Eccoci
al primo atto!
Un ringraziamento a:
Hinata_Dincht:
grazie per la recensione^^, mi lusinghi fin troppo!Sono felice di
sapere che ti piace il mio stile. Anch’io ho letto la tua
fic, la recensirò al più presto!Bacioni!
Shatzy: che
belle le tue recensioni, mi commuovono sempre(LaLa si
inchina^^).Inutile dirti che adoro vedere i tuoi commenti e le tue
impressioni, mi onorano^^. Naruto apparirà solo
nell’ultimo capitolo…e sarà un finale a
sorpresa, già già!E comunque il mio nome fa
schifo=_= ogni volta che mi presento è
un’agoniaXDBacioni!
Bene, signore, ora inizia l'angosciaXD
Buona Lettura!
Atto Primo: Insomnia
Four
Days to Death
I'm stuck in my own head and I'm
oceans away
Would anybody notice if I
chose to stay?
I'll send an S.O.S.
tonight
Hinata aveva trovato notevoli difficoltà ad abituarsi
all’assenza della limousine alla mattina. Aveva dovuto
abbandonare i pochi vizi che si concedeva: svegliarsi diversi minuti
dopo gli ultimi squilli della sveglia, pettinarsi direttamente in
macchina e indossare le zeppe, troppo scomode per lunghi tragitti a
piedi.
In fondo, era abbastanza alta, che senso aveva? Era un piccolo e
frivolo capriccio, avere l’illusione di essere un
po’ più alta, più libera,
più vicina al cielo.
Ma, in fondo, non aveva senso; su questo rifletteva Hinata, mentre
scivolava giù per la stradina ripida e verdeggiante che
separava la diafana dimora degli Hyuuga dal resto della
città.
Hinata abbassò il viso, nel vano tentativo di nasconderlo
con la frangia corvina, quando vide la limousine sorpassarla in un
lampo di luce metallizzata. Le sembrava quasi di sentire su di
sé gli occhi di Hanabi bruciare e carbonizzare il suo volto.
“Sei diventata troppo pesante per la nostra lussuosa
limousine, sorellina” le aveva ripetuto Hanabi quella
mattina, come tutte le altre di quell’assurdo e afoso Maggio.
Hinata scivolò fino alla scuola, sciogliendosi tra la folla
colorata di monotone tonalità accese e metallizzate dal
sole. Sfumature che mal si amalgamavano ai suoi colori tenui.
Quella mattina Hinata sapeva dove dirigersi, e invece di infilarsi nel
suo banco all’estremità destra, accantonato al
muro, corse nel cortile della scuola.
Nel prato prematuramente seccato dal sole fioriva un altro tipo di
erba, accompagnata spesso dalle sue sorelle più potenti. Fin
dal suo primo anno Hinata era venuta a conoscenza
dell’illegale traffico sbocciato anche tra le mura protette
della sua scuola, un istituto privato costruito per i soli benestanti.
Ma anche lì i disagi erano molti, e Hinata per prima sentiva
che l’ambiente scolastico era terribilmente ipocrita: tanti
fiori, tanti insegnati programmati come computer, tante
apparecchiature sofisticate per un futuro grottesco e racchiuso in una
scatola fatta di mura plasticate. Il destino del padre, che poi
discende al figlio. Almeno Hinata era consapevole che, data la sua
situazione, la fabbrica di famiglia sarebbe passata interamente ad
Hanabi e a Neji, e, almeno questo, le dava l’illusione di
avere il cuore più leggero.
La ragazza scese nel cortile, non più contornato da viole e
primule come in Marzo, ma smorzato dal caldo cocente, e intravide
Temari che giocava, per l’appunto, con le Temari, le
tradizionali palline giapponesi. Le faceva rimbalzare a suo piacimento
e la seta colorata scintillava alla luce mattutina. Hinata rimase per
qualche istante a fissare le palline color malva e lavanda solcare
leggere le mani della ragazza, le sue unghie mangiucchiate, i calli,
cicatrici di un passato tormentato. Temari giocava col suo stesso nome:
aveva in mano la chiave del suo destino, se lo rigirava tra le mani
sicure e nelle sue iridi verde chiaro già si intravedevano
orizzonti futuri. Ora che aveva quasi ottenuto il diploma della
maturità sarebbe potuta scappare dalla scintillante
prigionia che il padre, sindaco della città confinante,
aveva imposto a lei e ai suoi fratelli.
Il nome di Temari era un gioco, semplice ma colorato con frammenti di
arcobaleno, e scorreva su un destino incerto ma pieno di sole.
Mentre il suo nome, Hinata, era vuoto. Il nome di un ennesima
principessa senza trono.
Un’ennesima
Lavinia.
La giovane Hyuuga raggiunse quasi di corsa la formosa figura di Temari
contornata da un’aureola di paglia.
“Cercavo Gaara” chiese timidamente e lei la
indirizzò nel cortile dietro il teatro, salutandola poi con
sorriso affettato.
Hinata, per tutti la signorina Hyuuga, una dei tanti Hyuuga, si
incamminò verso la sua meta su un sentiero adombrato di
fantasmi. Molti ragazzi dell’istituto, durante le prime ore
scolastiche, si rifugiavano in quel brullo eden e fumavano, con gli
occhi impiastricciati di vapori tossici, rossi e gonfi. Sfiniti dalle
responsabilità, scaricavano le frustrazioni sulla canna e
sulla sigaretta di turno, imprecando e sputando. Anche i migliori
dell’istituto si nascondevano lì per concretizzare
le loro fantasie di libertà, esponendola agli altri o
lasciandola marcire dentro di loro. Ma più Hinata avanzava
nel cortile, più il livello delle droghe si alzava e
più le fantasie si concretizzavano, fino a diventare vere e
proprie allucinazioni. Nel cortile vicino al teatro scolastico e alla
palestra circolavano polveri e pasticche sempre più
pericolose, spesso fatte infiltrare da maggiorenni, che stordivano i
ragazzi destinati a diventare il pilastro della società.
Intravide la chioma color rubino di Gaara dietro il teatro dove spesso
recitava suo fratello Kankuro; Hinata avanzò, incerta, e
vide gli occhi perlacei e spenti del ragazzo appoggiarsi su di lei con
sospetto, anche se i suoi lineamenti leggeri non mutarono. Teneva in
mano una canna enorme e conservava le pasticche per il pomeriggio o per
spacciarle; per il momento si limitava a farle tintinnare nella tasca
come se fossero monete d’oro.
“Gaara, mi dispiace disturbarti…”
pigolò Hinata, sempre imbarazzata: aveva cominciato a
chiamarlo per nome solo per non creare troppa confusione, dato che
aveva due fratelli nello stesso istituto, e non perché erano
nella stessa classe da tre anni.
La ragazza si mordicchiò il labbro, sentendo il coraggio
infiltrarsi nelle sue vene e appiccicarsi sulla sua pelle come
caramello.
“Quanto vuoi per un ecstasy?”
Quanto vuoi per la mia
salvezza?
Tutti sapevano che Gaara soffriva di insonnia, quella che ti mangia i
piedi di notte, quella che ti assilla come un incubo. Non era solo una
scusa per giustificare le spesse occhiaie che facevano capolino da
sotto le lunghe ciglia.
E per dormire, per sognare, lui che i sogni non li aveva mai visti,
fantasticava. Ma poi le semplici fantasie non erano bastate a riempire
la totale assenza di sonno e di sogni: così, per dimenticare
la morte della madre, pallida e innocente, e dello zio, per dimenticare
l’aberrante odio del padre e l’indifferenza dei
fratelli, si era spinto in una tomba fatta di fumi e di false promesse.
Hinata, quando era entrata in contatto con quell’ universo
sporco e confuso, si era ripromessa di non sprofondare mai
nell’abisso della dipendenza. Forse per i precetti che sin da
piccola, sin dalla nascita, si era ritrovata scolpiti nella mente,
forse per le fantasie che riusciva a costruire senza bisogno di
stupefacenti, forse per il suo intramontabile ottimismo nascosto sotto
strati di timidezza. Ma ormai le poche certezze e i pochi affetti le
erano stati tolti dalla sua famiglia, dal suo stesso sangue. E di notte
non dormiva più: aveva bisogno di sognare. Di affondare
ancora e ancora, per anestetizzarsi completamente dalla
realtà.
Gaara non mostrò sorpresa davanti al pallore del volto
angosciato della compagna, davanti alla fragilità dei suoi
occhi sconvolti, davanti alla sua assurda richiesta.
“Non posso: ti distruggerebbe. Ti distruggerà
sicuramente” sibilò il ragazzo, e si
ritrovò a pensare che la sua compagna era già
distrutta, da quando era stato ufficializzato l’improvviso
fidanzamento con Itachi Uchiha. Non sapeva perché, nessuno
sapeva perché, non aveva alzato un dito, nessuno aveva
alzato un dito.
Hinata gemette, di dolore, di frustrazione. Il suo SOS era stato
ignorato, un’altra volta.
“N-non capisci??Io h-ho bis-sogno di a-a-iuto!”
singhiozzò, quasi gridando, mentre il balbettio, che
sembrava essere stato estirpato tra i suoi difetti, era ricomparso.
Perché nessuno capiva l’odio e
l’angoscia che crescevano in lei? Aveva bisogno si sognare.
Ancora e ancora. E anche di distruggere. Ancora e ancora.
Gaara avanzò, sul palmo una pasticca rosa, allegra e
amichevole.
Hinata la osservò, terrorizzata, mentre lacrime invisibili
precipitavano al suolo.
“Questa non ti può aiutare, e nemmeno
io” sibilò Gaara con voce atona “Non
realizzerà i tuoi sogni, ma li rovinerà
ulteriormente. Ti rimane la tua mente, la tua sensibilità,
la tua intelligenza, la tua passione, il tuo amore…e anche
la cosa che vuoi distruggere. Non bruciarli”.
Hinata sobbalzò, e sentì il suo cuore, la sua
mente, i suoi capelli e i suoi seni saltare e poi cadere di nuovo,
mollemente.
Allora forse aveva capito, aveva intuito, almeno lui.
Parlava di amore, Gaara, quello che teneva solo per sé
stesso, che nascondeva in angolo polveroso e mai pulito, e talvolta ne
prendeva un pezzetto piccolo piccolo, e lo mangiava come se fosse
zucchero e miele.
Forse anche lui lo avrebbe condiviso, quel suo amore meraviglioso,
quando sarebbe uscito dalla scintillante prigionia, come stava facendo
sua sorella Temari. Forse il suo nome sarebbe cambiato, assieme al suo
destino
Hinata guardò l’immagine del ragazzo, offuscata
dalle sue lacrime, bella come un ricordo dimenticato. E decise di
rimanere nel suo universo, mentre Gaara rientrava nei suoi oceani
lontani, ignorando il suo SOS.
Prese la pasticca dalla sua mano e la lasciò cadere.
Assieme alle ultime disperate lacrime. Il pianto prima della condanna.
Anche Lavinia aveva
pianto, quando era stata divisa dal suo vero amore?
Anche qui abbiamo un’analisi dei nomi dei personaggi, spero
che sia giustaXD Il motivo per cui Hanabi tratta con fredda
superiorità la sorella e il motivo che ha spinto Hinata a
chiedere a Gaara della droga, verranno spiegati a tempo debito.
Nell’ultima frase, metto in evidenza la mia idea che Lavinia,
innamorata di Turno, a cui era promessa sposa, sia stata costretta a
sposare uno straniero appena arrivato. Questa è una mia
interpretazione, in realtà nell’Eneide non ci sono
prove di questo fatto.
Grazie per la vostra
attenzione,
LaLa
|