La Battaglia di Vigrior

di Orso Scrive
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Epilogo

 

 

Le onde spumeggiavano contro la chiglia della nave. L’aria era tersa, pura. Il profumo di salsedine era inebriante. Presto, però, all’odore del mare se ne sovrappose un altro.

Fiori e erbe.

La foschia si aprì e, all’orizzonte, nel mezzo del fiordo, apparve Thule. Su di essa, in perpetuo, splendeva il Sole. L’imperitura Luce del Nord, pronta a dare rifugio agli scampati.

Ferma a prua, Dana fissò la terra del suo sposo. Morfesa, che reggeva al timone, non aveva sbagliato rotta. Stavano tornando a casa.

Tutti quanti.

«Sto adempiendo al mio dovere, mio sposo», sussurrò Dana. «Mi hai accordato un compito gravoso, ma lo sto assolvendo. Condurrò il tuo popolo qui, su Thule e sui fiordi che la circondano. Manterremo viva la saggezza di Iperborea. Lo faremo fino a che i ghiacci non giungeranno a scacciarci, come hai profetizzato. Ma possa tu esserti sbagliato. Se così non fosse, io sarò alla testa del mio popolo. Non ci fermeremo finché non saremo in salvo.»

Dana sospirò.

Sapeva che, per gli Iperborei devoti alla saggezza e all’antico culto di Beli, lei era la madre. La Grande Madre, come la chiamavano in molti, identificandola con la natura stessa, la maggiore delle divinità. Una dea in forma umana. Qualche volta, avrebbe desiderato essere Dana e basta. Ma quel compito gravava sulle sue spalle e lei non si sarebbe disfatta mai e poi mai del suo fardello.

Incrociò lo sguardo di Morfesa.

Non sarebbe mai stata sola, lo sapeva.

Loro erano i Tuatha Dè Dannan. Gli eredi di Vrillon, di Beli. Gli ultimi figli di Iperborea degni di questo nome. Il popolo della dea Dana.

E la dea era lei.

 

* * *

 

Seduta a poppa con le altre ancelle, Clisitira fissava il mare scorrere sotto la chiglia.

Raggiungere la costa non era stato facile, perché la marmaglia era ovunque. Più di una volta, alcuni soldati avevano cercato di catturarla. Un mostruoso essere per metà uomo e per metà cavallo l’aveva inseguita a lungo, prima di desistere. Sapeva più che bene che, se fosse stata catturata, non avrebbe avuto alcuno scampo. Se fosse caduta nelle mani dei soldati ormai fuori di senno, per lei non ci sarebbero stati altro che stupri, torture, morte.

Aveva trovato la forza e il coraggio per andare avanti.

Non si era arresa.

Lo doveva a Ismaro, che viveva dentro di lei.

Infine, stremata, era giunta al punto in cui sapeva essere ormeggiata la nave. Dal mare si levava la foschia, che celava tutto alla vista. Non aveva visto nulla e, per un istante, Clisitira aveva creduto di essere perduta. Se così fosse stato, avrebbe preferito darsi la morte, piuttosto che cadere nelle mani degli uomini di Saturno.

Poi aveva udito delle voci.

Le aveva riconosciute.

Gli adepti di Beli erano vicini.

Aveva mandato un grido, era corsa da quella parte. Dalla nebbia aveva fatto capolino un volto. Un volto che lei conosceva. Morfesa, il druido, l’uomo più vicino a Dana. Ormai priva di forze, Clisitira si era accasciata tra le sue braccia.

Quando si era risvegliata, erano in mezzo al mare.

Veleggiavano verso Thule, verso la salvezza.

La giovane si sfiorò il petto. Nel solco tra i seni, avvertì la compattezza del diadema che Ismaro le aveva donato un istante prima di abbandonare la sua forma fisica. E sotto il seno, dentro il torace, nel profondo del petto, nella parte più intima della sua anima, la ragazza avvertì qualcosa di caldo, di forte e di sicuro.

Ismaro era in lei, ne era certa.

Sarebbero stati insieme per sempre, come lei aveva promesso.

Thule, ormai, era vicinissima.

Il Sole brillò forte, avvolgendo la nave con il suo benefico calore.

 





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