Un
lungo grido, come il lamento di un animale morente, esplose nel
silenzio dell’abitazione.
Ken,
d’istinto, aprì gli occhi e si alzò a sedere sul
letto.
Poi,
con un gesto deciso, scostò le lenzuola e posò i piedi
nudi sul pavimento.
Che
cosa era successo? Perché Genzo aveva urlato?
Si
era infiltrato un ladro?
Si
guardò intorno, cercando qualche arma. Qualsiasi cosa fosse
successa, nel suo attuale stato, Genzo non sarebbe stato in grado di
difendersi da solo.
Inoltre,
c’era la possibilità che un eventuale aggressore fosse
armato.
Scorse,
posato sulla scrivania, un vaso panciuto, adorno di vivaci motivi
colorati su pancia e collo.
Lo
prese e, per alcuni istanti, lo guardò. Sarebbe stata una
valida arma, ma non poteva lasciare nulla al caso.
Avrebbe
dovuto giocarsi bene le sue carte.
Cauto,
si avviò verso la porta, la aprì e uscì dalla
stanza.
Percorse
il corridoio, le orecchie tese a qualsiasi rumore. Non udiva nulla.
Eppure,
non si era sognato quell’urlo.
Ne
era certo, qualcosa era accaduto.
Genzo
era stato ucciso, senza alcuna possibilità di difesa?
Eppure,
avrebbe dovuto udire qualche rumore sospetto.
Gli
sembrava che nulla avesse senso.
Cauto,
posò la mano sulla maniglia dell’uscio della cucina e la
aprì.
Lanciò
uno sguardo nell’ambiente, vagamente illuminato dalla tenue
luce di una lampada. Non gli pareva che ci fossero segni di
colluttazione.
L’ambiente
era ordinato, come sempre.
Un
respiro affannoso, ad un tratto, attirò la sua attenzione e il
giovane si girò.
Steso
sul divano letto al centro della cucina, Genzo dormiva.
Il
suo corpo era teso, come una sbarra d’acciaio, le sue mani si
stringevano attorno al lenzuolo in una presa spasmodica, mentre
grosse gocce di sudore strisciavano sulle sue guance, pallide
d’angoscia.
Di
tanto in tanto, i suoi occhi si riaprivano, rivelando pupille vitree,
fisse, quasi prive di vita.
Un
debole sospiro di sollievo fluì dalle labbra di Ken e il
giovane karateka posò il vaso sul tavolo. Per fortuna, non era
accaduto nulla.
Nessun
ladro era entrato e Genzo non era stato vittima di alcuna violenza
fisica.
Poi,
la mano dello sconforto strinse il suo cuore. Si era ripetuta la
medesima situazione di diverse sere.
Non
era cambiato nulla.
Il
sonno di Genzo era dilaniato da incubi orrendi e, ne era sicuro,
riguardavano i tragici eventi accaduti in Germania.
Pur
non avendo alcuna colpa, il suo cuore si macerava nei rimorsi e la
stampa, crudele, contribuiva ad esacerbare il suo stato di
prostrazione.
Quell’incidente,
oltre alla vita del povero Andreas Schumann, si era impadronito
dell’esistenza del suo rivale portiere e l’aveva
calpestata, ferita, annientata.
Andreas
giaceva sotto cinque metri di terra, pianto dai suoi famigliari,
mentre Genzo si consumava nella solitudine di uno sperduto villaggio
della Romania.
Cercava
di tenere lontane le persone a lui care dall’accanimento della
stampa e di curare le ferite del suo animo.
Ma
quel rimedio si era rivelato peggiore del male.
Esitò,
poi posò le mani sulle spalle di Genzo. Doveva riuscire a
svegliarlo.
Era
doloroso vedere il suo viso, distorto dalla pena.
– Stai
tranquillo. – affermò Ken, il tono pacato.
Il
corpo dell’ex portiere, tuttavia, si agitò, come un
epilettico durante una crisi assai violenta, e lunghe lacrime
bagnarono le sue guance.
Il
karateka, d’istinto, aumentò la pressione delle sue
mani. Sentiva una forte compassione per Genzo, ma non doveva perdere
la lucidità.
La
fermezza gli avrebbe permesso di ottenere il suo obiettivo.
Doveva
fargli sentire la sua presenza, affinché potesse emergere
dall’oscurità di quel sogno.
Diverso
tempo dopo, il corpo di Genzo smise di agitarsi e si rilassò
sul materasso.
L’ex
portiere, con molta fatica, sollevò le palpebre e il suo
sguardo si rifletté negli occhi neri di Ken.
Una
ruga di contrarietà attraversò la sua fronte e un
sospiro fuggì dalle sue labbra. Si era ripetuta la medesima
storia.
I
suoi sonni erano dominati da quel ricordo tragico, rosso di sangue,
e, confondendo il sogno con la realtà, aveva gridato.
Quante
volte aveva svegliato Ken e aveva disturbato il suo riposo?
– Ti
devo chiedere scusa. Chissà cosa avrai pensato. –
mormorò, mortificato. Si vergognava di quelle manifestazioni
inconsulte, ma non riusciva a controllare se stesso, durante la
notte.
Quando
dormiva, il suo autocontrollo si infrangeva e la sua mente, priva di
freni inibitori, si sbrigliava in incubi sempre più
sanguinolenti.
Ken
sollevò le labbra in un debole sorriso.
–
Niente
di così scandaloso. Ho semplicemente pensato che fosse entrato
un ladro e tu avessi bisogno di aiuto. Mi sono portato un’arma,
anche se improvvisata. – dichiarò, ironico.
Girò
la testa verso il tavolo e Genzo, seguendo il suo sguardo, scorse il
vaso.
A
sua volta, Genzo ridacchiò. In quei momenti, egli non si
sentiva in grado di difendere se stesso, logorato dalla sofferenza,
ma, contro un atleta come Ken, avrebbe potuto sentirsi al sicuro.
Si
era preoccupato per lui e per la sua incolumità e non lo aveva
giudicato.
Doveva
ammetterlo, era felice di essere oggetto di tante e tali premure.
– Con
un difensore come te, non avrei avuto nulla da temere. Sarebbe
bastata la sola tua forza a metterlo in fuga. – scherzò.
Una
flebile gioia intiepidì il cuore di Ken, come una candela in
una stanza fredda. Non lo aveva mai sentito ironizzare su qualcosa,
quando erano insieme.
Voleva
credere ad un pur timido segnale di ripresa, ma non doveva farsi
illusioni.
– Lo
vedo. – dichiarò ad un tratto Genzo, serio.
Ken
non rispose e, in un gesto affettuoso, posò la mano destra sul
suo polso sinistro. Ne era sicuro, parlava del povero Andreas
Schumann, ma non era necessario porre domande stupide al suo rivale.
Doveva
essere lui a esprimere le sue emozioni.
Non
avrebbe potuto curarlo, ne era cosciente, ma sarebbe stato un buon
principio.
Quantomeno,
non avrebbe dovuto sopportare da solo un tale, opprimente peso-
– Sì,
nei miei sogni c’è sempre lui. Andrea
Schumann.
Vedo il suo corpo privo di vita, straziato da molteplici ferite, da
cui scende sangue rosso. Ha il collo spezzato da quella terribile
caduta. Ma, lentamente, alza la testa, come una marionetta
disarticolata
in un film horror di quarta categoria. E mi guarda. – continuò.
Si
interruppe e lunghi brividi percorsero la sua schiena. Il ricordo di
quei sogni era dilaniante per lui, eppure non riusciva a fermare le
sue parole.
L’affetto
silenzioso di Ken gli ispirava fiducia e lo incoraggiava a parlare
dei suoi tormenti.
Nonostante
la loro rivalità, si era mostrato comprensivo e, in quelle
giornate di vicinanza, gli aveva offerto un sostegno prezioso.
– Come
sono i suoi occhi? – chiese
Ken.
Si
maledì per la sua domanda. Si era ripromesso di lasciarlo
esprimere senza porgli domande inopportune o sgradite, ma si era
lasciato dominare dalla curiosità.
Non
aveva tenuto conto dello sforzo compiuto da Genzo.
– Sono
occhi privi di vita. A volte, vedo solo orbite vuote, quasi di
scheletro. Eppure, mi accusano sempre. Riesco a vedere odio, rancore
e dolore. I suoi occhi mi odiano perché io sono vivo,
nonostante tutto. E lui è morto e non potrà più
esaudire i suoi sogni. Me lo ricorda sempre. – mormorò.
Trattenne
a stento un singhiozzo, poi tacque e, per alcuni istanti, fissò
un punto indefinito davanti a sé.
– E’
come se, dall’Aldilà, si fosse assunto il compito di
punirmi perché sono vivo. Vuole trasformare la mia vita in un
inferno, per riequilibrare una sorte ingiusta. O, almeno, io sono
convinto di questo. E, per questo, io non riesco a sostenere il suo
sguardo. Arretro. – concluse.
Ken
rifletté. No, non era lo spirito di Andreas a punire Genzo da
un’altra dimensione, ma era il suo compagno a condannare se
stesso, pur senza avere alcuna colpa.
Il
suo rimorso era stato inasprito da una assurda campagna di stampa,
che lo aveva tramutato in un assassino privo di emozioni.
Si
erano spinti a comparare il suo caso a quello dei criminali nazisti
che, per fortuna o calcolo, erano stati risparmiati dalla scure del
processo di Norimberga.
Il
volto di Andreas era solo il riflesso distorto del suo incessante
tormento.
Come
posso aiutarlo?, si chiese il
portiere karateka, triste. Forse, avrebbe potuto dormire con lui, per
dargli un conforto.
Ma
il suo ritegno frenava la sua bocca e gli impediva di porre una
simile domanda.
Con
lui, Genzo condivideva una natura riservata e non voleva costringerlo
a simili contatti.
Doveva
però dargli la facoltà di liberare la sua mente,
almeno per qualche ora.
Forse
ho una idea., pensò.
Nessuno dei due sarebbe riuscito a dormire.
Ma
non erano obbligati a consumare il tempo in domande prive di senso.
– Mi
hai detto che il padrone di casa ti ha insegnato a giocare a scacchi.
Puoi insegnare a me questo gioco? – chiese. Quel gioco
costringeva l’intelligenza ad un impegno estenuante e avrebbe
dato a entrambi un po’ di requie da quelle emozioni.
Ne
avevano bisogno entrambi, seppur per ragioni differenti.
Genzo
gli lanciò uno sguardo lucido di gratitudine. La proposta di
Ken era un tentativo di allontanare, seppur per poco, la sua mente da
quel tormento e non poteva non essergliene grato.
E,
forse, non era stata una pessima idea.
In
un momento di buonumore, il proprietario della casa gli aveva
insegnato a giocare a scacchi e, spesso, lo costringeva a lunghe
partite con lui.
Aveva
sopportato quel tormento con pazienza, ma non poteva dire di non
apprezzare quel gioco.
– Va
bene. Vado a prendere la scacchiera che ho in camera. – mormorò
l’ex portiere dell’Amburgo.
Si
alzò dal letto e uscì dalla cucina.
Qualche
istante dopo, tornò e, tra le mani, stringeva una valigetta di
forma vagamente rettangolare.
La
posò sul tavolo, la aprì e, con cautela, estrasse una
scacchiera di marmo a riquadri bianchi e verdi.
Poi,
con cura, collocò da un lato le pedine verdi, dall’altro
quelle bianche.
–
Vieni.
Ora ti mostro cosa fare. Ti trasformerò nel mio rivale anche
negli scacchi. – affermò, un mezzo sorriso sulle labbra.
Non era guarito, eppure si sentiva sereno.
Avrebbe
dovuto aggrapparsi a quei fragili momenti di tranquillità?
Non
lo sapeva e non voleva pensarci
Ken
accettò e si sedette dall’altra parte del tavolo. Oltre
quella maschera, era piacevole vedere un riflesso del suo vecchio
rivale.
Una
speranza era ancora viva, malgrado la tragedia accaduta in Germania.
Poche
ore dopo, la partita cominciò.
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