Nome
(EFP e forum): Evil
Lady Nanto/Fiore di Giada
Titolo
della storia: il
peso della purezza
Prompt
e fiore scelto:
ethos/cipresso
Genere:
introspettivo,
malinconico, angst
Note
(facoltative):
il personaggio è modellato sulla figura del grande
meridionalista molfettese Gaetano Salvemini e le storie si possono
definire sovrapponibili, se non fosse per alcuni cambiamenti. Per
esempio, il terremoto citato nel racconto è quello di Reggio
Calabria del 1907, non quello terribile del 1908, che devastò
le due regioni con centomila morti. In quest'ultimo, catastrofico
sisma Salvemini perse moglie, cinque figli e sorella.
I
figliastri di Salvemini sono di origini francesi (essendo figli di
primo letto della sua compagna), mentre nella storia sono franco -
irlandesi.
Ho
scelto come fonte di ispirazione la storia di questo grande
meridionalista, perché, con la sua scelta di non intervenire
per salvare il figliastro, che si era compromesso con il regime di
Vichy, Salvemini ha mostrato un senso di giustizia adamantino,
ferreo. Un'etica che, forse, sarebbe necessario riscoprire senza
concessioni. Ma questa è solo una mia opinione.
Il
cipresso, qui, rappresenta il lutto, perché la scelta di
Salvemini ( e quella del mio personaggio) non è stata affatto
facile e si è portato il peso del dolore per tutta la vita.
Spero di avere onorato bene la memoria di questa vicenda.
Il
cognome “Selvaggi” è un altro omaggio ad un
maestro di scuola lucano, Gennaro Selvaggi, che fu ammazzato dal
fuoco fascista durante la terribile strage di Via Niccolò
dell'Arca a Bari. (ed è una zona da cui passo spesso, quando
vado a Bari), definito da Vito Maurogiovanni “un lucano
burbero, ma dal cuore d'oro”.
Questa
storia partecipa al Contest "Ombre Trasparenti" indetto da
6Misaki sul forum di EFP.
A
passo rapido e deciso, Armand si avvia verso il patibolo.
Il
vento, gelido, increspa il suo cappotto e scompiglia i suoi lunghi
capelli scuri.
Il
suo sguardo azzurro non si abbassa, fiero, ostinato, risoluto. Non
vuole dare alcuna soddisfazione ai suoi carnefici.
In
quei lunghi, terribili anni di guerra, ha lottato per un ideale.
Ha
sbagliato, ne è cosciente, ma non può rinnegare le sue
azioni.
Sereno,
lascia che lo leghino, poi, con un gesto cortese, rifiuta la benda.
Desidera morire fissando negli occhi il plotone di esecuzione.
Loro
devono vedere il suo desiderio di affrontare le conseguenze delle sue
azioni scellerate.
I
soldati, come un unico, sinistro meccanismo, si posizionano davanti a
lui, le armi tese.
Armando
attende, il cuore fermo.
Risuonano
gli spari . I proiettili, implacabili, attraversano le sue carni.
Con
uno scatto, alza la testa. La vita zampilla col sangue dal suo corpo
dilaniato, ma vuole catturare un frammento di cielo grigio.
Poi,
un nero velario copre i suoi occhi e il suo cuore cessa di battere.
Con
un lungo grido, Francesco Selvaggi aprì gli occhi e si alzò
a sedere sul letto.
Per
alcuni istanti, rimase immobile, lo sguardo verde stralunato e
l'ampio petto scosso da ansiti. Di nuovo, aveva sognato la tragica e
dolorosa fucilazione di suo figlio Armando.
Si
passò una mano tra i folti capelli bianchi, umidi di sudore,
poi il suo corpo nerboruto si irrigidì, come fosse fatto di
marmo. Quel terrificante, sanguinoso conflitto, innescato dalla
bruciante e folle ambizione della Germania nazista, si era concluso
con la sconfitta dell'Asse.
Pur
essendo italiano, era felice di un tale risultato, anche se deprecava
le sofferenze della popolazione civile.
Per
lui, il fascismo era un abominio e non vi era alcuna possibilità
di trattativa, pena la perdita di credibilità.
Si
alzò dal letto e, per alcuni istanti, camminò a piedi
nudi attraverso la camera da letto. Quegli anni erano stati
tempestosi, ma era riuscito a non farsi incantare dalle sirene
dell'opportunismo e del fanatismo.
Pur
di restare fedele ai suoi ideali socialisti, non aveva esitato a
rompere amicizie antiche, nate e cresciute negli anni giovanili.
Sospirò
ancora e le lacrime tremarono nei suoi occhi verdemare. Erano state
scelte dolorose, che gli avevano dilaniato l’anima, ma non si
era mai pentito di avere seguito il sentiero accidentato e irto della
virtù.
Si
avvicinò all’ampia finestra della sua camera, che dava
su un ampio giardino, circondato da due lunghe file di cipressi,
velati dalla luce argentea della luna.
Un
debole vento soffiava tra le foglie degli alberi, facendole
ondeggiare lievi ora a destra, ora a sinistra.
Di
nuovo, deboli singhiozzi strinsero il cuore dell’uomo. Solo, in
quella casa vuota, poteva piangere il suo dolore di padre.
Le
sue scelte, pur inevitabili, avevano lasciato imponenti lacerazioni
nel suo cuore.
Scosse
la testa. Armando, in fondo, era pur sempre il primogenito della sua
amata Violet, la sua seconda moglie.
Con
lei, coraggiosa e colta donna irlandese, aveva creduto di potere
conoscere la primavera di un nuovo focolare, dopo la distruzione
della sua prima famiglia.
Le
convulsioni, inarrestabili, scuotevano la terra.
Gli
edifici si sbriciolavano, come fossero fatti di sabbia,seppellendo
persone e animali sotto il loro peso.
Lampi
balenavano nel cielo grigio e i loro cupi brontolii si mescolavano ai
boati del terremoto.
Sconvolto,
si aggirava nella città di Reggio Calabria e, testardo,
continuava a scavare, gli occhi arrossati dalla polvere e dalle
lacrime. Doveva trovare sua moglie, suo fratello e i suoi tre figli.
Non
potevano confondersi coi poveri corpi che continuavano a emergere dal
mare di detriti e rovine, come i resti di un naufragio.
La
speranza, che animava il suo corpo lesionato, si era dovuta arrendere
alla crudele realtà.
Prima,
aveva estratto il corpo privo di vita di sua moglie Marina.
Ancora
prima di averla veduta in viso, aveva riconosciuto i suoi lunghi e
riccioluti capelli neri.
Era
distesa a pancia in giù e, sotto di lei, giaceva il corpo
privo di vita di suo figlio Gastone.
Le
lacrime si erano congelate nei suoi occhi. Marina era una donna
gracile, eppure si era frapposta, come uno scudo, tra le pietre, che
cadevano inesorabili, e il corpo del loro secondogenito.
Voleva
dargli la possibilità di vivere.
Ma
non era stato sufficiente, perché erano morti schiacciati
entrambi.
Non
si era però arreso. Suo fratello Michele era con lei e,
spesso, quando lui non era presente, visitava la loro casa.
Forse,
lui e gli altri suoi due figli erano vivi.
Anche
questa speranza, ben presto, si era infranta, come un bicchiere di
vetro che cade sul pavimento.
Michele
aveva cercato di proteggere il suo ultimo figlio col suo corpo
imponente.
Ma
non era servito a nulla.
– Sei
arrivata tu, Violetta… – sospirò. Per non farsi
annientare dal tarlo malefico del dolore, aveva ripreso il suo lavoro
di giornalista e insegnante.
Non
voleva pensare ai volti di suo fratello, di sua moglie e dei suoi tre
figli, sporchi di calcinacci e sangue.
Si
era allontanato dalla Calabria, il cuore pesante d’angoscia. In
quel momento, avvertiva l’inderogabile necessità di un
mutamento d’ambiente.
La
Calabria era una splendida regione, per quanto straziata da
condizioni d’arretratezza ataviche, ma gli ricordava i suoi
famigliari morti.
Se
fosse rimasto a Reggio Calabria, il suo cuore non si sarebbe liberato
dalle sabbie mobili della disperazione e del lutto.
Ne
era sicuro, sarebbe ritornato, ma aveva bisogno di ricostruire la sua
esistenza, prima di riprendere la sua missione.
La
sua penna, limpida e vigorosa, era stata apprezzata negli ambienti
libertari della Toscana.
Lì,
aveva conosciuto Violet Kelly, una splendida e colta donna irlandese,
vedova di un suo caro amico francese e madre di due figli, Brigida e
Armando.
Quella
donna, dai folti capelli rossi e dagli splendenti occhi celesti, era
stata per lui un’amica fidata, d’una intelligenza
sublime.
E
i suoi due figli gli erano diventati cari e aveva donato loro nomi
italiani.
In
loro non vedeva solo il riflesso di Violetta e del suo amico, Jules
Dubois, morto di tubercolosi da diverso tempo, ma anche dei ragazzi
splendidi, a cui donare il suo affetto paterno.
Brigida
aveva mostrato, oltre il suo splendido aspetto di irlandese,
un’intelligenza vivace ed era appassionata di scienze e
mineralogia, mentre Armando aveva rivelato, oltre i suoi occhi verdi,
così simili a quelli di Violet, un’ardente passione per
la storia, l’arte e la politica.
Credeva,
in loro, d’avere trovato un nuovo focolare.
Emise
un gemito strozzato. La guerra, con la sua crudeltà, aveva
frapposto tra lui e Armando una barriera feroce, che aveva distrutto
anni e anni di premure.
Il
suo amato figlio si era schierato col regime di Vichy, al contrario
di Brigida e Violet, che erano entrate nella Resistenza francese.
Le
due donne della sua vita avevano mostrato ben più carattere di
Armando, che pure si considerava un uomo.
Mentre
loro si affannavano nella Resistenza e lottavano, lui si godeva le
delizie dello stato di collaborazionista, ne era ben sicuro.
E,
per questo, aveva deciso di troncare ogni rapporto con lui, pur
sentendo il cuore dilaniato da migliaia di lame arroventate.
Presto,
però, la storia avrebbe presentato il conto.
La
penna, leggera, scivolava sui fogli. Si era conclusa la guerra da
pochi mesi e tutto sembrava incerto, precario, sospeso.
Per
questo, aveva bisogno di perdersi nelle parole, affinché
potessero essere utili agli studenti e alle studentesse futuri.
Di
scatto, era entrata Violet, gli occhi rossi di lacrime, e si era
prostrata ai suoi piedi, il corpo scosso da singhiozzi.
– Che
cosa succede? – le aveva domandato, stupefatto.
– Lui…
Lui sarà condannato a morte… Lo hanno processato…
Ti prego… Parla con gli americani… – lo aveva
supplicato, la voce vibrante d’affetto materno.
Il
gelo aveva invaso il suo cuore e la realtà, crudele, spietata,
inflessibile, aveva illuminato la sua mente, come la forte e gialla
luce d’un riflettore. Violet era affranta perché il suo
primogenito era stato processato e condannato a morte, tramite
fucilazione.
I
vincitori non gli perdonavano il suo passato di collaborazionista.
E
lui non poteva fare a meno di concordare con loro.
Quante
volte Armando aveva incitato allo sterminio dei diversi con i suoi
quadri?
Aveva
pervertito il suo tocco d’artista in nome di ideali disgustosi.
– No.
Non lo farò. – aveva risposto, serio, implacabile,
deciso.
Violet
aveva alzato lo sguardo e aveva fissato i suoi occhi ardenti,
disperati, su di lui.
– Non
puoi… Non puoi farlo… Hai detto che gli vuoi bene anche
tu… – aveva sussurrato.
L’aveva
afferrata per le spalle e l’aveva sollevata, poi l’aveva
aiutata a sedersi su una sedia.
– Violet,
rifletti: con che coraggio possiamo chiedere la grazia per lui? Io,
te e Brigid abbiamo combattuto contro il nazifascismo e abbiamo
rischiato la vita, anche se in modi diversi. Lui, invece… Lui
invece l’ha favorito. E non lo doveva fare. – aveva
cominciato.
Violet
aveva provato a parlare, ma poi aveva taciuto, come se le parole si
fossero dissolte sulle sue labbra.
– Ci
sono problemi che superano i nostri sentimenti. Noi abbiamo fatto
delle scelte. Lui ne ha fatte altre. E determinate decisioni si
pagano, anche con la vita. E noi non possiamo disonorare il sangue di
chi è morto, solo per non soffrire. Sarebbe ingiusto. Gli
auguro di morire da uomo. – aveva detto, ferreo. In realtà,
in quel momento, avvertiva un macigno sul cuore, ma non doveva
lasciarsi intenerire dalle lacrime di Violet.
Lei
si lasciava trascinare dal suo amore materno e dimenticava il sangue
dei ragazzi morti, anche a causa delle sue parole.
Non
comprendeva quanto un dipinto potesse manipolare le menti.
Infatti,
non erano solo pistole, coltelli e fucili a distruggere vite umane.
L’arte,
piegata a fini così deplorevoli, si insinuava come un serpente
nelle menti delle persone e le portava a compiere atti immondi e ad
aderire a credenze surreali.
No,
Armando non meritava alcun perdono.
Aveva
provato ad abbracciarla, ma lei, di scatto, l’aveva allontanato
e gli aveva piantato uno sguardo ardente d’odio e rabbia.
– Ti
detesto, stronzo! Non voglio più vederti! Come tu hai ucciso
me, io ucciderò te. E sarà una morte ben più
atroce! – aveva ringhiato.
– E
hai mantenuto la parola, Violetta… – mormorò
Francesco, gli occhi lucidi di lacrime. Si era vendicata per il suo
rifiuto e aveva distrutto il loro legame.
Aveva
voluto punire la sua intransigenza, condannandolo alla solitudine.
L'amore
materno e fraterno aveva trasformato due donne splendide e generose
in demoni della vendetta, incapaci di vedere oltre i loro egoismi.
Questo
era doloroso per lui, ma non aveva potuto non rispettare le loro
volontà.
Mentre
lui si era trasferito a vivere a Potenza, in Basilicata, lei e
Brigida erano rimaste in Francia.
Pur
avendo conosciuto il peso della lotta resistenziale, erano abbacinate
dal loro amore e avevano scaricato su di lui l’esito tragico
della vita di Armand.
Lui
voleva bene a quel giovane artista, ma non poteva, in nome di un
sentimento egoistico, dimenticare i tanti, troppi giovani morti in
nome della libertà e della dignità umana.
Loro
meritavano molto più rispetto di suo figlio, perché non
si erano lasciati incantare dalle sirene dell’autoritarismo e
del potere.
Quei
giovani, di cui serbava i nomi nel cuore e nella mente, si erano
formati sui suoi scritti.
–
Eppure,
quanto fa male… – sussurrò.
Non
riuscì a trattenere un singhiozzo e si strinse le spalle con
le braccia. Con quale diritto poteva soffrire per il suo figlio
disgraziato?
Tanti,
troppi genitori avevano perduto i loro ragazzi e i loro cuori erano
sepolti in tombe di pena e tormento.
No,
non si piangeva per un criminale, che solo nella morte era riuscito
ad afferrare un estremo, doveroso bagliore di dignità.
Per
quanto encomiabile, non emendava le sue atroci colpe.
Eppure,
perché il ricordo faceva ancora tanto male?
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