi occhi scuri e nel decoro spartano
della casa da lui occupata.
Tale
forza era encomiabile, ma quanto sarebbe durata?
Forse,
è già al limite., pensò. Quando aveva
bussato, aveva aperto la porta e, pochi istanti dopo, era svenuto.
E
questo non era un segnale incoraggiante.
Il
tormento dell’anima si riverberava sulla mente e sul corpo e
rendeva problematica la cura della sua salute.
No,
non dovevano lasciarlo da solo.
– Non
ti chiedo di tornare a
giocare a calcio
o di affrontare ora questo tritacarne mediatico. Hai il diritto di
prenderti il tempo che ti serve per curare le tue ferite. Ma una cosa
devi sapere: nessuno di noi ti considera un mostro. Hai dei compagni
pronti a sostenerti, sia in Germania che in Giappone. Sempre. E non
puoi impedirci di scegliere di stare dalla tua parte. –
concluse.
Le
lacrime eruppero dagli occhi di Genzo, prive di controllo, e, d’istinto, si gettò
nel petto del rivale. In quel momento, la diga dell’autocontrollo
si era rotta e aveva cercato il conforto di un abbraccio.
Non
gli importava di apparire patetico e stupido.
Si
sentiva un tronco, sballottato da acque tempestose e bramava la
stabilità.
Le
sobrie premure di Ken davano requie al suo cuore, da tempo straziato
dal tormento.
– Grazie…
– balbettò.
Ken
non rispose e strinse le braccia attorno alla sua schiena. In
quell’istante, svaniva la sua natura schiva, soverchiata dalla
preoccupazione per il suo amico, rivale e compagno di squadra.
Aveva
bisogno di calore e di comprensione e non avrebbe esitato a
donarglieli.
– Di
niente. – rispose e, d’impeto, lo strinse ancora di più
contro di sé.
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