A
passo rapido, Yanez uscì dalla capanna.
Il
suo sguardo, circospetto, vagò ora a destra, ora a sinistra.
Il
silenzio della notte, come un serico lenzuolo, avvolgeva l’isola
di Mompracem e la luce della luna piena, che giganteggiava in un
cielo di cobalto, libero da nubi, ricopriva d’argento la
rigogliosa vegetazione, scossa da un tenue vento.
Il
giovane accennò ad un sorriso. La splendida ed esuberante
naturale tropicale dell’isola era fonte di godimento per i suoi
occhi e il suo cuore.
Lontano
dai clamori, poteva riflettere e abbandonare il suo estenuante stato di tensione.
Percorse
cinquecento metri e giunse fino al porto, a cui erano ancorati i
prahos.
Le
imbarcazioni, sfiorate dal vento, ondeggiavano ora a destra, ora a
sinistra, mentre l’astro notturno toccava coi suoi raggi argentei la
superficie dell’oceano.
Il
giovane lasciò spaziare lo sguardo e sentì gli occhi
velarglisi di lacrime. Lo spettacolo della natura, immersa nel
silenzio, donava al suo cuore una dolce serenità.
Poteva
smettere di recitare la parte del pagliaccio sempre allegro.
Una
fitta di dolore, ad un tratto, trapassò la sua spalla,
distogliendolo dai suoi pensieri.
Strinse
i denti e si sedette su un masso. Doveva estrarre il proiettile o il
dolore l’avrebbe sopraffatto.
E
non desiderava mostrare a nessuno la sua debolezza.
Paco,
quasi sentisse i suoi pensieri, aprì la bocca ed emise uno
strido di disapprovazione.
L’avventuriero
sospirò e accarezzò la schiena dell’animale.
– Non
posso mostrarmi debole. Non posso. – dichiarò, atono.
L’ennesimo assalto degli inglesi, guidati da Brooke, si era
concluso con una loro grande vittoria.
C’erano
stati diversi feriti ed egli non era sfuggito alle pallottole.
Aveva
fatto passare il suo sangue per quello di un soldato inglese caduto e
nessuno gli aveva domandato nulla.
– Per
fortuna. – mormorò. Era riuscito a nascondere il suo
dolore ai suoi compagni di battaglia.
Il
silenzio della natura avrebbe veduto la sua sofferenza.
Si
tolse la maglia, sussultando per le fitte, e fissò il suo
riflesso nel mare.
Sul
suo petto e sull’addome, si attorcigliavano in forme diverse
decine di cicatrici, simili a toppe di cuoio e, sulla parte destra
del torace, spiccava una ferita rossastra.
Il
giovane ansimò, come un toro rabbioso. Quelle ferite,
risalenti a tempi ormai remoti, raccontavano la sua storia di figlio
illegittimo, condannato dalla società.
La
sua colpa, in quella società ipocrita, era quella di una
nascita non consacrata dal sacro e indistruttibile vincolo del matrimonio.
Per
questo, era condannato a non conoscere l’affetto di una
famiglia integra.
Sua
madre e sua nonna gli avevano voluto bene, ma aveva sentito la
mancanza di una figura paterna solida e affettuosa.
Per
il nobile Antonio de Gomera non era altro che un servo, privo di
qualsiasi dignità.
Eppure,
a lui, a causa del suo titolo nobiliare e del colore della sua pelle,
era donato un rispetto esagerato e immeritato.
Scosse
la testa e, dalla tasca del pantalone, trasse uno specchietto, un
coltello, del filo e dell’ago.
Fissò
lo specchietto sulla ferita. Era arrossata, ma non sembrava grave.
Trasse
un grosso respiro, poi, cauto, inserì il coltello tra i due
lembi della lesione.
Strinse
i denti, mentre gocce di sudore gelido bagnavano le sue tempie. Lame
di sofferenza colpivano la sua spalla, ma non doveva cedere.
Non
doveva permettersi alcun cedimento.
Non
devi permetterti nessun crollo., pensò.
La debolezza era stata la causa delle sue sventure.
Ma
non era più il ragazzino fragile e ingenuo, facile obiettivo
dei vigliacchi e dei prepotenti.
Nessuno
si sarebbe approfittato di lui.
Qualche
istante dopo, il proiettile cadde sul masso, con un breve tonfo.
Il
giovane prese il bossolo e lo sollevò, come fosse un trofeo.
Un
raggio di luna colpì la pallottola, accendendola di deboli
riflessi metallici.
–
Non
sono un debole… Non sono un debole… – mormorò.
La sua determinazione aveva sconfitto il dolore di una ferita.
Come
sempre, aveva saputo tirarsi d’impaccio da una situazione
pericolosa.
La
malinconia, come nebbia, coprì il suo cuore e i suoi occhi si
riempirono di lacrime. Certo, non era più il ragazzino fragile
e inerme.
Sapeva
difendersi e nessuno poteva più offenderlo.
I
suoi pugni e la sua abilità con la pistola lo rendevano un
avversario temibile per chiunque.
L’uccellino
implume si era tramutato in aquila possente e tale metamorfosi non
era attribuibile a nessuno, se non alla sua tenacia.
Nessuno
lo aveva aiutato, eppure ci era riuscito.
Non
era stato travolto da nulla.
Eppure,
non era felice.
Quel
suo continuo stato di tensione e di paura era per lui fonte di
logoramento.
Perché
doveva sempre guardarsi le spalle? Avrebbe tanto desiderato potere
donare a qualcuno la sua fiducia.
Paco
si strusciò contro il suo collo, come un gatto che fa le fusa,
e il giovane accennò ad un sorriso.
–
Gli
animali sanno essere meglio degli uomini. – mormorò.
Lo
accarezzò sulla schiena. Apprezzava l’affetto e la
premura del suo amico camaleonte, ma non bastava.
Desiderava
donare la sua fiducia ad un essere umano leale.
Ma
si poteva costruire qualcosa che era stato rotto?
–
Cosa
ti hanno fatto, Yanez? – domandò una voce sgomenta.
Il
portoghese sussultò e si irrigidì. Avrebbe riconosciuto
ovunque la voce di Sandokan.
Come
aveva fatto a raggiungerlo?
Certo,
conosceva Mompracem, ma doveva essere addormentato, stremato dalla
fatica del combattimento.
Come
aveva fatto a sentire il suo passo e a seguirlo?
Sandokan,
per alcuni istanti, rimase immobile, lo sguardo fisso sulla schiena
robusta dell’amico. Tante cicatrici da frustata si dispiegavano
sulla sua pelle nuda.
Erano
lesioni antiche, da tempo guarite.
Forse,
risalivano all’infanzia del suo amico.
Una
morsa di disgusto strinse il cuore del giovane asiatico. Chi mai
poteva accanirsi sul corpo di un bambino innocente?
Perché
me ne stupisco?, si
chiese. La crudeltà degli avidi non si curava di nulla e di
nessuno.
Pur
di giungere al loro obiettivo, simili soggetti non esitavano a
danneggiare gli innocenti, incuranti delle loro pene.
Anche
egli aveva conosciuto le crudeli sferzate di una sorte avversa, che
aveva distrutto la sua famiglia.
Non
era il solo ad avere sofferto ed era stupido meravigliarsi
dell’esistenza delle pene altrui.
Yanez
reagiva con un sorriso sarcastico alle avversità, ma questo
non rendeva improbabile la presenza di tragedie nella sua vita.
–
Sandokan,
non dovresti guardare la mia schiena con tanto interesse. Ti ricordo
che sei fidanzato. E non credo che alla dolce Marianna faccia piacere
una simile inclinazione da parte tua. –
ironizzò
l’avventuriero lusitano. Sentiva lo sguardo verde del principe
malese su di lui e non riusciva ad ignorare la sensazione sempre più
opprimente di disagio.
Non
voleva che qualcuno vedesse le prove della sua debolezza.
Detestava
quelle lesioni, perché rinverdivano nella sua mente il ricordo
di una infanzia crudele, priva di affetto e premure.
Sandokan
colmò la distanza tra di loro e allungò la mano verso
la spalla destra dell’amico.
Di
scatto, l’europeo si irrigidì e gocce di sudore gelido
strisciarono sulla sua mascella .
–
Sandokan,
non toccarmi! – gridò.
Tremò
e il suo respiro accelerò. Forse, le intenzioni del suo
compagno malese erano oneste, ma quella ferita era legata ad un
ricordo terribile.
Fernando,
suo fratellastro di sangue, lo aveva fatto frustare perché
aveva osato osservare con curiosità un prezioso orologio, che
gli era stato donato da suo padre.
Ricordava
le sferzate che, implacabili, si abbattevano sulle sue spalle e sulle
sue braccia.
In
quei momenti, gli era parso di sentire la lugubre risata della
sorella di Fernando, Adriana.
Perfino
il nobile marchese Antonio de Gomera fissava la sua fustigazione con
espressione compiaciuta.
Come
si poteva godere della flagellazione di un bambino, incapace di
difendersi?
Il
principe malese fermò il braccio a poca distanza dalla spalla
del compagno. A cosa era legata una simile ritrosia?
La
sua solita ironia era svanita, sostituita da una paura glaciale.
Hai
paura di me?,si domandò
Sandokan, sgomento. La sua schiena, in quel momento, si era
irrigidita, come se volesse difendersi da un’aggressione.
Ma
come poteva vedere in lui un nemico?
Era
preoccupato per il suo stato fisico e desiderava curarlo.
Il
suo compagno portoghese, però, si era chiuso in un silenzio
aspro e doloroso e non gli consentiva di avvicinarsi.
Ne
era sicuro, il suo istinto associava il tocco ad una sventura, da cui
doveva difendersi.
Girò
attorno al compagno e si chinò presso di lui, prendendogli le
mani.
Yanez
sussultò e provò a ritrarsi, ma il principe malese
accentuò la sua presa.
–
Guardami,
Yanez. – gli ingiunse Sandokan, calmo.
Il
portoghese ansimò, poi fissò il suo sguardo ceruleo,
velato di sgomento, nelle iridi di giada dell’amico.
Si
morse le labbra. I suoi occhi gli parevano limpidi e sinceri, ma non
riusciva a fidarsi del tutto.
Il
suo istinto non riusciva ad accordare fiducia a quel giovane.
I
comportamenti, nonostante l’apparenza leale, potevano occultare
fini tutt’altro che limpidi.
–
Yanez,
se non vuoi dirmi chi ti ha fatto del male non ti costringerò.
Ma permettimi di curare la tua ferita. Io desidero che tu stia bene.
– dichiarò il giovane pirata malese.
L’europeo
ansimò, sorpreso dalle sue parole. Non poteva non sentire la
limpidezza di quelle parole così ferme.
A
Sandokan importava del suo benessere.
Aveva
accettato la sua ritrosia, ma era deciso ad aiutarlo.
Chinò
la testa e lasciò che il cappello oscurasse i suoi occhi. Il
suo cuore, in quel momento, era oppresso dal peso della vergogna.
Aveva
paragonato Sandokan al suo stupido e vacuo fratellastro, che era
capace di celare la sordidezza della sua natura dietro il suo
bell’aspetto e le sue maniere raffinate.
– Mi
dispiace… Devo chiederti scusa. – soffiò, il
volto velato d’un intenso rossore. Sandokan non conosceva la
sua storia, ma questo non leniva la sua colpa.
Si
era lasciato trascinare dal suo passato e aveva dato al suo amico
malese colpe inesistenti.
Sandokan
allungò la mano e la posò sulla sua guancia, in una
gentile carezza.
– Di
cosa? I ricordi del passato, spesso, distorcono la nostra percezione
della realtà. – rispose, tranquillo.
Il
portoghese, sentendo quelle parole, si rilassò. Quelle parole,
unite a quel tocco tenero, avevano liberato il suo cuore da un peso.
Sandokan
desiderava aiutarlo, ma non lo aveva forzato a rivelazioni per lui
tristi.
Un
simile riguardo, privo di enfasi, era il segno di una considerazione
assai elevata.
– Fai
quello che devi. Mi fido di te. –
Le
dita del pirata malese, leggere, sfiorarono la lesione.
E’
piacevole., si disse Yanez,
meravigliato. Quel tocco, così cauto, donava requie al suo
cuore.
Tra
lui e Sandokan non era alcun legame di sangue, ma la gentilezza del
malese era quella di un fratello.
Nei
suoi movimenti, vibravano degli scrupoli.
Il
sangue non fa di una persona un familiare., rifletté,
quasi stupito. Aveva creduto che l’amore fosse legato al
sangue, ma non era sempre così.
L’affetto
di una famiglia poteva nascere ovunque, a prescindere dalla razza e
dalla parentela.
Nonostante
l’assenza di legame di sangue, Sandokan poteva essere definito
suo fratello.
Si
era accorto del suo stato di salute e lo aveva seguito.
Erano
bastati pochi dettagli per permettergli di andare oltre la sua
maschera sorridente e ironica.
E
una simile attenzione era degna di un fratello.
Sandokan,
ad un tratto, si alzò e gli tese la mano.
– Ho
finito. Guarda tu stesso. – gli disse.
Il
portoghese chinò la testa e fissò la ferita, che era
stata attentamente suturata.
Fissò
Sandokan, stupito. Come aveva fatto a non fargli sentire alcun
dolore?
Non
aveva percepito la punzecchiatura dell’ago.
Accarezzò
la schiena di Paco, appollaiato sulla sua spalla, poi accettò
la sua mano e si alzò.
–
Yanez,
amico mio… Qualsiasi cosa ti sia successa, io non ti tradirò
mai. Sei il mio fratellino. – disse, calmo.
Il
giovane lusitano sollevò le labbra in un sorriso. Il suo cuore
era libero da un gravoso peso.
Ed
era una sensazione magnifica.
In
quel momento, sentiva di potere cominciare una nuova esistenza,
emancipato dalle ferree catene del suo passato.
– Ti
ringrazio, fratellino mio. –
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