Kei
apre gli occhi alla nebbia mattutina; dalle persiane filtra un sole
a spicchi, scie di una luce granulosa che gli graffia il volto nel
suo buongiorno. Regala alla finestra l’angolo di un’occhiata
assonnata, mentre con la mano vaga tra le pieghe del futon srotolato
a terra.
Accanto a lui le coperte sono ancora
calde, ma s’afflosciano vuote, abbandonate.
Recupera gli occhiali, solleva la
nebbia che gli appanna la vista e si volta a guardare il posto vuoto
– sul cuscino c’è un biglietto piegato in due.
“Se vuoi, puoi tenere il letto
caldo, mentre vado a prendere la colazione⁓
—UV”
In basso traccia con l’indice i tratti
di una firma che non è un nome, ma una promessa di eternità, non
sono iniziali, ma una battuta beffarda, uno scherzo del destino. Un
anagràfo – il suo.
Appallottola il biglietto e torna
sdraiato.
*
Kei
ha sei anni e mezzo quando compare il suo anagràfo[1].
Per la maggior parte dei bambini si
manifesta al compimento dei sette anni, ma quello di Kei è un corpo
fuori tempo, che gioca d’anticipo, salvo poi fregarlo al traguardo.
Lo ha intuito dagli sguardi confusi
dei suoi genitori e da quello perplesso di suo fratello maggiore; se
intorno a lui gli anagràfi sono decorazioni del corpo, frasi che
serpeggiano intorno ai polsi o alle caviglie, che formano disegni
sulla schiena, sui fianchi, sul petto, il tatuaggio sulla pelle
della prima frase pronunciata loro dall’anima gemella, quello di Kei
è una presa in giro, un dito medio alzato alla predestinazione.
Kei
ha sei anni e mezzo quando capisce che per lui non c’è nessuno.
Kei
cresce lontano da leggende e tatuaggi e fili rossi del destino.
Avanza con le mani in tasca e le
cuffie alle orecchie, per non sentire il mondo pronunciare la prima
frase di qualcuno che non sarà mai lui.
«Quello è il tuo anagràfo?»
Yamaguchi
è un dito puntato alla clavicola scoperta di Kei – sotto gli occhi
stupiti, un tappeto di lentiggini e guance ancora tonde da bambino.
Il tatuaggio di Tsukishima è una
sbavatura nera sul candore di una pelle pallida, una crepa che
s’apre beffarda sulla superficie della luna.
Kei
abbassa lo sguardo e storce il naso, anche senza gli occhiali riesce
a tracciare a memoria i bordi netti di quei glifi senza senso.
«È solo uno scarabocchio» risponde
annoiato.
«Non sei curioso di sapere chi sia la
tua Anima gemella?»
«No. Non mi piacciono le persone
stupide e ho già la prova che si tratti di un’idiota.»
Eppure davanti allo specchio del
bagno, quando a casa non c’è nessuno, Kei fissa il suo riflesso.
A guardarlo sono occhi d’ambra sporca,
metodici e polverosi – come polvere è anche il resto, bloccato nello
spazio che s’è ritagliato in una vita senza drammi e sorprese,
lontano dalla luce del sole e dai fari della ribalta, dove non
esiste la fatica, ma cala la polvere.
L’anagràfo se ne sta incastrato tra la
spalla sinistra e la clavicola appuntita, facile da nascondere sotto
il colletto di una maglietta, ma così semplice da scoprire.
Quello di suo fratello, è una frase
tatuata sul fianco che forma una circonferenza, come un pallone da
pallavolo, così adatto per Akiteru – Kei, invece, guarda il proprio
e gli sembra un ghigno sghembo, il sorriso deforme di uno Stregatto.
Ambiguo. Inutile.
«Che perdita di tempo.»
Kei ha quindici anni, un pallone di
pallavolo tra le mani e, davanti a lui, un nanerottolo starnazzante
che salta e rimbalza vomitando energia da tutti i pori. È stanco
solo a sentirlo respirare, a sentirlo vivere con la forza di un sole
in miniatura.
«Ah! Ba-ba-bakayama…» balbetta il
rosso, quando si ritrova davanti al numero 9 della Karasuno.
«Uh?» gli sbuffa addosso Kageyama, un
pugno alzato per sbatterglielo tra capelli di fuoco.
Kei è stanco solo a sentire il modo
assordante in cui portano avanti la loro esistenza.
«Non ti sembra che Kageyama e Hinata
siano strani oggi?» gli chiede Yamaguchi.
Dietro di loro, Sugawara cattura una
risatina melliflua nel palmo, con l’espressione di una volpe bianca.
«Questo è perché hanno realizzato di
essere Anime Gemelle. Solo due come loro potevano essersi già
incontrati e parlati un anno prima e rendersene conto soltanto
adesso!»
Kei si passa le unghie sulla
clavicola. Prude, un prurito che gli scava nelle ossa, che gli apre
graffi nell’anima.
Lascia cadere il pallone – con un
rimbalzo calcolato sbatte sulla faccia di Hinata – e si allontana
verso l’altra metà del campo.
È stanco, stanco e basta.
Seduto a terra, Kei tira indietro la
testa, chiude gli occhi e riprende fiato.
«Oh, quindi anche quelli come te hanno
un’anima gemella, Tsukishima!»
La voce è quella squillante di Tanaka
senpai, che, in piedi, spia oltre l’orlo del suo colletto e lo
sorprende impreparato, con i denti che affondano nel labbro
inferiore.
«Cos’è, una parola in lingua
straniera?» si aggiunge Nishinoya; piccolo e svelto scopre la
clavicola di Kei e il tatuaggio che la marchia: una “u” tracciata
nello spazio vuoto di una “V”.
In due reclinano il capo, nei loro
occhi la stessa confusione ch’era stata dei suoi genitori e di
Akiteru.
Nishinoya batte un pugno nel palmo.
«Ho capito, l’anima gemella di Tsukishima è un alieno!»
Con uno strattone, Kei torna a
coprirsi, a ricomporsi. Lascia che sulle labbra danzi un sorriso
beffardo e solleva occhi sottili gonfi di un giudizio maligno sui
due compagni.
«Vista la vostra eloquenza non
dovreste essere voi quelli preoccupati che la vostra Anima gemella
vi creda alieni, senpai?»
Al sarcasmo, Tanaka risponde
sollevandosi una manica e gonfiando il bicipite a pugno chiuso.
«Maledetto Tsukishima!»
Ma prima che anche Nishinoya scopra le
chiostre dei denti che ha intenzione di stampare sul braccio di Kei,
il Capitano li inchioda tutti e tre al posto con un’occhiata che
sputa fuoco e fiamme.
Kei
non ha bisogno di anime gemelle, il suo cuore se lo tiene trincerato
nella cassa toracica, sotto una pelle pallida, e una scorza dura
d’indifferenza. Ma per tutto il pomeriggio, nella palestra del
Nekoma, ci sono occhi di un gatto randagio che lo inseguono dentro e
fuori dal campo, anche quando siede in panchina e strizza tra le
labbra una bottiglietta d’acqua fredda.
Kei
si gratta la spalla, sotto la maglietta l’anagràfo è un prurito che
per tutto il pomeriggio non gli ha dato pace.
Quelle che stanno affrontando sono
partite d’allenamento, la sconfitta non lo tocca e al contrario di
Hinata, non ci tiene a combattere all’infinito perché la palla non
arrivi mai a terra. È soddisfatto quando il fischio chiude
quell’incontro tra corvi e gatti. Ma mentre, tutti in riga, si
inchinano agli avversari, ringraziandoli del loro tempo, dietro al
collo scivolano brividi sconosciuti, richiamati da uno sguardo
felino.
Il Capitano del Nekoma gli sorride
sornione, un sorriso asimmetrico che tende a sinistra, dove ciocche
corvine di una frangia scomposta colano languide a coprirgli un
occhio.
Kei
storce il naso, si chiede cosa possa volere da lui. E l’anagràfo
prude, come se qualcuno continuasse a ricalcare con la punta di una
penna i segni che lo marchiano, ancora e ancora.
«Tsukki, il coach del Nekoma vuole
parlare con la nostra squadra» lo avverte Yamaguchi e poi si ferma.
Entrambi lo fanno.
Lo sguardo puntato alla maglia rossa
numero 1, a dita lunghe che si sollevano su un volto lungo e
appuntito, indice e medio separati a formare una “V” poggiata sulla
bocca schiusa e una lingua in fuori.
Di colpo l’anagràfo non prude più,
forse perché brucia come il resto del corpo di Kei, in una vampata
di calore che lo incendia da dentro.
«AH!» Yamaguchi si appende alla sua
manica, strattona e nella voce ha una nota incredula «Tsukki, è il
tuo—»
«Sta’ zitto, Yamaguchi.» Anche quella
di Kei ha una nota diversa, un tremolio lieve che lo accompagna fin
quando non si volta e dà le spalle al ragazzo, in fuga verso gli
spogliatoi.
Kuroo Tetsurou ha diciassette anni e
una missione. Non s’interessa ai capricci del destino, in un mondo
pieno di gente, non crede alla favola di una metà, là fuori, legata
a un filo rosso. Per Tetsurou l’amore non è una manciata di parole
tatuate – è desiderio e curiosità e mistero e un pizzico di malizia.
Ma durante la partita d’allenamento, Tetsurou si fa distrarre da
occhiali rettangolari e lo sguardo affettato del primino della
Karasuno, e l’anagràfo prude senza sosta.
Il suo tatuaggio è uno schiaffo
all’ego che gli adorna l’ombelico; la prima volta che lo ha letto ha
sorriso, sentendo sulla pelle la lama di quella lingua impietosa che
deve appartenere alla sua anima gemella.
È una scritta elegante, lettere
oblunghe e sottili che per qualche motivo gli fanno venire in mente
il ragazzo più alto della Karasuno. Chissà che frasi ha tatuato
addosso uno così, con la pelle di luna e un volto bianco come pagine
scritte a inchiostro simpatico – devi essere più furbo per poterlo
leggere, devi giocare sporco per poterlo colpire.
E Kuroo nemmeno ci pensa quando tira
fuori la lingua e la spinge in mezzo a due dita a “V” – ch’è forse
parlare con quel che ha tra le gambe che non nella testa, ma quando
il ragazzo lo fissa ed arrossisce, non crede esista al mondo nulla di
più delizioso.
Quando scappa, Kuroo gli è alle
costole, fin nello spogliatoio.
«Ho sempre pensato fossi analfabeta,»
il ragazzo apre la bocca ancor prima di sentirlo entrare «invece sei
solo un pervertito.»
La prima frase che gli rivolge è uno
schiaffo all’ego e un battito mancato del cuore.
Tetsurou
ride divertito.
«Sei tu.»
*
«Sei ancora a letto.»
Kei
sposta lo sguardo su Kuroo, quando lo vede spalancare la porta della
stanza con un piede – in una mano un bicchiere di cartone colmo di
caffè aromatizzato alle nocciole e nell’altra una sporta di plastica
con tutti gli ingredienti per la colazione.
«Mi stupisci Tsukki, è la prima volta
che fai quello che ti è stato detto.»
Kei
inarca un sopracciglio buttando fuori un sospiro leggero. «L’ho
fatto perché sono stanco e volevo riposare ancora un po’. Ieri notte
qualcuno non mi ha fatto dormire, l’hai dimenticato?»
«Scusa, tanto,
kozou[2],
pensavo che voi giovani d’oggi aveste più energia.»
«Non mi starai confondendo con
Hinata?»
Kuroo
ridacchia, si inginocchia sul bordo del futon lasciando sporta e
caffè in terra, si tende in avanti e sfiora la spalla sinistra di
Kei con un bacio che ricalca la sbavatura nera del suo anagràfo –
che forse, più che un vaffanculo alla predestinazione è ben
altro tipo di richiesta.
«Se mai dovessi scambiarti per quel
gamberetto, hai il mio permesso di uccidermi.»
Kei
affonda una mano tra capelli corvini. «Preferisco abbandonarti al
tuo miserabile destino.»
«Non lo faresti.»
Kei
sorride, un sorriso dolciastro, bugiardo e polveroso.
Tetsurou glielo leva dalla faccia con
un bacio che sa di caffè, amaro e intenso; affonda con la lingua
nella sua bocca, ad abbeverarsi dei suoi sospiri finché non sono
entrambi senza fiato.
«Sei bloccato con me per sempre,
Tsukki.»
Quando il bacio si scioglie, sul volto
della luna rimane solo una spruzzata di rosso e un languido
desiderio.
«Vale lo stesso per te.»
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