Disclaimers:
ogni fatto o avvenimento narrato in questa fiction è
puramente casuale. I Placebo non mi appartengono; meno male, altrimenti
li avrei schiavizzati come musicisti - barman acrobatici e modelli di
nudo a tempo indeterminato. Per questo Brian Molko dovrà
ringraziarmi a vita e anche voi, perché altrimenti chi
avrebbe suonato al posto loro?
Piccola premessa:
quanto accade in questa breve long-fiction mi è stato
ispirato dalla canzone My Sweet Prince. In tale illuminato testo si fa
riferimento a questo principe; stando a quello che ho letto in giro -
le fonti potrebbero essere sbagliate ma, francamente, poco me ne cale -
è l'appellativo con il quale l'ex-fidanzata di Brian si
è rivolta a quest'ultimo in un messaggio lasciatogli prima
di tentare il suicidio.
La cosa non è andata in porto, fortunatamente per la tipina
e per la psicologia di mister Molko, però mi è
stata utile per elaborare questa finzione piena di millemila personaggi
inventati. Sarà attorno a questi ultimi che Brian si
muoverà, vivrà, in uno spaccato di vita risalente
al lontano (ç__ç) 1998. Ad ottobre dello stesso
anno uscirà Without you I'm nothing; ho preso in prestito
alcuni giorni dell'estate per narrare la vicenda, fregandomene
altamente di quello che poteva succedere realmente nel frattempo.
Coming back home
Prologo
Brian e Gavin
camminavano per le strade di Lussemburgo con uno zaino malandato sulle
spalle; il primo avanzava tenendosi strette le braccia, con il volto
livido e gli occhi puntati a terra visto che non gli interessava di
niente e di nessuno. Il secondo gli era al fianco, assolutamente
indifferente allo sguardo cupo del compagno di scuola; ormai aveva
fatto l'abitudine ai suoi improvvisi sbalzi d'umore, al conseguente
chiudersi a riccio e alle risposte secche su qualsiasi cosa di cui si
parlasse.
Quel giorno erano usciti un po' prima da scuola, infischiandosene
allegramente delle regole; vagavano senza meta tra i marciapiedi
puliti, costeggiando file di casette a schiera tutte uguali.
Improvvisamente il ragazzo scorse due tizi seduti contro una parete:
rallentò l'andatura e sorrise quando notò che
stavano guardando distrattamente il parco davanti a loro –
uno dei più bei polmoni verdi della città.
“Non trovi che in futuro potremmo assomigliare a quei
due?”
Brian lanciò un'occhiata agli uomini ma non si dette la pena
di investigare oltre:
“Neanche lontanamente.”
Spostò gli occhi chiari verso Gavin e lo esortò:
“Andiamo?”
Quest'ultimo si arrestò un istante, infine
domandò quasi seccamente: “Perché tu
devi invadere il mio universo?”
“Se per questo tu hai invaso addirittura la mia sfera
intergalattica, comprendente una pluralità di
universi.” fece presente in modo asciutto.
Gave scoppiò a ridere, grattandosi la punta del naso coperto
di lentiggini: “Wow, allora ho dei super poteri davvero
mitici!”
Dette una spallata all'amico, di qualche centimetro più
basso, e notò soddisfatto che tutto sommato sorrideva,
nonostante cercasse di mantenere un dignitoso contegno piuttosto
incazzato.
Così si allontanarono fianco a fianco, senza avere una meta
precisa da seguire; lasciarono alle loro spalle non solo la scuola, i
compagni di cui avrebbero volentieri fatto a meno e quei pochi che
arginavano la solitudine, ma anche i due uomini sconosciuti che
parlavano tra di loro.
Discorrevano, forse, di qualcosa che aveva a che fare con Dio e la
risata: in che modo potessero conciliarsi, il ragazzino sedicenne e
lentigginoso ancora doveva capirlo.
*°*°*°*
Meeting
Quel
giorno nel monolocale al 104 di Cricketfield Road faceva decisamente
caldo: un caldo che, effettivamente, era logico aspettarsi in piena
estate. Mentre la litania poco ortodossa intonava un serafico, quanto
accorato, Besame Mucho l'acqua scorreva nel lavello, con il blando
tentativo di togliere il grasso dei churritos dai pochi piatti
sopravvissuti al lavaggio – spesso incauto – di
Esquival Ron Sandoval. Nell'aria ancora aleggiava l'odore di fritto
delle ali di pollo, accompagnata alla più segreta promessa
che mai più – nemmeno in caso di assoluta
emergenza da frigo vuoto – qualcuno in quell'appartamento
avrebbe fatto ricorso alle fritture da un pound del negozio dietro
l'angolo.
Dentro di sé, però, Gavin O'Connel, intento a
grattarsi con finto fare pensoso la punta del naso lentigginoso, era
soddisfatto di essere riuscito a compiere quel piccolo miracolo
alimentare, sebbene Esquival a lungo andare glielo avrebbe fatto pesare
per il resto dei suoi giorni.
Magari avrebbe persino smesso di indossare quelle orride maglie fucsia
dal bordo peloso, con la scusa di essere ingrassato troppo mangiando
ali di pollo fritte. Scosse la testa: speranza davvero troppo
ottimistica la sua.
“Gave, tesoro, se magari muovessi le tue ditine rinsecchite
potrei sbrigarmi a fare la prossima mossa.” sibilò
con voce isterica Esquival, controllandosi un'unghia fresca di limatura
mentre roteava molto platealmente gli occhi.
“Ah, giusto...” borbottò l'irlandese
che, per strani miracoli comprensibili solo al Sacrosanto Creatore, si
era ritrovato a Londra dopo aver vissuto sin dalla più
tenera infanzia nella città di Lussemburgo.
La prima volta che aveva raccontato della sua totale
estraneità all'Irlanda, il proprio amichevole spacciatore di
serate nei locali di jazz gli aveva riso in faccia, battendogli una
pacca sulla spalla ossuta; Gavin aveva prontamente liquidato la
faccenda districandosi con una delle sue solite battute sarcastiche,
limitandosi a dire che l'unica associazione con Dublino che gli venisse
in mente erano gli U2. Joyce aveva evitato di menzionarlo, il solo
ricordo del flusso della memoria gli avrebbe fatto tornare l'ulcera.
Si passò una mano tra i capelli neri lasciati
disordinatamente crescere fino alle orecchie e spostò con
una certa accuratezza uno dei bastoncini in legno usati per giocare a
shangai – regalati da Arja che lo coccolava con le sue
vezzose novità; si divertiva a muoverli uno ad uno, evitando
di scomporre l'ammasso casuale di legnetti.
La mossa venne portata a buon fine, così che Gave
poté incassare il suo bastoncino e raccattare punti;
Esquival storse la bocca in una smorfia perplessa poi tese un indice,
dopo aver lanciato un'occhiata al proprio coinquilino. Fece per
sfiorare il legnetto, dotandosi della massima concentrazione possibile,
fino a che improvvisamente non squillò il telefono: un
trillo isterico che lo fece sobbalzare, così che i
bastoncini si mossero finendo per rotolare miseramente sul pavimento di
moquette.
“Madre de Diòs, quell'affare mi
rovinerà il cuore un giorno o l'altro. Morirò e
sarà tutta colpa tua!”
Gridò portandosi una mano sugli occhi, mentre Gavin
scoppiò a ridere – ormai abituato alle scene di
vittimismo tanto care a Esquival. Si alzò per rispondere,
non rinunciando allo spettacolo del suo compagno d'appartamento che
borbottava minacce vane alla sua persona.
Val era un argentino all'apparenza come tanti altri sudamericani che
vivevano in quel quartiere, situato nella prima cintura della City. Ma
bastava osservare un attimo le pose da prima donna che assumeva, i
vestiti sgargianti indossati e la voce dalla cadenza lasciva per capire
che, nonostante i capelli biondo cenere, gli occhi di un indefinito
color grigio e la pelle color caffé diluito, non aveva nulla
da invidiare alle drag queens del locale dove si divertiva a trascorrere le
serate assieme al suo nuovo fidanzato.
Gavin, invece, aveva passato i suoi ventidue anni d'età a
cercare di capire cosa lui stesso fosse realmente: a sedici anni si era
fermamente convinto, dopo averlo negato con tutta la sua forza, di
essere omosessuale. Per amor d'onestà, essere omosessuali
nel Lussemburgo, dove un'infinita serie di casette a schiera e tanto
verde erano le cose più trasgressive che si potessero
trovare, rappresentava un enorme, infinito, problema.
Con gli anni suppose di aver solamente preso una sbandata: uno di quei
colpi di testa che si prendevano di tanto in tanto, per poi al mattino
fingere di non ricordarsi più nulla. Eppure, a ben pensarci,
la sbandata in fin dei conti non era mai stata dimenticata; l'aveva
più semplicemente accantonata, visto che da un po' di tempo
aveva un relazione stabile con Arja – l'unica che, con le sue
idee di hyppie ostinata, potesse accettare un'ulteriore concorrenza
data dalla controparte maschile.
Quando sollevò la cornetta, la voce che più lo
divertiva al mondo gli fece passare di mente il fatto che gli toccava
pulire una pila di piatti, spruzzare deodorante per ambienti e
ritrovare Whisky - il gatto nero regalato dal vicino colombiano
superstizioso che, dopo aver sbandato con l'auto per non metterlo
sotto, glielo aveva mollato volentieri pur di non averlo tra i piedi.
“Vediamoci al Trocadero tra...” la sua voce,
melodica, persino snervante, cadde in una dovuta pausa di riflessione.
“Un'ora – disse Gave ridacchiando quando Esquival,
disgustato, aveva tirato fuori dalla credenza uno spray per ambienti
– porterò gli spartiti che mi hai lasciato. Penso
che dovresti...”
“Lascia perdere, mi dirai lì – aveva
sempre la fastidiosa abitudine di interromperlo. Un istante di pausa
per poi aggiungere – Sei ancora vivo?”
La risata apparve incredibilmente cristallina, nonostante le
interferenze del telefono. Gave sospirò e
canzonò: “Da quando sei così
spiritoso?”
“Da quando ho scoperto che i botellones ti fanno scoppiare il
fegato.” sussurrò compiaciuto.
“Stendiamo un velo pietoso.” borbottò
divertito, mentre fece cenno a Esquival di chiudere l'acqua prima di
ritrovarsi annegati.
Per qualche istante nessuno dei due interlocutori parlò.
Finché l'irlandese, sfogliando distrattamente le pagine
dell'agenda, non chiese con il suo solito fare diretto:
“Hai sentito Annie in questi giorni?”
“No.” fu la risposta scocciata e altrettanto
immediata.
“Brian, fammi il favore di chiamarla. Io e Stef non possiamo
fare i tuoi portavoce per sempre.” lo riprese, socchiudendo
stancamente gli occhi.
“Nessuno vi ha chiesto di farlo, sai.” rispose con
una finta cortesia.
“Infatti: tu non chiedi, pretendi. Oppure dai tutto per
scontato.” fu la replica tagliente.
Un sospiro distorto da parte di Brian e un ulteriore accenno di risata:
“Da quando sei così spiritoso?”
“Ah ah... - fece una smorfia, sapendo di non essere visto,
poi tagliò corto – Ci vediamo tra un'ora, Mr
Uknow.”
Dopo una rapida replica poco affettuosa, entrambi chiusero la
conversazione. Gavin aprì il cassetto dove teneva i
documenti, infilò il portafoglio in tasca e prese da sopra
il divano di un eccentrico rosso accesso la cartellina usata per
custodire gli spartiti e le varie correzioni musicali.
Esquival lo osservava, appoggiando una mano al mento, senza mancare di
sfoggiare un sorrisetto sarcastico:
“Perché non vi trovate a letto, invece, uno di
questi giorni?”
“Perché non pensi di dare fuoco al tuo armadio,
uno di questi giorni?” replicò acidamente Gavin,
dopo aver controllato di aver preso l'abbonamento mensile dell'autobus.
L'argentino scattò in piedi, punto sul vivo:
“Querido qué dices? Il mio abbigliamento non
è roba che ti riguarda: io sono estroverso e felice;
oltretutto penso sinceramente che quel giubbottino di pelle sia molto
maschio.” asserì ridacchiando, dopo aver
controllato che i bei capelli color cenere fossero al loro posto.
“La cosa più maschia che hai è la
maglietta del Boca.” scherzò, prendendo le seconde
chiavi dell'appartamento.
“Spiritosone – sbottò per poi riprendere
a dire con più vigore – senti, la cosa
è palese: tu dal Lussemburgo ti sei scarrozzato fin qui a
Londra solo perché ti ha chiesto la tua opinione per degli
arrangiamenti...”
Gavin gli puntò un dito contro replicando: “Ah,
no! Lui mi ha proposto come saxofonista nei jazz club della City,
aspettavo in Lussemburgo un'occasione simile e facevo in tempo a
prendere il nobel per la letteratura.”
“Ehy, hombre! - lo richiamò – Potevi
benissimo campare come scrittore e, niente storie tesoro, rimane ancora
adesso il tuo lavoro principale. Seconda cosa: appena uno chiama,
l'altro risponde.”
Lasciò il sottointeso, passandosi la lingua sulle labbra
mentre era intento ad ammirare il suo stesso riflesso allo specchio,
appeso nell'angolo del salotto.
“Io questa cosa la chiamo amicizia, hai presente?”
borbottò aprendo la porta d'ingresso.
“Io la chiamo dipendenza.” replicò
arricciando vezzosamente il naso.
In quel momento Whisky fece la sua altezzosa comparsa da oltre le scale
male assestate del condominio; superò la soglia d'entrata
dell'appartamento e, dopo aver lanciato un miagolio poco convincente,
si arrestò per pulire il manto nero, indifferente al fatto
che fosse scomparso per una buona parte della mattinata.
“Dagli da mangiare prima di uscire con Christen... ah,
telefona ad Arja per dirle di farsi trovare al Trocadero,
così la accompagno alla sua riunione.”
“Quella sul problemuccio dell'estinzione della foca
monaca?” domandò perplesso Esquival, deliziandosi
del suo stesso accento spagnolo che confluiva nell'inglese ormai ben
conosciuto.
Gavin non si dette nemmeno il tempo di pensare; la memoria impeccabile
gli consentiva di inscatolare le numerose date e ricorrenze che, con
Arja come fidanzata, doveva necessariamente ricordarsi.
“No, quella era la settimana scorsa. Stavolta è
parte di una campagna organizzativa contro la caccia alle balene.
Inizialmente voleva bruciare la bandiera giapponese ma qualcuno
più furbo di lei l'ha fatta desistere.”
I due uomini risero, pur sapendo che Arja non aveva mai mostrato
l'intenzione di dar realmente fuoco alla bandiera del Giappone;
credevano però che se mai la ragazza di origini finlandesi
ne avesse avuto l'occasione lo avrebbe fatto, compiacendosi del suo
gesto di protesta concreto.
Dopo aver dato una grattata dietro le orecchie a Whisky, Gavin
uscì di casa, percorrendo con calma le scale cigolanti del
condominio dalle asettiche pareti bianche fino a non arrivare al pian
terreno; lì salutò la coppia Boliviana che
imprestava sempre loro l'aspirapolvere per la moquette.
Come d'abitudine toccò il foglio con scritto a lettere
capitali “Bajar la basura”: essendo un abitato
composto prevalentemente da persone di idioma spagnolo nessuno si era
mai scomodato a scrivere diversamente, ma ben presto aveva compreso che
la traduzione “Portare giù la
spazzatura” non gli avrebbe cambiato più di tanto
le sue abitudini, dato che era una pratica che svolgeva abitualmente.
Ringraziò che ci fosse un cortiletto apposito nel quale
effettivamente gettarla, visto che a Londra la sera tutti abitualmente
lasciavano i propri rifiuti al ciglio della strada – cosa non
propriamente ottimale nel mezzo dell'estate.
Nonostante tutto Gavin amava il quartiere dove viveva: Hackney era un
posto multietnico e variegato. Vicino a casa c'era un parco
meraviglioso e spesso assieme ad Arja si divertiva a guardare i
ragazzini del quartiere litigare per il lancio della palla da baseball;
conosceva il carroattrezzi vicino – per quanto, visto che non
possedeva auto, gli sarebbe stato difficile portargli un veicolo da
riparare – e ogni tanto si fermava a chiacchierare con il
gestore del pub all'angolo prima di tirare dritto fino a Lower Clapton
Road: una volta lì prendeva il 38 che lo portava fino a
Piccadilly Circus.
Considerando che il centro commerciale del Trocadero era a due passi da
lì, non gli dispiaceva trascorrere un'ora in autobus: aveva
l'occasione di veder scorrere la città e pensare a tante
cose che, normalmente, avrebbe relegato in secondo piano. Anche in quel
momento, salendo su una sedia foderata di tessuto, gli tornava alla
mente la sua adolescenza trascorsa nella grigia Lussemburgo e le
svariate coincidenze che lo avevano portato ad essere uno dei pochi
amici del complessato Brian Molko e quindi anche di Stefan Olsdale.
A cavallo tra i sedici e i diciassette anni la relazione con il primo
era divenuta qualcosa di ben diverso dall'amicizia, un rapporto ben
più complice seppur platonico – come amava
definirlo; si erano trovati bene, anche quando le rispettive vite
presero nel tempo strade nettamente diverse.
La sera, nei locali di Londra, bevevano una birra in compagnia; in
quelle occasioni era facile ricordarsi dei ritrovi a casa di Gavin che,
deserta per l'assenza dei genitori, ben si prestava a diventare un
punto d'incontro per quello sparuto gruppetto di amici, i quali
sfogavano i propri rancori facendo gli stupidi insieme, fingendosi
grandi solo perché si aveva una bottiglia di birra in mano.
Da dopo la scuola Brian si era affrettato a fuggire lontano da quella
che considerava una prigione a cielo aperto, mentre lui era rimasto a
contemplare il padre destreggiarsi con titoli e azioni bancarie, quando
sua madre dal mondo cartaceo dell'editoria lo incoraggiava a scrivere
per avere poi l'onere di fargli pubblicare un libro, presto o tardi.
Più tardi che presto, siccome il giovane O'Connell si era
deciso di farsi le ossa nel campo delle testate giornalistiche mensili:
in questo modo avrebbe potuto concludere la propria laurea con sulle
spalle una certa esperienza nell'ambito delle recensioni musicali.
Quando seppe in anteprima dell'uscita del primo album dei Placebo,
avrebbe voluto accaparrarsi l'esclusiva della recensione ma il proprio
caporedattore, sospettando eventuali favoritismi, lo aveva liquidato
con il triste compito di raccogliere gli ultimi dati sulle classifiche
di vendite a livello internazionale.
Di conseguenza, seduto sul 38, Gavin O'Connell sperava ardentemente di
avere finalmente l'incarico di recensire un eventuale secondo album;
sapeva che Brian ci stava lavorarndo ma per quanto alcune basi
musicali, visionate assieme a lui, fossero pronte ancora dei testi non
sapeva nulla. D'altronde preferiva così: fingere una
salutare indifferenza, visto che già troppe volte si era
roso il fegato per aver ostinatamente insistito troppo nelle cose.
*°*°*°*
Quando giunse presso la caffetteria dove aveva appuntamento con Brian,
lo trovò seduto presso uno dei tanti tavolini squadrati, con
di fronte a sé due bibitoni extra-large di caffé.
Teneva le gambe dignitosamente accavallate, mentre con la sigaretta che
pendeva dalle labbra carnose sfogliava un giornale; per evitare di
farsi eccessivamente riconoscere indossava larghi occhiali da sole e i
capelli, lunghi fino al collo, sporgevano ribelli da oltre un cappello
con visiera.
Gavin ridacchiò nel notare che indossava una maglietta a
maniche corte nera, perché creava un bel contrasto,
parecchio artistico, con la pelle cadavericamente bianca; eppure non
riusciva mai a fare battute sul colorito spettrale dell'amico, sapendo
di essere nelle sue stesse condizioni.
Si sedette presso la sedia di fronte a lui, salutandolo con un semplice:
“Ciao, Brian.”
Quest'ultimo prese la sigaretta tra le dita e, portandosi una ciocca di
capelli dietro le orecchie, replicò con voce leziosamente
pacata: “Ciao, Gave – una delle sue solite risate
trascinate e musicalmente incredibili, per poi aggiungere –
sbrighiamocela con una dose di caffé stamattina.”
“Tanto decidi sempre tu.” replicò con
un'alzata di spalle, facendo ondeggiare il bicchiere cartonato.
“Mi piacerebbe, se solo fosse davvero
così.” accennò ad un sorriso che poteva
significare tutto e niente.
Gavin non disse nulla; si limitò a versare lo zucchero una
volta tolto il coperchio in cartonato, imitato da Brian: quest'ultimo
assumeva sempre un'espressione al limite del disgusto ogni volta che
doveva armeggiare con oggetti di provenienza ignota. Non lo faceva
consapevolmente; quella di distorcere la bocca in una smorfia altezzosa
era un'abitudine consolidata da anni e anni.
“Stasera suoni al Ronnie Scott's?”
domandò Brian, girando con il cucchiaino in plastica la
bevanda.
“Sì. Dopo Val da una festa al Way Out con
Christen, credo presenzierò per bere un paio di birre e poi
andrò a casa; magari mi fermo direttamente da Arja: domani
ho l'appuntamento con l'editor.” spiegò
richiudendo il contenitore.
“Stefan mi ha detto della festa; se non celebrano ogni giorno
il fatto di scoparsi quei due non sono contenti.”
ironizzò Brian muovendo appena la mano, così che
si dipinse nell'aria un tratto leggero di fumo.
Gave sorrise per poi passare oltre e chiedere: “Che fai? Esci
dalla tana e ti degni di raggiungere i tuoi amici, oppure sei troppo
impegnato per noi?”
“Poco dopo che avevi chiamato tu ho sentito Annie.”
disse Brian a bruciapelo, reclinando appena la testa dopo aver aspirato
dalla sigaretta mezza consumata.
“Quindi?” indagò l'irlandese,
sorseggiando lentamente il caffè.
Il musicista tolse la cenere picchiettando sul posacenere in plastica e
rispose con calma gelida:
“Niente di nuovo, sai. Crede che io sparisca da un momento
all'altro; ha detto che vuole venire anche lei a sentirti
suonare.”
“Capisco. E tu?” domandandolo si
massaggiò lentamente il mento.
Brian portò un gomito sullo schienale della sedia e
spiegò con eleganza:
“L'ho mandata inizialmente a fare in culo, ci siamo urlati
contro per un po' e infine abbiamo deciso che ci saremmo visti davanti
al locale.”
Espirò tranquillamente il fumo, come se nulla fosse. Gavin
appoggiò una guancia sulla mano e replicò:
“Beh, ti è andata ancora bene. Annie mi odia di
principio invece.”
“No – lo corresse serafico Brian – lei ti
odia solo perché crede che andiamo a letto
insieme.”
Gavin sospirò, scherzando: “Giusto. Meno male che
non conosce a fondo la tua vita pastorale in Lussemburgo allora o non
mi avrebbe più rivolto la parola. Pensare che ad un primo
impatto mi sembrava così tranquilla, una brava signorina
mansueta quasi.”
“Ho l'effetto di rendere isteriche le persone,
ricordi?” disse appoggiando un gomito sul tavolino, puntando
le dita con la sigaretta in direzione di Gavin.
Quest'ultimo ridacchiò, posando sulla superficie in finto
marmo la cartellina con i vari spartiti, e asserì:
“Non saprei. Io ti trovo piuttosto divertente.”
Brian tornò a togliere la cenere dalla sigaretta per
rispondere con tono di voce morbido, alternato a una certa amabile
ironia:
“Grazie, Gave.”
Dopo quelle due parole iniziarono a parlare esclusivamente di musica.
Attorno a loro il chiacchiericcio del locale, assieme all'odore dei
dolci preconfezionati mostrati nelle vetrine del bancone, che a volte
arrivava a mischiarsi con quello delle caramelle di gomma del negozio
di fronte.
Alla radio Bono e gli U2 tenevano loro compagnia sulle note di Sweetest
Thing, mentre Londra continuava a vivere immersa nel caldo estivo.
Sproloqui
di una zucca
Dedico questa sorta di
fiction a Ilena, aka Hiko_Chan.
Sei una persona
stupenda e, già lo sai, ringrazierò per sempre il
mondo della scrittura amatoriale che mi ha permesso di conoscerti. So
che magari ti aspettavi una fiction su Naruto, eppure ho voluto
rovinarti creando questa cosetta - lo so, sono da fustigare.
I Placebo,
però, sono una delle tante passioni musicali che ci
accomunano. Sin da quando durante l'estate ho elaborato le righe mi
sono detta: "E' tutta per Ilenia!"
Non l'avrei mai
pensata o potuta dedicare a qualcun altro che non sia tu, mia diletta
pusher e Grande Officiante della Carica. Sei una persona ormai
fondamentale, una lettrice stupenda, una consigliera e un'amica
preziona; spero che in ogni riga che leggerai troverai il mio affetto
per te e il mio sincero augurio che le tue scelte, i tuoi studi e la
tua vita in generale proseguano sempre nel migliore dei modi.
Tantissimi auguroni,
Ile *_______*
Ps: ricorda che presto
o tardi voglio quel benedetto scoglio personale e il fucile per le
pecore. Ammetto che queste non hanno più fatto tanta
interferenza negli ultimi giorni, però... meglio prevenire
che curare ù.ù
Un grande baciottolo!
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