Heart burst into fire_Episode 21
Titolo: Tenere pesti
(Distrazioni)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2415 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang & Figli
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 21:
TENERI PESTI (DISTRAZIONI)
Dinanzi
a me si prospettavano quattro giorni d’Inferno.
Edward era a Reesembool, per la
manutenzione del suo auto-mail,
mentre io ero stato incastrato da nostro figlio di
controllargli i
bambini
per un po’. Aye, i bambini. Quattro adorabili pesti frutto di
tre
notti di fuoco. Almeno non aveva lasciato le cose a metà,
riconoscendoli
tutti come suoi
nonostante non si fosse deciso a sposare nessuna di quelle povere donne
che
aveva
messo incinta. Se non fossi stato certo e stracerto che fosse adottato,
avrei pensato
che avesse davvero i geni Mustang, nelle vene. Non riusciva proprio a
tenere il fratellino
nei
pantaloni. C’era da dire, però, che aveva fatto
delle
ottime
scelte. Non significava certo che approvavo quel suo modo di fare,
persino io
avevo
sempre fatto minuziosamente attenzione quando si era trattato di
donne... e per fortuna, c’era da aggiungere. Chi
l’avrebbe
sentito a Edward, altrimenti! Certe volte veniva persino il dubbio che
Jason fosse frutto
d’una mia notte
passata con una donna, tanta era la somiglianza e il modo di fare. Ma
non era ciò a cui pensavo, in quel momento.
Comodamente adagiato sul fondo della
vasca, con l’acqua
che
mi lambiva i
fianchi, riflettevo su come avrei potuto cavarmela con i miei nipoti.
Solo, senza l’aiuto di Edward. Aveva scelto proprio un bel
giorno
per andare dalla sua cara
meccanica,
quel fagiolino! Sbuffando via un po’ di schiuma, mi portai le
braccia dietro
la testa,
distendendomi meglio e lasciando che un piede fuori uscisse
dall’acqua mentre abbassavo di più il capo
per far sì che il calore
ammorbidisse le cicatrici. Chiusi l’occhio e mi concentrai
sul flebile scrosciare
contro il bordo
della vasca ai miei lievi movimenti, con il pensiero che vagava alla
bottiglia
di whisky adagiata sul pavimento.
Quel momento di pace, però,
fu infranto in poco. Un
insistente bussare alla porta ruppe l’attimo e, riluttante,
dovetti abbandonare quel bagno di tepore, arraffando
l’accappatoio
per asciugarmi alla bell’e meglio prima di passare ai vestiti
e alla benda. Ancora umido, ci misi un po’ di più
per
infilare
intimo e pantaloni, indossando
la camicia sulla pelle ancora fumante e appiccicosa. Pensai ai primi
bottoni strada facendo, mentre l’ospite
inatteso continuava a
bussare. «Arrivo, arrivo», borbottai, dirigendomi
all’ingresso.
Una volta aperta la porta, fui
letteralmente investito da un
tornado di
colori
e stature che portava svariati nomi. Eccole lì, le mie
adorabili
pesti. Seguite a ruota dal caro papà. «Ciao,
‘Ka-san», mi salutò,
con quel sorriso strafottente su quella faccia da
prendere a schiaffi. «Su bambini, salutate la nonna».
Tutti avvinghiati a me, alzarono lo
sguardo verso il mio occhio
in
contemporanea. «Ciao, nonna Roy!»
esclamarono
all’unisono, con lo stesso sorriso del
padre. Inutile dire quanto quella situazione mi stressasse.
Già in passato ero stato scambiato per una nonnina,
esserlo davvero, adesso, era un altro paio di maniche. Stavo
invecchiando sul serio, purtroppo.
Mi piegai sulle ginocchia,
abbracciandoli uno ad uno,
soprattutto le mie gemelle preferite e anche l’unico ometto
di
casa, che sembrava un po’
contrariato.
«Niente dolci prima delle
sette ‘Ka-san»,
mi informò Jason, entrando con una
sacca più grande di lui. «Chi le sente alle mie mogli,
poi!»
Ridacchiai, non riuscendo a farne a meno
mentre seguivo la sua
figura. Stava posando la sacca accanto al mobile, seguito dal figlio e
da una
delle
figlie. «Me la vedo io, non preoccuparti», lo
rassicurai,
incontrando i suoi occhi
azzurri.
«Appunto per questo ti
avverto»,
scherzò, scompigliando i capelli della
maggiore delle figlie, che non tardò a far sentire le sue
proteste.
«Sono grande, papi,
smettila!» esclamò,
cercando invano di sistemarseli. Un morso di bambina e già
si
atteggiava ad adulta! Aveva proprio preso il gene Elric, non
c’erano dubbi. Da poco aveva compiuto i sei anni, ed era, se
la
si voleva mettere in
quei
termini, la secondogenita. Era la figlia della figlia di Alphonse, ed
era stato arduo calmare il caro fratellino del mio compagno, quando
aveva saputo che Jaz aveva messo incinta la sua bambina.
«Lo so che sei grande, Beth,
ma resti sempre la mia
piccina», fece Jason,
prendendola in braccio e strofinando il naso contro il suo;
l’altro si imbronciò e gli strattonò il
pantalone, così lui abbassò lo sguardo,
sorridendo.
«Non fare il geloso, Will», disse, ricavandoci solo
un altro colossale broncio. William, sette anni: stranamente alto per
la sua età, era il gallo del pollaio e spettava a lui
occuparsi
delle sorelline. Capelli scuri, occhi azzurri... sputato al padre.
«Mica sono geloso»,
replicò, ma la sua
espressione diceva il contrario, così Jason sorrise di
nuovo, passandogli un braccio dietro alla schiena in
perfetto
stile padre premuroso. La scena mi fece sorridere, ma non potei
osservarla oltre che fui
richiamato da
due manine che mi tiravano la camicia. Mi voltai, incontrando gli occhi
delle gemelle.
«Dopo ci racconti una
‘toria, nonnina?»
mi chiesero all’unisono, con quel
dolce faccino.
Come avrei potuto dire di no? Amber e
Sarah, quattro anni:
capelli lunghi, castani, avevano preso dalla madre. Solo gli occhi
erano quelli di Jason. Me le abbracciai entrambe, issandomele subito
dopo in braccio. «Tutte le storie che volete»,
concessi,
venendo
subito richiamato dal padre.
«So quali sono le tue storie,
‘Ka-san, me le
traumatizzi», sghignazzò,
ritornando sui suoi passi per darmi una leggera pacca sulla spalla.
«E cercate
di non fare tardi la notte».
«Alle otto i miei due
angioletti saranno
già a letto, promesso», dissi,
nonostante le proteste che subito si lasciarono sfuggire le dirette
interessate.
Jason, invece, sollevò
divertito un angolo
della bocca. «Io non lo dicevo per loro, ma per
te»,
ribatté sarcastico. «Sessant’anni sono
sessant’anni».
Storsi la bocca in una smorfia, quasi
fossi stato
pugnalato. «Non mi piace sentire la mia età, lo
sai» mi lagnai come un bambino
capriccioso. E quelli erano gli unici momenti in cui potevo ancora
sentirmi tale.
Jason rise, dandomi un’altra
pacca sulla spalla. «Dai, dovresti farci i conti prima o
poi»,
sghignazzò, sollevando ammiccante un
sopracciglio prima di avvicinarsi maggiormente a me, più
precisamente al mio
orecchio. «Ma penso che te lo faccia già notare
‘To-san quando in quei rari
momenti andate a letto, vero?»
«Siamo entrambi in forma
smagliante, quando si tratta di quello»,
replicai, sentendolo sghignazzare ancora un po’, troppo
divertito.
«Io non volevo insinuare
nulla»,
ridacchiò, passandomi distrattamente due
dita sul mento per accarezzare la barba che mi stavo facendo crescere.
«Questa
faresti bene ad eliminarla, però»,
constatò pensoso, e io gli scoccai un’occhiataccia.
«Volevo farmi crescere i
baffi», ironizzai,
guadagnandoci un’occhiata
stranita.
«Staresti peggio!»
esclamò divertito,
agitando distrattamente una mano, dando
un bacio alle gemelle prima di premurarsi di fare lo stesso con
Elisabeth e
William. «Fate i bravi», raccomandò,
salutando
poi anche me. «Ci vediamo sabato,
‘Ka-san», mi informò, e con quel solito
sorriso se ne andò, agitando divertito
la mano. Non era cambiato affatto, anche a trent’anni restava
tale. Avrei affermato con certezza che si trattasse di una cosa di
famiglia.
Solo con i miei nipoti, adesso, non mi
toccava altro che trovar loro
qualcosa da
fare. Mancavano tre orette all’ora del sonnellino, quindi
potevo intrattenerli
con la tanto agognata fiaba che avevano richiesto le gemelle.
«Che ne dite di un bel gelato?» chiesi subito,
richiamando presto la loro
attenzione.
William mi osservò, un
po’ scettico. «La mamma non me lo fa prendere se
non
mangio», mi disse, guardandomi
con quegli stessi occhioni azzurri che, tanti anni orsono, mi avevano
catturato.
Sorrisi, però, nel vedere
invece l’espressione
indecisa sul suo volto. «La mamma non
c’è, no?» feci
in risposta, facendo cenno ai maggiori di seguirmi
in cucina, con le gemelle ancora avvinghiate al mio collo.
Elisabeth e William mi trotterellarono
dietro, la mia nipotina sembrava
ansiosa
di gustarsi un bel gelato fuori orario. «A me crema al
limone, nonnina»,
mi informò, aspettando che aprissi il
frigorifero. Mi evitai di ridacchiare, e lo feci solo perché
poi si intromise anche William.
«Io lo voglio al
cioccolato», fece invece lui,
infischiandosene in un lampo delle
regole della madre. Dovetti chinarmi per far poggiare i piedi a terra a
Sarah e Amber, che
mi si
aggrapparono invece ai pantaloni.
«Dai, nonnina,
muoviti!» si
lamentarono, sempre in coro.
«Un momento, un
momento», replicai con un sorriso.
Pronti i gelati per tutti, ci
accomodammo in salotto, con un
libro
d’alchimia sottobraccio e un bicchiere di whisky sul
tavolino.
Ciotole di gelato alla fragola, al cioccolato, al limone e alla
stracciatella
si paravano lì accanto, con una bella spruzzata di panna e
cialde. Avidi, i miei nipotini cominciarono a consumarle, e le
più piccole non
tardarono ad
inzaccherarsi.
«Voglio sentire la storia sui
fratelli che cercano la
pietra
filosofale»,
incalzò Elisabeth, tirandomi la camicia per farmi cedere a
quella richiesta. Già, le mie storie si basavano quasi
sempre su
avvenimenti
realmente accaduti. Quella era nata così, per caso. Nemmeno
ricordavo esattamente come. Un piccolo litigio con Edward su
chissà cosa, ed ecco che mi
ero ritrovato a
raccontare la sua vita come una fiaba da tramandare ai nipoti. E non
gli era affatto dispiaciuto, anzi.
«Racconta quella dei due amici
che rubavano negli
armadietti dei capitani!»
fece in risposta William, guadagnandoci un’occhiataccia dalla
sorella. Anche quella era una storia di vecchia data. Molto vecchia,
per essere precisi. Nata la prima notte che avevamo passato con Jason,
la ricordo bene. Non sapendo su che specchi arrampicarmi, mi ero
ritrovato a
raccontargli di
quando io e Maes, ai tempi dell’Accademia, scassinammo
l’armadietto del nostro
capitano e ci avevo rimediato anche una ramanzina da Edward. Proprio
lui, poi, aveva attaccato con l’alchimia. La stessa alchimia
che
tanto era piaciuta a Jason, ora alchimista di stato come
noi. Fiero anche di dire che ero stato io a
sottoporlo all’esame e a
consegnargli di persona quella
carica, iinvestendolo di quelle alte onorificenze. Aye, proprio io, il
nuovo Comandante Supremo!
A distrarmi dai miei pensieri di gloria,
fu il battibecco fra William ed
Elisabeth che stavano bisticciando su
chi
avesse ragione, praticamente ignorati da Amber e da Sarah che si
godevano, a
differenza loro, il gelato. Una delle due mi gettò
un’occhiata, con il musetto
sporco di panna. «Nonnina,
perché non ci leggi
il libro d’acchimia?» mi chiese, angelica
come non mai. Ed era strano, visto che insieme alla sorellina era una
vera e propria
miniera
di caos. Ne combinavano sempre una più del Diavolo. Solo in
rare occasioni erano calme, giusto quando si avvicinava il
momento del
riposino. Il giorno dopo, invece, mi sarei ritrovato a fare i conti con
due pesti
scatenate!
Sorridendo alla mia cara, quanto
pestifera Amber, allungai di
poco il
braccio per prendere il libro, interrompendo così il litigio
tra i due
maggiori.
«Ma no nonnina!»
si lagnarono,
non appena lo videro.
«‘Ti,
invece!» rincarò la dose
Sarah, accoccolandosi contro di me con la faccia sporca di gelato alla
fragola.
Glielo ripulii, troppo divertito. Mi
sembrava di essere tornato ai tempi in cui era Jason quello che si
sporcava
sempre. Ai miei cari, vecchi, trent’anni... scossi la testa,
preparandomi ad una bella e profonda
lettura.
«Leggi nonnina,
leggi!» mi
scosse Amber, ancora in ginocchio sul
divanetto.
Risi tra me e me, felice per quel loro
interesse. Sarebbero
diventate alchimiste provette, un giorno. Ci avrei messo la mano sul fuoco.
Mi sistemai meglio sul morbido divano, attirandoli tutti a me prima di
cominciare a sfogliare le prime pagine alla ricerca di un argomento non
troppo
pesante prima di apprestarmi a leggere, con i loro sguardi puntati su
di me. Domande varie non mancarono, così come alcuni sbuffi
da
parte di Will o Beth. Le uniche davvero interessate erano le mie
gemelline, e non lo trovavo affatto strano. Finché una di
loro
non sbadigliò sonoramente,
interrompendo la mia lettura.
Guardai i volti assonnati delle mie
piccine e allungai distratto
un
braccio
per afferrare l’orologio sul comodino, controllando
così
l’ora e restandone
stupito. Erano quasi le dieci. Il tempo era davvero volato e non
avevamo nemmeno mangiato qualcosa... se si escludeva il gelato,
ovviamente. Chiusi il libro con uno schianto secco, sbadigliando a mia
volta senza
ritegno
prima di guardarli ad uno ad uno.
«Ce la fate a restare svegli
mentre preparo da
mangiare?» chiesi, ricevendo
sguardi e sbadigli. William annuì, così come
Elisabeth,
anche se lei
sembrava più addormentata. Amber e Sarah, invece, si
limitarono
solo a spalancare la bocca in un
ennesimo
sbadiglio. Scompigliai i capelli del maggiore alzandomi,
stiracchiandomi poi. «Bada a loro, Will, okay?» mi
premurai, sgranchendomi
il collo.
Sorridendomi, lui si alzò un
po’ e, calandosi nell’imitazione d’un
soldato, fece il saluto militare. Tutti quella strada in famiglia, eh?
«Ci penso io, nonna.
Anzi, no, Eccellenza», disse,
atteggiandosi già a grand’uomo.
Stavolta non potei evitarmi di
ridacchiare e mi diressi in
cucina per preparare un pasto leggero, tenendo conto sia
dell’ora che della loro età. Chi
l’avrebbe sentito
Jason, altrimenti! Ci misi non più di dieci minuti e, quando
li
chiamai, si presentò solo William. «Le tue
sorelle?»
gli chiesi perplesso, seguendolo
con lo sguardo e
mettendogli poi il piatto davanti.
Lui si strinse nelle spalle, tranquillo.
«Dormono», rispose semplicemente, avventandosi
subito dopo sul cibo, famelico.
Andai a dare un’occhiata alle
altre e, trovandole tutte
accucciate sul divano, mi intenerii alla scena. Decisi di prenderle in
braccio ad una ad una, portandole almeno nel
letto. Non ebbi il cuore di svegliarle. Dormivano troppo saporitamente.
Me ne tornai quindi da William, consumando la cena con lui
finché non fu tempo
anche per noi di coricarci accanto alle sorelle. Attesi che crollasse
anche lui nel mondo dei sogni, vegliando sul loro
sonno.
Mi accorsi di essermi addormentato anche
io solo quando qualcosa
di
caldo e
morbido si posò su di me, ridestandomi pian piano. Schiusi
lentamente la palpebra e, con l’occhio ancora
assonnato, mi parve di scorgere gli occhi di Edward che
luccicavano appena nella penombra. Che ci faceva lui a casa?
Che
stessi ancora sognando? Lo diedi per scontato e sbadigliai, tornando a
chiudere
l’occhio mentre sentivo
stretti a me i corpi e le braccia dei miei nipoti.
Nelle orecchie mi risuonò una
vaga risatina divertita,
prima che delle labbra
morbide
e piene mi sfiorassero appena il viso. Un respiro sul collo,
nell’orecchio. Il suono delle giunture di
quell’auto-mail
che tanto avevo
imparato a
riconoscere... poi la sua voce, come un’eco sussurrato in un
sogno. «Dormite bene».
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