“Ammazza che
stronzo! Ken!” lo
redarguì il suo Capitano “non penso che neanche
Wakabayashi
sarebbe capace di tanto!”
“Che c'entra
adesso Wakabayashi?!”
ribattè esasperato. Era già abbastanza avvilito
così, senza che il
Capitano infierisse nominandogli il suo incubo.
“Niente,
niente...” cercò di
calmare le acque Hyuga, rendendosi conto di aver toccato un tasto
dolente. “È solo il primo stronzo che mi
è venuto in mente,
niente.” Si passò una mano nei capelli ribelli,
nervoso. Diede
un'occhiata al bancone del bar: ma quanto ci stava mettendo a tornare
Takeshi? Aveva bisogno di lui per uscire da quella chiacchierata
sgradita.
Dopo il fattaccio nel dojo,
Ken era
mortificato.
Ma che fare? Mica poteva
andare a
inchinarsi e chiedere scusa, come aveva fatto con mister Mikami ai
tempi dei loro dissapori. Magari fosse bastato così poco...
si stava
velocemente rendendo conto che i problemi interpersonali erano di
gran lunga più complicati. Talmente tanto da pensare
l'impensabile... rivolgersi al Capitano in cerca di consigli. Adesso
che aveva una ragazza anche lui, magari...
Si
rese conto solo in quel momento del suo livello di disperazione:
chiedere
consiglio a Hyuga su come chiedere scusa ad una ragazza.
Consigli di Hyuga.
Su
come chiedere
scusa.
Ad
una ragazza.
Ragazza che neanche era la sua ragazza, tra l'altro.
Ed era
tutta colpa
di Nitta! Cazzo gli era saltato in testa di lasciarli da soli! Glielo
aveva detto e ridetto! Mai lasciarmi da solo se
arriva
un'ammiratrice, MAI!
Razza di ingrato.
Takeshi
fece la sua
ricomparsa con due tè alla pesca e la solita coca cola per
Kojiro.
“Cosa mi sono perso?”
“Wakashimazu
che
dice ad una ragazza 'la pubertà raggiungerà anche
te, un giorno'”
sintetizzò l'attaccante.
“Ma...
ma..
Wakashimazu! Quanta brutalità!” uno shockato
Sawada non poteva
credere alle sue orecchie. “Un'uscita del genere me la sarei
aspettata dal Capitano, non da te!”
“Takeshi!”
tuonò Kojiro, battendo con forza il pugno sul tavolino.
“Cosa
c'entro io adesso?!”
“No,
niente...niente...” si difese debolmente il più
giovane del trio.
Dov'è
che l'aveva
già sentita, questa conversazione? Lo sguardo furente di
Kojiro
incrociò per un istante quello del portiere, che a sua volta
diresse
il suo da un'altra parte, nel tentativo di nascondere un sorrisino.
Tié.
Anche
Kojiro portò
lo sguardo altrove, appoggiandosi pesantemente allo schienale della
sedia e incrociando le braccia sul petto, seccato.
“Potresti
provare
a mandarle dei fiori, Wakashimazu” buttò
lì senza troppa
convinzione Sawada, più per distogliere l'attenzione del
Capitano da
sé che altro.
“No,
Takeshi...
peggiorerei solo la situazione. È proprio quello il punto:
già l'ho
offesa, non voglio anche illuderla...”.
“Senti...
ma a te
questa ragazza interessa? Perché se non è
così stai solo perdendo
tempo.” intervenne nuovamente Hyuga.
“Fregatene.”
“Capitano,
te
l'ho detto: no, non mi interessa. È una ragazzina, una di
quelle che
mi seguono. Mi sono dato una regola: mai con una fan. È
anche
minorenne! Ma ho esagerato: volevo solo scoraggiarla, e invece ho
finito per offenderla. Mi guardava come se fossi un idol o un
cantante k-pop: eravamo nel dojo, da soli. Non
sapevo come
uscirne e ho detto una cazzata. Di questo mi
dispiace. E no:
non me ne frego.”
“Allora,
punto
primo: smettila di vantarti delle tue ammiratrici,”
ribatté Hyuga
appoggiando il gomito sul tavolino e agitando il pollice davanti al
volto di Wakashimazu, “e punto secondo,” riprese
alzando anche
l'indice “se la cosa ti pesa tanto chiedile scusa e falla
finita.
Dì la verità, come la stai dicendo a
noi.”
“E
quale sarebbe?
Che è troppo piccola? Che non mi interessa? Che non voglio
relazioni
con le mie ammiratrici?”
“Che
sei un
coglione” tagliò corto Kojiro, che già
ne aveva abbastanza di
tutta quella storia. Era stanco di fare lo Matsuyama della
situazione.
Takeshi,
dato il
silenzio imbarazzato che era calato dopo l'ultima sparata del
Capitano, si dileguò furtivamente in direzione del banco dei
gelati.
“Wakashimazu...”
riprese Hyuga dopo una breve pausa, voce bassa, seria: “io non
sono uno stronzo come Wakabayashi, vero?”
Ken lo
guardò come
si guarda un cucciolo che ti fissa ad orecchie basse dopo aver
distrutto mezza casa. Fece un grande sospiro, socchiudendo gli occhi
e lasciando cadere le spalle. “Devo andare” disse
solamente,
prima di alzarsi dal tavolo e dirigersi verso il dojo, lasciando un
attaccante piuttosto perplesso dietro di sé.
***
Il
Capitano, come
avrebbe anche potuto immaginarsi, non era stato di nessun aiuto: alla
fin fine avrebbe dovuto fare i conti da solo: come sempre.
Devi
colpire alle
spalle tuo padre e dirgli che per il calcio è più
importante del
karate?
Da
solo.
Devi
farti valere
con Mikami per il posto di portiere titolare della nazionale?
Da solo.
Debuttare
in Europa
con la nazionale senza aver ricevuto davvero una preparazione
atletica e tattica adeguata, spaccarsi la mano pur di parare un
rigore per salvare partita e orgoglio. Tornare a casa a leccarsi le
ferite.
Da
solo.
Forse,
si
disse, questa situazione non era poi così diversa
dal dover
parare un rigore. E farsi male, e dover
poi aggiustare
ciò che si era rotto.
Da
solo, s'intende.
***
L'opportunità
di
porgere le proprie scuse arrivò prima di quanto pensasse:
come
immaginava, al suo arrivo al dojo di famiglia c'erano ancora gli
allievi che stavano ultimando la lezione. Fece il giro lungo per
entrare senza farsi vedere, evitando di disturbare l'esecuzione degli
esercizi, ma i suoi occhi dardeggiavano a destra e sinistra, in cerca
della ragazzina della settimana precedente.
Eccola
lì: in
terza fila, i movimenti maldestri e scoordinati di chi ha appena
iniziato a praticare quella disciplina. Suo malgrado sorrise: gli
vennero in mente le sue prime lezioni, le sue titubanze, i suoi
sbagli, l'impegno e la dedizione verso una tradizione di famiglia.
Poi, il calcio che subentra al karate, la gamba rotta, la delusione
del padre nell'apprendere che lui voleva seguire una strada
diversa...
A
lezione
terminata, i ragazzi salutano e si apprestano a raggiungere gli
spogliatoi.
Sono diventato
anche uno stalker,
adesso, si
disse mentre la
teneva d'occhio di nascosto.
“Hey”,
esordì poco originalmente per attirare la sua attenzione,
una volta
che tutti gli altri allievi avevano sgombrato il corridoio. La vide
bloccarsi sui suoi passi ed irrigidirsi, senza voltarsi. A Ken si
strinse il cuore. Ha ragione il Capitano: sono
stato
proprio uno stronzo.
“Senti,
io...” tentò, ma la ragazzina riprese la sua
marcia verso
l'uscita. “No, aspetta!” e si slanciò in
avanti per afferrarle
il polso.
Aprì
la bocca e prese fiato per dire qualcosa, ma, come pochi giorni
prima, non uscì nulla di intelligente.
“Dammi
il tempo di spiegarmi, io non...” io
non sono uno
stronzo-io non sono come Wakabayashi-io non me ne frego-io non
volevo-io non...Tu
NON che cosa,
Ken? Come pensava di continuare?
Ken
era abbastanza impreparato ad affrontare quella situazione, ma era
ancora meno preparato a vedere una ragazza piangere.
Per colpa sua.
Ma
quando lei si
girò, per guardarlo negli occhi nonostante le lacrime,
qualcosa
scattò.
Rispetto.
Quella
ragazza, sedici anni da poco compiuti, aveva più coraggio di
lui,
per riuscire a guardarlo dritto in faccia nonostante l'umiliazione
subita, per riuscire a guardarlo con gli occhi umidi ma decisi, privi
della vergogna che invece abitava nei suoi.
Le
parole che fino a poco prima si strozzavano nella gola, furono
sciolte dall'intensità di quello sguardo.
“Io
non riesco a perdonarmi di averti trattata in quel modo. Mi dispiace,
sono stato insensibile e stupido, non penso una parola di quello che
ho detto la scorsa settimana. Tu...” prese una pausa per
riprendere
fiato e allentare la tensione “tu... tu non sembri affatto
una
ragazzina di dodici anni, tu sembri esattamente quello che sei: una
giovane donna che ha dato una lezione ad un'idiota. Il bambino fra
noi due stato io.” Fece un passo indietro: “Spero
vorrai
accettare le mie scuse e darmi la possibilità di dimostrarti
che
sono meglio di come mi sono presentato”, concluse con un
inchino.
***
Ken
Wakashimazu non era come se lo era immaginato, era
meglio.
Mentre
rimetteva a posto la sua bacheca, riattaccando e ri-incollando foto e
articoli.
Le
aveva chiesto scusa, si era inchinato
davanti a lei. Come l'aveva chiamata? Ah, sì: giovane
donna.
D'altra
parte, tutti possono sbagliare nella vita, ma se sbagliare era un
difetto di molti, chiedere scusa era un pregio di pochi: ed era
certamente un pregio del suo angelo dai capelli
corvini.
“Bacheca
ripristinata, sorellina? Tutto perdonato?”
“Sì,
fratellone: perdonare non cambia il passato, ma cambia il futuro!”
Porca
miseria, sua sorella stava crescendo fin troppo in fretta.
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