Bentrovati
a tutti.
Dopo parecchi dubbi, ho deciso di incominciare a pubblicare anche qui
la nuova versione di questa storia che giaceva abbandonata ormai da
diversi anni,
Sono
cambiate un po'
di cose, ci sono più punti di vista, diverse linee temporali.
Non
ho cancellato la
vecchia versione, che è ancora nei preferiti di un po' di
gente: a
un certo punto però divergerà da questa, quindi
le due versioni non
sono interscambiabili.
152
a.U.c. - Marzo
Erding,
Germania
Meridionale
La
pioggia non faceva
altro che accrescere la sua inquietudine. Gaio Vibo Orosio, Senatore
di Roma che da anni si era ritirato a vita privata alla ricerca di
una serenità che non aveva comunque mai trovato, strinse le
mani sul
telaio della finestra e fissò con sguardo assente le tegole
rosse
lucide di pioggia. L'acqua scorreva su di esse e si depositava
nell'impluvium al centro dell'atrio.
È
un bene,
considerò istintivamente abbassando gli occhi sulla vasca
che
dominava il modesto cortile quadrato. Faremo il pieno
di
acqua fresca.
Sorrise
amaramente. La
scarsità d'acqua era un problema a Roma o ad Alexandria,
dove aveva
passato la sua gioventù, non certo a Erding, bagnata da
piogge
regolari e circondata da una miriade di fiumi e torrenti.
L'uomo
sospirò e
rabbrividì. Fa freddo, si disse
stringendosi addosso la
toga di lana bianca. Rimpiangeva di non avere indossato una delle
pesanti tuniche intrecciate che andavano per la maggiore tra la gente
del posto, ma di lì a poche ore avrebbe avuto un ultimo
incontro con
il Legato e l'occasione richiedeva una certa attenzione per
l'etichetta.
Ci
siamo quasi,
pensò per farsi forza. Domani me ne
andrò e mi lascerò
finalmente alle spalle questo posto infernale. Aveva
passato
un anno e mezzo in quel remoto villaggio infossato tra le montagne e
non poteva fare altro che sperare che non fosse stato tutto tempo
perso. Non lo è, si
disse per rassicurarsi. Il
tempo speso per la famiglia non è mai perso.
Un
refolo d'aria umida
lo colpì in faccia e il Senatore si chiese se non fosse il
caso di
allontanarsi dalla finestra. L'idea di trovarsi rinchiuso tra le mura
della sua casa gli pareva però insopportabile: era ormai da
qualche
tempo che le pareti riccamente affrescate e decorate da marmi
policromi si erano fatte opprimenti, quasi soffocanti.
Dei
passi leggeri
risuonarono alle sue spalle e Orosio sobbalzò. Voltandosi di
scatto,
incontrò gli occhi chiari di Ilke, la sua serva germana.
«Cosa
posso prepararti per pranzo?»
L'uomo
storse
involontariamente le labbra. «Non ho fame, grazie.»
Lei
si accigliò. «Ma
non puoi non mangiare nulla. Saltare i pasti non fa bene nemmeno ai
ragazzi di vent'anni, Senatore: figuriamoci a un uomo della tua
età.»
Gaio
Vibo Orosio
trattenne un moto di irritazione. Fino a poco tempo prima aveva
apprezzato i modi spicci della donna, ma adesso la sua testardaggine
lo disturbava. Sto diventando insofferente a
tutto, riconobbe. Me ne devo
andare al più presto.
«Quindi?»
insistette
Ilke.
«Come
ho detto,
salterò il pranzo. Non preoccuparti per la mia salute:
vedrai che
l'appetito mi tornerà appena rimetterò piede a
Roma.»
Lei
lo guardò
dubbiosa, ma fortunatamente parve accettare la sua decisione.
«Se ne
sei proprio sicuro...» mugugnò visibilmente
contrariata.
Fece
per andarsene, ma
il Senatore la richiamò. «Aspetta! Non
è arrivato alcun messaggio
per me?»
«Da
parte del Legato?»
«No.
Da parte delle
persone che domani mi riaccompagneranno a Roma.»
La
serva scosse il
capo. «Nessun messaggio, Senatore.»
Orosio
annuì
mestamente e congedò Ilke con un cenno della mano. Quel
silenzio
iniziava a preoccuparlo. Sua figlia gli aveva garantito di aver
pensato a tutto, eppure, a poco più di ventiquattro ore
dalla
partenza, non aveva avuto ancora alcun contatto con colui o colei che
avrebbe dovuto portarlo via da Erding.
La
statuetta che le
aveva inviato avrebbe ormai dovuto essere arrivata a Cecilia o, se
non altro, trovarsi tra le mani di qualcuno di altrettanto fidato. Ma
che prove aveva del fatto che le cose fossero andare esattamente
così?
Nessuna,
riconobbe. Non ho nessuna prova che sia tutto a posto. Il
suo giovane amico gli aveva assicurato di aver fatto esattamente
ciò
che gli era stato chiesto, ma quella mattina gli era sembrato
stranamente sfuggente. O forse è solo una
mia impressione,
ragionò il Senatore raschiando un'imperfezione del telaio
con
un'unghia.
L'irrequietezza
del
soldato era giustificata, in effetti. La sera prima era scomparsa una
ragazzina locale e i suoi amici accusavano i legionari di averla
fatta sparire. A prescindere dal fatto che l'accusa fosse fondata o
meno, il malcontento dei Germani si sarebbe certamente abbattuto sui
pochi legionari di stanza al villaggio ed era comprensibile che tra i
soldati di Roma serpeggiasse un certo nervosismo.
Quasi
certamente il
modo sbrigativo in cui Marco l'aveva liquidato durante il loro ultimo
incontro non aveva nulla a che fare con la statuetta che gli aveva
affidato, eppure...
Il
Senatore scrollò il
capo, irritato dai suoi stessi pensieri. Non posso
iniziare a
dubitare di tutto, si disse. Il ragazzo si era sempre
dimostrato
affidabile e oltretutto Orosio conosceva suo padre da molti anni. Il
vecchio Appio era un uomo come quelli che piacevano a lui, era un
Senatore suo pari e aveva anche un passato del tutto simile al suo.
Perché il figlio avrebbe dovuto essere diverso dal genitore?
Senza
contare che Marco
non avrebbe saputo cosa farsene della statuetta dell'aquila: per
quanto ne sapeva lui, si trattava di un oggetto di pregio, ma senza
un vero valore. Un semplice dono che un vecchio padre desiderava
inviare a una figlia che non vedeva da troppo tempo.
Quella
consapevolezza
non era però sufficiente per tranquillizzarlo: non riusciva
a
scrollarsi di dosso l'impressione che qualcuno gli stesse dando la
caccia. Era certo che chi lo braccava fosse già
lì, tra le strade
umide di quel villaggio della Germania Meridionale.
Il
Lupo, pensò
con il cuore che accelerava i battiti. È
il Lupo. Non
lui in persona, naturalmente, giacché non si sarebbe mai
preso il
disturbo di venirlo a cercare in un posto simile, ma qualcuno dei
suoi segugi. Ne sentiva il fiato sul collo.
C'erano
cose di cui non
si sarebbe mai liberato, nemmeno se fosse vissuto cent'anni, e quella
maledetta firma che gli avevano estorto più di dieci anni
prima era
una di esse.
Non
te l'hanno
estorta, sghignazzò una voce sua testa. Quell'ordine
tu
l'hai firmato più che volentieri: eri convinto che fosse la
cosa
giusta da fare.
Ora
non ne era più
tanto sicuro, ma che differenza faceva? I morti restavano morti e lui
iniziava a capire che tutti i soldi del mondo non sarebbero stati
sufficienti per lavare via la macchia che insudiciava il suo passato.
Non poteva fare altro che sopravvivere cercando di sfuggire alle
conseguenze di ciò che aveva fatto e sperare che le sue
colpe
morissero con lui e non rimanessero invece attaccate a Cecilia come i
semi di un'erba velenosa.
Sopravvivere,
ripeté in silenzio; e un sorriso amaro piegò le
sue labbra. Restare
in vita ancora per qualche anno rischiava di diventare un'impresa
più
ardua del previsto. Pensava di essere stato prudente, credeva di
essere riuscito a far perdere le proprie tracce, ma evidentemente non
era così. Qualcuno l'aveva seguito per tutti quegli anni,
oppure era
riuscito a ritrovarlo seguendo una qualche pista che aveva
inavvertitamente lasciato dietro di sé.
Negli
ultimi tempi
aveva spesso cercato di indovinare l'identità del cacciatore
che si
apprestava a uscire allo scoperto. Probabilmente si nascondeva tra le
fila dei militari al servizio di Roma. Quella dei Germani era una
comunità chiusa e un estraneo avrebbe facilmente dato
nell'occhio,
mentre l'esercito dell'Urbe era un porto di
mare. Da
quando Cecilia l'aveva messo in guardia sui movimenti del Lupo, il
Senatore aveva iniziato a guardarsi attorno con più
attenzione,
cercando di capire chi tra gli uomini e le donne che lo circondavano
potesse essere al soldo di quell'uomo che lo tormentava da ormai due
lustri.
Un
paio di sospetti ce
li aveva, primo fra tutti Shahin il Siriano, il giovane medico
militare che aveva preso servizio all'accampamento qualche mese
prima. Non era l'unico legionario di origini orientali presente al
villaggio, ma il suo arrivo improvviso e in una posizione tanto
importante l'aveva insospettito. C'era già un medico che si
prendeva
cura della salute dei soldati, che motivo c'era di farne arrivare un
altro? Il numero di uomini presenti alle porte di Erding non era
aumentato tanto da giustificare quell'assunzione.
Ogni
volta che aveva
avuto a che fare con lui, Shahin aveva tenuto un comportamento
inappuntabile, eppure a Orosio pareva che la sua cortesia avesse un
che di ostentato. Se gli altri soldati si affannavano per entrare in
confidenza con lui, sperando forse di ottenere qualche favore
politico, il giovane medico si teneva a distanza, esibendo un
disinteresse che al Senatore sembrava innaturale.
Quel
ragazzo
nasconde qualcosa, pensò per l'ennesima volta,
fissando la
pioggia con sguardo accigliato. Aveva provato a parlarne con Marco,
ma nemmeno il figlio di Appio aveva molte informazioni sul suo
passato e su ciò che aveva fatto prima di approdare a
Erding. Il
che, naturalmente, lo rendeva ancora più sospetto agli occhi
del
Senatore.
Qualcuno
bussò alla
porta d'ingresso e Orosio rimase per un attimo in ascolto. La voce
secca di Ilke risuonò attutita dalla distanza, e dopo
qualche
istante l'uomo si rilassò. In previsione della sua imminente
partenza in casa c'era un gran viavai di fattorini e garzoni intenti
a imballare e a spostare sui carri oggetti di cui non avrebbe
comunque più avuto bisogno. Quest'ultimo particolare era
sconosciuto
ai più e il Senatore sopportava controvoglia la presenza di
quelli
estranei che lo costringevano a stare sempre in allerta.
A
Ilke aveva chiesto di
non lasciare entrare nessuno che non fosse già da tempo
solito
frequentare la sua abitazione e che non avesse in quel momento un
valido motivo per fargli visita, ma quella precauzione non era
comunque sufficiente a mettere a tacere l'inquietudine che gli
mordeva le ossa.
Dal
piano inferiore
giunse un parlottare indistinto e Gaio sentì la donna dire
che sì,
era di sopra, ma che sarebbe stato meglio non disturbarlo se non per
delle vere emergenze. L'interlocutore della sua serva parve
protestare e il Senatore sospirò e tornò a
rivolgere la propria
attenzione sulla pioggia che bagnava le tegole del tetto.
Gli
piaceva pensare di
essersi sempre circondato di gente efficiente, eppure negli ultimi
giorni sembrava che nessuno fosse più in grado di fare il
proprio
lavoro senza essersi prima confrontato con lui.
I
passi rapidi, ma
pesanti, che si avvicinavano gli diedero un'immagine piuttosto
precisa dell'uomo che stava risalendo le scale: qualcuno che aveva
fretta di portare a termine il proprio lavoro e che forse era anche
un po' infastidito dal fatto che il Senatore non si fosse fatto
trovare al piano inferiore, costringendolo ad arrampicarsi fino a
lì
per ottenere la risposta di cui aveva bisogno.
Un
trasportatore,
ipotizzò Orosio. O forse, finalmente, la persona che
l'avrebbe
portato via da Erding? Quel pensiero gli ridiede energia e lui si
sentì improvvisamente più leggero, più
in forza di quanto fosse
stato negli ultimi tempi.
Quando
il suo
visitatore lo raggiunse però nella stanza, l'eccitazione del
Senatore si sciolse però come neve al sole: era uno dei
garzoni che
erano soliti frequentare la sua casa e se l'aveva cercato era per un
motivo sicuramente più banale.
«Sì?»
gli chiese,
senza preoccuparsi di nascondere il proprio fastidio.
Il
germano non rispose,
ma gli si avvicinò velocemente. Fu solo in quel momento che
Gaio
Vibo Orosio scorse l'arma che teneva in mano. Avrebbe voluto gridare,
richiamare in qualche modo l'attenzione di Ilke o di una delle
persone che si trovavano al piano inferiore, ma non ne ebbe il tempo.
Prima
di chiudere gli
occhi, si concesse un ultimo pensiero: non era il
Siriano,
dopotutto.
A
conti fatti, della
vita non ci aveva capito poi un granché.
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