La Bizzarra, Anacronistica Storia di un Cavaliere, una Londinese ed un Faro di IlakeychanMorgain28 (/viewuser.php?uid=82229)
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Green 1
La Bizzarra, Anacronistica Storia di un Caveliere, una Londinese ed un Faro
Prima collaborazione tra me, Morgain28, ed Ilakey_chan. Un'idea nata
dal delirio sul Green Knight e la sua situazione sentimentale, che
abbiamo voluto realizzare a tutti i costi! Speriamo vivamente che ci
accompagnerete alla scoperta di un cavaliere che, diviso tra due mondi
diversissimi, troverà, infine, un posto nella vita di una
modernissima, pazza londinese dei nostri tempi. E di come lei lo
troverà nella sua.
Dedicato a Bertilak, Cavaliere Verde, mio imperituro amore, e a noi, nella nostra prima, pazza avventura.
Capitolo 1: Le Cose Che Detesto
Il faro rosso e bianco spiccava imponente sulla città di Plymouth. In
qualunque punto uno si trovasse, avrebbe potuto vedere la grossa struttura
innalzarsi, orgogliosa e solitaria, sugli abitanti della città, abbracciando con
fare quasi protettivo la baia, ogni notte. Al momento, tuttavia, il faro
riposava tranquillo, lasciando il posto ad un pallido sole i cui raggi passavano
a fatica attraverso la coltre di nubi grigio scuro, una seria minaccia di
pioggia.
Dal suo appartamento al secondo piano, Eva O'Connel fissava il cielo
in subbuglio con espressione imbronciata, tentando di scacciare il cattivo
presentimento che le attorcigliava lo stomaco: la promessa del temporale non
faceva altro che rendere il suo umore, già teso come una corda di violino,
ancora più nervoso. Eppure, tutt'altra era stata la sua reazione quando aveva
saputo che, dopo un'infinità di tempo e impegno, avrebbe realizzato uno dei suoi
sogni più arditi: entrare da dipendente nel Museo Elisabettiano di Plymouth.
All'epoca, quando la sua ex professoressa di Letteratura Inglese le aveva
comunicato la notizia, aveva creduto di poter toccare il cielo con un dito,
nonostante sapesse quali e quanti cambiamenti la scelta di accettare avrebbe
implicato nella sua vita; adesso che il momento era arrivato, l'unico sentimento
che provava era un'acuta voglia di vomitare.
Si voltò verso lo specchio
intero che occupava quasi tutta la piccola stanza semivuota, che portava ancora
i segni del suo recentissimo trasferimento in città. Distrattamente, passò una
mano a lisciare una grinza sui sobri pantaloni neri che aveva comprato per
l'occasione, nella speranza di darsi un minimo di credibilità; poi, rise di se
stessa. Non era facile darsi un tono, quando ti ritrovavi il viso lentigginoso e
la struttura fisica di una quindicenne, per di più bassina, pur avendo dieci
anni di più. Le efelidi le costellavano gli zigomi pallidi e paffuti e il naso
piccolo, che spariva dietro alla montatura degli occhiali quando leggeva; le
lentiggini continuavano il loro tragitto, diffondendosi per il resto del corpo e
non accennavano a diminuire nonostante la lotta agguerrita in cui Eva le aveva
ingaggiate fin dall'adolescenza - stava così poco al sole da sembrare un
fantasma. Ma la cosa che più la infastidiva in assoluto era un'altra: il rosso
intenso dei suoi capelli, ereditati chissà da quale antenato irlandese nella
linea di sangue di suo padre. Quel colore, oltre a renderle praticamente
impossibile vestirsi ogni mattina, era di un'appariscenza inconcepibile; se
avesse voluto fare la spia di professione, ragionò, a causa della sua
capigliatura non ne avrebbe mai avuto la possibilità. Per quella, e per la sua
innata goffaggine.
Quella mattina, aveva cercato di rimediare
attorcigliandoli in una crocchia severa sulla nuca, ma la pettinatura non
smorzava granché l'effetto torcia che le provocavano. Sua madre, orgogliosa
posseditrice di una sobria chioma nera, per scherzare, andava dicendo che
avrebbe fatto meglio a chiamarla Anna; per scherzare, e per irritarla
deliberatamente a morte. Il che non era poi così difficile a farsi, dato che Eva
incarnava consapevolmente tutte quelle dicerie che pullulavano sulle persone con
il suo colore di capelli; irritabile, litigiosa e testarda. E fiera di esserlo,
si disse con orgoglio. Nonostante quel suo carattere focoso, l'umidità di quella
città sembrava aver spento tutta la sua baldanza; si sentiva nervosa come poche
volte lo era stata in vita sua. Il suo flusso di coscienza terminò bruscamente
quando avvertì un insopportabile puzzo di bruciato provenire dalla cucina; si
diresse verso la stanza correndo, rischiando di rompersi l'osso del collo
scivolando su un tappeto, ma non fece in tempo ad evitare il disastro: fissò con
disgusto i resti della sua colazione, che pur concepita come una fetta di pane
tostato, assomigliava di più ad un tizzone carbonizzato. Con cautela, lo gettò
nel secchio sotto i fornelli, il naso arricciato per l'odore pungente: perfetto,
persino il tostapane aveva deciso di fare il difficile, quella mattina.
Fantastico.
Mentre apriva la finestra nella speranza di respirare di nuovo,
il suo orologio da polso, programmato con cura per ovviare ad una sua certa
tendenza ad essere sempre in ritardo, cominciò a suonare. Eva si bloccò di
colpo, presa dal panico: non aveva tempo di fare colazione, se voleva arrivare
in tempo alla fermata dell'autobus, e rifiutava di concepire l'idea di arrivare
meno che puntuale, ad ogni costo. Afferrò la pesante borsa in fretta, chiuse a
chiave l'appartamento e caracollò giù per le scale alla volta della fermata
dell'autobus per la strada affollata del centro. Corse a perdifiato, andando a
sbattere contro diversi passanti sistematicamente, i piedi doloranti per lo
sforzò, e urlando scuse sconnesse; arrivò in tempo per un soffio, esausta e
accaldata pur in quella fredda giornata di ottobre. Cinque minuti dopo, si
dirigeva alla volta del suo posto di lavoro, pigiata tra un passeggino ed un
uomo di mezza età che emanava un forte odore di sigaro. Un'altra cosa da
annoverare tra le tante che detestava, decise: gli autobus pieni del lunedì
mattina. Aveva già percorso quel tragitto il giorno precedente, per evitare di
sbagliare strada; il tratto dalla fermata al Museo era misericordiosamente breve
e diretto. Ma la domenica era un altro universo rispetto all'affollamento del
lunedì: l'abitacolo era pervaso dal parlottio della gente, pacato ma che creava
lo stesso un brusio poco piacevole; il respiro della folla appannava i vetri dei
finestrini, in una patina di umidità. Eva ci passò un dito, creando una scia
dritta e netta sul vetro sporco. Cominciava a innervosirsi di nuovo, dopo
essersi ripresa dalla corsa mattutina. Allentò la sciarpa intorno al collo della
giacca pesante. La sua testa si riempì nuovamente di ipotesi e sogni ad occhi
aperti: chissà dove avrebbe lavorato, si chiedeva tra timore ed anticipazione, o
cosa avrebbe dovuto fare. Come sarebbero stati i suoi colleghi? Gli sarebbe
piaciuta? L'autobus frenò all'improvviso, ricordandole dove si trovasse. Mise da
parte le sue riflessioni, prestando attenzione alla strada. Per dieci minuti
osservò il continuo susseguirsi degli edifici: la città prendeva vita sotto i
suoi occhi, il rumore dei clacson echeggiava dall'esterno. Riconobbe il suo
punto di riferimento, la grossa insegna di un ristorante cinese, ancora spenta
ma ben visibile nel suo violento colore rosso fuoco. Un po' a spinte, un po' a
balzi, arrivò all'uscita, scendendo più in fretta che poté nel traffico
cittadino. Poteva già vedere la cima dell'edificio bianco ed alto che era la sua
meta. Saltò giù con la poca agilità che possedeva, evitando una pozzanghera
grigiastra e fangosa per un pelo, mentre gettava uno sguardo all'ora: era ancora
in tempo. Doveva essere un miracolo. Si avvio a passo svelto nella via di fronte
a lei, scalpitando come un cavallo nervoso, fino ad arrivare, finalmente al suo
traguardo: " Museo e Galleria d'Arte della Città di Plymouth", recitavano i
caratteri cubitali incisi sulla facciata dell'edificio. Eva si passò una mano
tra i capelli, ormai inevitabilmente arruffati dalla corsa, un largo sorriso
pieno di aspettativa che si formava sulle labbra nude e sottili: iniziava
l'avventura.
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