Proiettili di
vetro…difficili da trovare ma non impossibile. Devo prenderlo a distanza
ravvicinata.
Maret sgusciava fra la folla come un fantasma che cammina sulla terra, invisibile e fredda come solo la killer
sa essere.
Guarda l’orologio e affretta il passo, entrando in un locale
dalle luci basse e poco distante dalla strada principale.
Quel locale tanto carino e all’apparenza innocuo è uno dei
tanti possedimenti di Lennie Darco, il boss per cui lei lavora.
È un brav’uomo che paga molto bene, non se ne può lamentare.
La paga anche troppo per le sciocchezze che le chiede.
La gentaglia di cui si circonda non sarebbe capace di fare
un lavoro pulito, gente presa dalla strada a cui è stata messa una pistola in
mano senza un minimo di preparazione.
Maret invece è molto preparata: ha studiato, studiato e studiato.
Ha conoscenze informatiche, meccaniche, tecniche ed
infermieristiche. MacMahon era serio e inappuntabile su certe cose, la
invogliava a specializzarsi in tutti i campi che prediligeva, anche in quelli
che non gradiva molto, ‘perché tutto torna utile nella
vita, tesoro, e non puoi farti cogliere impreparata’.
Tesoro...la chiamava così quando voleva farla arrabbiare e
provocare in lei qualche reazione umana che puntualmente non avveniva.
Perché Maret non piange mai, non si
lamenta mai e non parla mai. Non dice mai quello che vuole...lei allunga la mano
e se lo prende.
I proiettili di vetro
hanno poca potenza ma non lasciano le rigature, è impossibile risalire all’arma
da cui sono stati sparati e si deformano nell’impatto. Pensò nuovamente
mentre si muoveva nel locale che a quell’ora del giorno era chiuso e c’erano
solamente i camerieri che pulivano e mettevano a posto i tavoli per prepararsi
alla nuova serata.
Maret fissò una donna che riconobbe immediatamente e le si avvicinò in silenzio. Così tanto silenziosa che quando
la vide, la ragazza trasalì “cazzo, mi hai fatto prendere un colpo!” gridò
portandosi una mano sul cuore.
Maret non parlò, aspettò che la ragazza tornasse in se e la
guardò senza aprire bocca. “Ti manda Lennie, vero?” le domandò dirigendosi
verso il fondo del locale, nella zona privata, pomposamente denominata ‘privè’ da un elegante cartello sulla porta di legno povero che
oltrepassarono.
“Questo è tutto quello che ci hai richiesto, ma i proiettili
di vetro non li abbiamo trovati” le disse osservandola senza notare il minimo
cenno di fastidio alla cosa o di sorpresa…o qualunque altro sentimento che la
ragazza si sarebbe aspettata di vedere sul viso della donna bionda che le stava
di fronte.
Maret aveva trovato un bel negozio che riforniva i teatranti
in città e aveva acquistato qualcosa, tornando il più delle
volte camuffata per non farsi riconoscere.
Un caschetto dorato, parrucche di tutti i
tipi, anche afro e lenti a contatto di tutti i colori. Stava lavorando a
quelle protesi facciali finte ma ancora doveva prenderci la mano perché sentiva
il mento che dava cenni di volersi staccare.
‘I lineamenti vanno modificati, così
è più difficile riconoscerti. Ricorda: ci sono conformazioni di base
applicabili a gran parte della popolazione. Altezza, distanza ginocchia -
caviglia, gomito - spalla. confondili, prendili in giro’
Si passò distrattamente una mano sul mento, come se fosse un
gesto automatico e spinse di più la resina truccata dal fondotinta contro la
pelle.
Senza dire una parola, prese la valigetta e la aprì controllando il resto. La richiuse pensando che poteva
benissimo fabbricarseli da sola, quei benedetti proiettili,
ma che non le andava di stare ore e ore china sul tavolo da lavoro che aveva
allestito nell’appartamentino in cui viveva.
Voltò le spalle alla donna e aprì la porticina immettendosi
nel locale, sorpassò un cameriere che stava pulendo in terra rischiando di
scivolare sul detergente e uscì in strada, passando nuovamente una mano sul
mento. Si aggiustò gli occhiali da vista con le lenti finte e la maglietta da
adolescente con una scritta stupida che aveva scovato nel mercatino dell’usato
poco distante.
Doveva tornarci in quel posto, c’era un negozio vintage che
faceva proprio al caso suo.
Si recò in un negozio d’articoli sportivi e comprò una
scatola di proiettili di plastica, scherzando col negoziante sul fatto che suo
figlio avesse la passione per le armi e che si stava specializzando nel tirare
giù le lattine con un’arma fintissima che suo padre gli aveva
comprato - quel disgraziato, lo sa che
odio le armi anche se sono di plasticaccia! Ma sa i
bambini come sono a quell’età: vedono i film di Stallone e vogliono essere come
lui - ridacchiò mentre pagava i proiettili del tiro a segno gialli
canarino.
Il negoziante la ascoltò con la faccia immobile, accennando
un sorriso perché non gli interessava nulla se quella tipa se li mangiava o li
usava per ammazzare qualcuno. A lui bastava intascare quei 19,50 dollari e
assicurarsi lo stipendio anche per quella settimana, poiché quello strozzino
del padrone li pagava a percentuale.
Maret uscì dal negozio tornando immediatamente seria e si
diresse verso l’appartamento, dopo aver fatto una magra spesa. Quella sera doveva lavorare alla radio, non aveva tempo di prepararsi
grandi cenette.
Dopo il lavoro notturno alla stazione, si diresse sul luogo
dell’appuntamento con un’automobile che le aveva procurato
Lennie. La targa l’aveva sostituita lei, dopo averne svitate un paio da alcune
macchine in un parcheggio fuori mano e molto distante dalla città.
La mattina e il pomeriggio girava come una trottola per
procurarsi il necessario per lavorare e la sera alla radio, era abbastanza stanca
e scazzata per rivolgersi col giusto tono ai suoi
ascoltatori che la adoravano, da quanto dicevano le statistiche, e l’avevano
eletta la voce più sexi dell’etere.
Quando gliel’avevano accennato,
Maret aveva alzato le sopracciglia, bisbigliando ‘patetici idioti’
a mezza bocca che aveva raggelato i suoi colleghi radiofonici.
Era bella, era fredda ed era stronza: la donna perfetta e
irraggiungibile che sogna l’intero universo maschile.
Il terrazzo sulla quale era salita, aveva una pista
d’atterraggio per elicotteri, come molti palazzi lì a Los Angeles. La finestra
che doveva centrare era esattamente di fronte a lei, nell’edificio accanto.
Si sedette con tutta calma, montando il fucile di precisione
che aveva preso dopo una lunga contrattazione con quegli strozzini russi che
avevano un capannone per gli ‘attrezzi’ fuori città e
che erano fedeli solo ai soldi. Maret rischiava continuamente di farsi
impallinare da Gleb ogni volta che metteva piede nel
suo bar dove potevi richiedere fra i tanti tipi di caffè, anche un fucile di
precisione a canna lunga e col mirino laser.
Simpatico Gleb, dovrei fargli un bel regalo, pensò prendendo la
mira e restando un bel po’ con l’occhio premuto quasi contro il mirino.
Quanto ci metteva a
togliersi di torno quella sciacquetta che si stava lavorando? Pensò leggermente
irritata e un po’ assonnata.
Non era particolarmente divertente guardare quel tipo che
doveva ammazzare, impegnato in una performance kamasutrica
e Maret si stava annoiando ed eccitando al tempo stesso, perché erano mesi che
non vedeva un uomo neanche di striscio.
Non le interessava averne uno ma il suo corpo richiedeva ‘attenzioni’ particolari. Strinse le labbra e mandando
mentalmente a fanculo Lennie, sparò un paio di volte, centrandoli in pieno
entrambi.
Con tutta calma, rimise a posto l’attrezzatura e scese
canticchiando l’ultima canzoncina che avevano passato in radio durante uno
spot.
Pensava: quei proiettili di vetro mi servono assolutamente
per il lavoro che mi ha richiesto Lennie.
Pensava: dovrò chiedergli molti più soldi per accontentare
quel rompiscatole di Gleb.
Pensava: la prossima volta devo tenere la sinistra più
ferma. Mi sono mossa leggermente, non l’ho preso dritto in fronte e gli ho
spappolato la faccia.
Scese le scale senza prendere l’ascensore perchè non aveva mai tempo di andare in palestra e stava mettendo su
ciccia. E lei odiava la cellulite.
Pensava: il negozio vintage ha quel vecchio modello di Chanel che è una gioia per gli occhi. 20.000 dollari sono
tanti ma è un originale degli anni 50 e non posso farmelo scappare.
Pensava: devo distribuire i soldi sui nuovi conti che ho
aperto fra Los Angeles e Santa Monica.
Camminava e pensava, non smetteva mai. Pensava tutto il
giorno al lavoro, qualsiasi cosa facesse non si
rilassava mai, anche sotto la doccia pensava a come poter trovare quei beati
proiettili e a come riuscire a centrare il politico che infastidiva Lennie a
distanza ravvicinata a quella benedetta festa che avrebbero dato a giorni.
L’invito ce l’aveva, falso
ovviamente. Avrebbe accompagnato Lennie che l’avrebbe presentata come attuale
fidanzata, ma si sarebbe scordato tenerezze e le altre cazzate che aveva in
mente, perché - piuttosto che fare la
sciacquetta con te, preferisco fare la prostituta in un locale di camionisti
- gli aveva detto facendolo restare a bocca aperta e
senza parole.
Lennie l’aveva guardata sbattendo gli occhi ed era rimasto
in silenzio allungandole l’invito.
“Non devo chiederti di metterti elegante. Lo sei sempre” le aveva detto a mezza bocca senza alzare gli
occhi su di lei.
Maret si era sentita presa in giro perché aveva un paio di
jeans e una maglietta semplice che era tutto tranne
che elegante e stava per rispondergli a tono, quando si era resa conto che le
aveva voluto farle un complimento carino. Aveva richiuso la bocca e si era alzata
senza dire una parola, uscendo dalla stanza senza fare rumore.
Lennie aveva alzato gli occhi celesti che aveva ereditato
dalla madre irlandese ed era rimasto a guardare la porta con quel groppo in
gola che gli si formava sempre quando parlava con lei…perchè Maret era la donna
più bella che avesse mai visto e gli ricordava tanto
la sua prima fidanzata non ufficiale, Anenka, un’oriunda
polacca che viveva accanto a lui e che spiava sempre. Anenka
era più grande di lui, era carina e aveva un fidanzato. Ma
Lennie si era innamorato lo stesso e nella testa di un ragazzino di 11 anni era
diventata la sua fidanzata.
Maret era la sua Anenka a 38 anni.
Carina, col fidanzato sicuramente perché aveva un anello che
lo testimoniava, sebbene lei non avesse mai accennato ad un uomo nella sua vita
e lui non gliel’avesse chiesto espressamente.
Con Madeleine, il nome fittizio che gli aveva dato, non si
facevano domande.
Madeleine si guardava da lontano; si poteva sospirare al suo
passaggio, ma piano, perché se ti avesse sentito avresti fatto sicuramente una
brutta fine e non si faceva gli spiritosi.
Madeleine era un Anenka
particolarmente irritabile e pericolosa…ed era proprio per quello che piaceva a
Lennie.