Prologo
Il Principio
Com’è fatto un mostro? Me lo chiedevo sempre da
bambino.
Poi, crescendo, ho smesso di credere in quelle cose. Quando qualcuno mi
chiedeva se credevo ai fantasmi, agli alieni, o a qualunque altra cosa
che non
fosse scientificamente provata, gli rispondevo che erano tutte favole
per
bambini.
A scuola tutti mi prendevano per un genio. Ho imparato a
godere di quel soprannome. Fino alla terza media la mia vita era stata
un
disastro. Quando sono entrato al liceo tutto è cambiato. I
miei voti spiccavano
tanto che, un mese dopo la fine degli esami di terza media, con cui
sono uscito
col massimo dei voti, mi è arrivata una lettera. Era un
liceo “speciale” come
aveva detto mia madre quando le chiesi se era stata lei a fare la
domanda
d’iscrizione e lei rispose di sì.
Per tutti i cinque anni ho sempre avuto la media più alta di
tutto l’istituto. Ma, al contrario delle medie, dove ricevevo
solo disprezzo
dagli altri per il mio livello d’intelletto superiore
rispetto alla media, qui
tutti mi facevano i complimenti e mi invidiavano. Mi sentivo importante
lì
dentro. E quando, alla fine degli esami, mi arrivò
un’altra lettera che mi
chiedeva di prendere parte ad un esperimento scientifico, non mi tirai
certo
indietro. Solo un mese dopo, mi resi conto del mio gigantesco errore.
La settimana successiva, preciserò anche la data, ossia dal
giorno 01 luglio 2074, al 07 luglio 2074, gli scienziati del
laboratorio
sotterraneo della scuola mi fecero vari test. La prima domanda che mi
fecero fu
se avevo mai donato o perso un organo. Io risposi di no. Poi
continuarono
chiedendomi di allergie, malattie, tumori e altra roba del genere.
L’ultima
domanda, che fu quella che mi colpì di più, era
se avevo mai assistito ad
episodi paranormali o alieni. Risposi di no, e ci tenei a precisare che
non
credevo a quelle idiozie. Lo scienziato che avevo davanti
tentò di sopprimere
una risatina. Io feci finta di non averci fatto caso. Lo stesso tizio
mi disse
che avevo i requisiti adatti per poter prendere parte a
quell’esperimento. E si
fece sfuggire una parola che cominciò a farmi pentire di
quella scelta. La
parola in questione era cavia. Adesso mi sembrava tutto molto
più chiaro. Di
scienziati lì in mezzo ne avevano più che
abbastanza per un esperimento, quello
che gli mancava era una cavia umana.
Mi fecero uscire dal luogo dove mi facevano i test, e io
camminai fino a casa pensando a cosa mi sarebbe successo in quel
laboratorio.
Agli studenti non era permesso di entrarci, e nemmeno ai cittadini, a
causa delle
radiazioni che venivano emesse da alcune macchine. Ma giravano alcune
storie
nella scuola a proposito di quel laboratorio. Storie di urla, sangue e
gente
che spariva. In effetti un paio di quelle leggende, se si possono
chiamare
così, sembravano proprio vere. Come quella di Charles
Mander, che aveva
attraversato quella porta da solo, una volta, registrando tutto quello
che
vedeva con una telecamera. Poi, appena la porta automatica si chiuse
alle sue
spalle, l’obiettivo diventò tutto nero. Si
sentirono delle grida e, quando si
rivide qualcosa, la telecamera era sdraiata per terra, e Charles non
c’era più.
A scuola si sapeva questa cosa, perché, il giorno dopo, una
ragazza che si era
persa per la scuola, passò davanti alla porta del
laboratorio. Quando le porte
si aprirono e vide la telecamera per terra, la raccolse e
scappò via. Quel
video comparve poi nello schermo della scuola perché quella
ragazza l’aveva
messo nella custodia di un documentario sull’energia
nucleare. Proprio per
farci vedere cos’era successo.
Inutile dire che poi quel video è stato tolto dalla
circolazione e il laboratorio protetto da un riconoscimento vocale. Per
evitare
che l’incidente si ripetesse di nuovo.
Non riuscivo a capire perché, ma da quando mi avevano posto
quella domanda sugli episodi paranormali o alieni, soffrivo un
po’ di paranoia.
Mi fidavo a tal punto del giudizio scientifico, che quella domanda fece
crollare tutto ciò di cui ero convinto fino a quel momento.
Accettai
l’esistenza di qualcuno che ci guardava dall’alto.
E anche il fatto che i miei
nonni, morti entrambi nella grande epidemia del 2061, potevano ancora
essere
dietro di me. Che idiota che ero. Ma io non anticiperò nulla
della mia storia.
Perché voglio che voi, che leggerete o ascolterete la mia
storia, sappiate
tutto a tempo debito.
Comunque. La mia casa non era altro che un piano di quei
nuovi palazzi. Non era un semplice appartamento. Era un piano intero. E
anche
abbastanza bello a vedersi. Sì, se ve lo state chiedendo, la
mia famiglia era
benestante. Papà dirigeva una catena di concessionarie,
perché, al contrario di
ogni mio sogno, non avevano ancora inventato un sistema
antigravitazionale per
le macchine. Quindi andavano ancora su quattro ruote. Ma in compenso
hanno
inventato un modo per far andare avanti le macchine senza bisogno della
benzina.
Perché il petrolio era finito da uno o due decenni, e
l’ingegno umano
continuerà a sorprenderci sempre. Non vi
spiegherò come funzionano questi nuovi
motori, perché è un discorso che non aderisce con
la mia storia. Dicevo… ah sì,
mamma era una delle migliori dottoresse che girassero a quei tempi.
Quando arrivai al mio piano, trovai i miei genitori a
braccia spalancate, e con una torta in mano. Gli chiesi
perché e loro mi
risposero che avevo intrapreso la carriera che era stata la prima di
papà. Io
le risposi che si stava sbagliando. Non era possibile che mio padre
fosse stato
in quel laboratorio. Per quella sera preferirono tralasciare il
racconto.
Il giorno dopo mi scordai di chiederglielo di nuovo, e così
fu per tutto il mese.
Passai quel mese a studiare tutti i misteri della storia in
cui si parlasse di un possibile intervento alieno. Per qualche giorno
mi chiesi
come aveva fatto quella gente a trovare un modo per contattare le forme
di vita
aliene. Per tutto il mese rimasi rinchiuso in camera mia,
sorprendendomi del
fatto che mia madre non si lamentava di dovermi portar il pranzo e la
cena in
camera.
Studiai tutto quello che c’era da studiare. Tutto quello che
i libri di storia non raccontano. Finché, una notte,
precisamente a mezzanotte
e qualche minuto, arrivò una telefonata. Mia madre rispose,
ma stranamente non
continuò a parlare per ore. La sentii camminare verso la mia
porta, con un
passo simile a quello dei condannati a morte che vanno al patibolo.
Bussò.
Entrò. E con gli occhi sgranati mi disse che era il
laboratorio. Mi chiesi
perché aveva quell’aria spaventata, ma poi capii
tutto. Al telefono lo stesso
scienziato che mi aveva mandato la lettera di domanda per la
partecipazione
all’esperimento, mi avvertì che, a causa di un
problema che non volle
specificare, l’esperimento sarebbe iniziato tra sette ore.
Mia madre aveva
sempre avuto paura di quel momento, come se io fossi destinato a
sparire nel
nulla.
Non preparai niente, tranne un sacchetto con un po’ di cibo
dentro, perché mi avevano detto che l’esperimento
sarebbe durato qualche
giorno. E dal momento in cui io entravo nel laboratorio, non ne sarei
più
uscito fino alla fine dell’esperimento.
Mio padre mi strinse la mano, mia madre mi baciò sulla
fronte, e poi attraversai la porta di casa. Incosciente
dell’immenso errore che
stavo commettendo.
Mai ero stato più spaventato. Ma ormai non potevo certo
tirarmi indietro. Camminai per quel pezzo di città che
separava la mia casa
dalla scuola.
La pioggia cominciò a bagnarmi il volto, e mi costrinse a
correre sotto il balcone di una piccola abitazione. Da quella casa
uscì poco
dopo una ragazza che aveva più o meno la mia età.
Mi guardò con uno sguardo
dolce. Poi mi chiese dove stavo andando prima che iniziasse a piovere.
Io le
risposi che stavo andando alla scuola lì vicino. E lei disse
che mi avrebbe
accompagnato, perché anche stava andando lì.
Durante il viaggio mi parlò del
fatto che qualche giorno prima le era arrivata una lettera. Era la
stessa
lettera che era arrivata a me. E che ora si stava dirigendo al
laboratorio.
Allora le dissi che anch’io dovevo andare nel laboratorio. In
un certo senso mi
sentii felice del fatto che c’era un’altra persona
che andava in quel posto
insieme a me.
Quando arrivammo davanti al cancello della scuola, lei volle
sapere il mio nome. Glielo dissi, poi le chiesi il suo. Si chiamava
Jill.
Entrammo e subito i ricordi dei cinque anni passati lì
dentro riaffiorarono nella mia mente. Da quando mi era arrivata la
lettera di
accettazione alla scuola. I test d’ingresso dove presi il
massimo dei voti. E
poi ogni giorno. La mia prima vera storia d’amore con
Aleesha. E come
scordarla, con lei ho passato la notte più bella della mia
vita.
Passammo davanti a tutte le classi, dovevamo arrivare fino
in fondo al corridoio per arrivare all’ascensore. Nella
telefonata mi dissero
anche che cosa dovevo fare per passare le esagerate misure di sicurezza
di quel
posto. Misi i miei occhi davanti a una specie di robot grande quanto la
mia
testa. Questo aprì gli occhi che erano in realtà
dei piccoli televisori. Fece
una scannerizzazione dei miei occhi, e dopo qualche secondo la porta di
ferro
accanto a me e Jill si aprì. Entrammo. Un soldato ci chiese
chi eravamo e, dopo
aver chiesto l’autorizzazione attraverso
un’auricolare, ci fece entrare. Passammo
attraverso un cunicolo stretto, e io mi chiesi quando avevano trovato
il tempo
di creare una simile struttura sotto la scuola. Ero talmente assorto
nei miei
pensieri, che Jill mi afferrò per una spalla appena in tempo
per evitare che io
sbattessi contro il portone del laboratorio.
Non sapevamo cosa fare. Non avevo proprio pensato a chiedere
come entrare. Jill bussò, io allarmato tentai di fermarla,
ma quando arrivai a
bloccarle il braccio, era troppo tardi. Mi chiese perché la
volevo fermare, e
io le rivelai che avevo paura. Mi prese per mano, come se fosse stata
mia
madre, e poi mi disse che non sarebbe successo niente lì
dentro.
Un colpo. Riempì il corridoio dietro di noi con un suono
cupo. Un altro. E un altro ancora, non sapevamo dove andare. Qualunque
cosa ci
fosse dietro a quel portone, doveva essere grande, forte, e abbastanza
arrabbiata
da poter essere pericolosa. Un grido di dolore ci distrasse un attimo
dal
grigio della porta. Non c’era nessuno. Mi guardai intorno
alla ricerca di
qualche uscita sicura. A un paio di metri a sinistra di Jill
c’era un vecchio
fucile. Non come quelli che si usano oggi, che sparano un segmento di
laser
verde che si ricaricano grazie ad uno zainetto a cui è
attaccato. E che di
solito i militari tengono attaccato alla schiena. Ma più
grande, molto più
ingombrante di quelli che mi facevano usare nell’esercito
durante i miei due
anni obbligatori prima del liceo. Quelli erano lunghi sessanta
centimetri
circa. Mentre quello che era appoggiato al muro era di
un’ottantina di centimetri.
Vicino c’erano delle munizioni a pallettoni, come quelle che
venivano usate
durante le guerre mondiali. La presi e la caricai, anche se non sapevo
bene
come fare. Poi mirai contro la porta i cui cardini si stavano rompendo.
Si ruppe e cadde con un boato che mi fece male alle
orecchie, mentre Jill se le era coperte. Sparai un colpo tra la polvere
dei
pezzi di muro che cadde insieme alla porta. Il proiettile non
colpì nulla, e si
andò a conficcare in un computer dall’altra parte
della stanza. Quando quella
specie di nebbia calò e mi permise di guardare
all’interno del laboratorio,
notai che effettivamente non c’era nulla. Non riuscii a
spiegarmi chi o cosa
fosse la causa di quei colpi. Abbassai l’arma e mi girai
verso Jill. Lei aveva
gli occhi sgranati come se avesse visto un fantasma. Mi girai nella
direzione
del suo sguardo e lo vidi. Un corpo era disteso a terra. Avevo quattro
fori sul
petto. Lo spostai e quello cadde di lato. Qualcosa gli aveva trapassato
il
corpo. Ero certo che non fosse un’arma al laser,
perché sul suo camice non
c’era nessun segno di bruciato. Allora pensai ad un fucile
anticarro, ma
esclusi subito l’idea a causa della finezza dei buchi. Le
uniche due cose che
potevano avergli provocato una simile atrocità potevano
essere, o dei
proiettili di precisione, oppure degli artigli molto lunghi.
Sotto di lui cominciava una striscia di sangue che
proseguiva per una decina di metri fino alla fine del corridoio. Non
poteva
essere di un umano. Il tratto coperto era troppo. E la scia troppo
densa perché
potessero essere quegli otto litri di sangue che in media un uomo
adulto ha.
Rimisi il calcio del fucile sulla spalla. Girammo un angolo.
Man mano che ci avvicinavamo di più, sentivamo qualcuno
ansimare. Credevo fosse
uno scienziato rimasto in vita. Appena passai oltre un pezzo di muro
crollato
che mi nascondeva da possibili cecchini, rimasi incredulo. Un essere
orribile
era entrato nel mio campo visivo, senza orecchie, pelato, con la pelle
color
marroncino e degli artigli lunghi una trentina di centimetri, era
magrissimo.
Se fosse stato umano gli avrei potuto vedere chiaramente le costole.
L’anca
sporgeva dal suo corpo. Aveva dei piedi scheletrici, un sottile strato
di pelle
copriva le ossa dal pavimento sulla pianta, mentre il resto era
scoperto e
mezzo marcio. I muscoli dei polpacci erano marcati, ma sembravano
essere i soli
che aveva. La colonna vertebrale spuntava anch’essa e
rimaneva attaccata al
corpo solo da alcuni piccoli fili di carne neri. Le braccia erano
formate da
solo scheletro. Tranne le mani, che, nonostante fossero
anch’esse ossute, erano
coperte da uno strato di pelle, come quella dei piedi e del tronco. La
testa
aveva una strana forma allungata. Intorno a lui c’erano una
decina di corpi
insanguinati. Diede il colpo di grazia a quello che gli stava davanti.
E
l’ansimare di quel tizio, improvvisamente si
bloccò. Dissi a Jill di tornare
nella stanza precedente e trovarsi un rifugio sicuro e di restare
pronta per
una fuga. Lei si nascose dietro due blocchi di muro crollato.
Il cuore mi batteva così forte che non potei fare a meno di
chiedermi se quel coso lo sentisse. L’adrenalina era alle
stelle. Un momento
prima di premere il grilletto e far esplodere la testa di quel bastardo
mi
fermai. Mi chiesi perché i militari di guardia al di fuori
del laboratorio non
erano intervenuti. Quando lo capii era troppo tardi. Un altro essere
come
quello che mi stava davanti era entrato alle mie spalle. Jill era
terrorizzata.
Fece la cosa peggiore che poteva fare. Allungò una gamba e
quello cadde.
Non potevo aspettare oltre. Il tonfo del primo mostro aveva
attirato l’attenzione del secondo, che già stava
correndo verso di me. Sparai
un colpo alla schiena di quello che stava per terra, che si
accasciò al suolo.
Ma fui troppo lento nel girarmi, e l’altro mi fu addosso nel
giro di qualche
secondo. Emanava una puzza di carne in decomposizione che mi fece
venire la
nausea.
Avvicinò i suoi occhi rossi senza pupille ai miei. Io avevo
perso il fucile, e ora non potevo fare altro se non guadagnar tempo
cercando di
non far ammazzare né Jill e tantomeno me.
La sua faccia era inespressiva, gli occhi e la bocca avevano
una forma umana, mentre il naso non era altro se non due piccoli buchi.
Credevo di essere spacciato. Ma mi ero scordato di una cosa.
Lì dentro non stavamo solo in due. Jill prese il fucile che
le era scivolato
vicino alle gambe. E sparò. Il colpo lo prese in pieno su
una spalla. E il
proiettile poi graffiò anche la mia. Ringraziai il fatto che
avesse una pelle
così dura.
Urlò e poi sparì. Svanì nel nulla.
Diventando invisibile ad
occhio nudo. Mi rialzai ed andai verso Jill. Lei mi porse il fucile con
il
braccio sinistro perché aveva la spalla destra slogata a
causa del rinculo del
colpo. Le promisi che se fossi riuscito ad uccidere quel mostro,
gliel’avrei
rimessa a posto. Anche se avevo solo visto come fare dalla
professoressa di
educazione fisica.
Piano piano spostammo i due blocchi fino ad appoggiarli al
muro. Era strano però che il nemico non avesse provato ad
ucciderci mentre
eravamo distratti, come se ci stesse dando un vantaggio.
Ora noi avevamo tre lati su quattro coperti, ma sapevamo che
comunque, se non escogitavamo qualche metodo per poterci accorgere
della
presenza del nemico, eravamo spacciati.
A Jill venne un’idea. Mi fece uscire, convinta che il mostro
mi sarebbe saltato addosso a vista, ma lei tenne con sé il
fucile. Così, nel
momento che io fossi stato atterrato dal mostro, lei avrebbe sparato,
sperando
di non colpire me. Ma quel piano risultò solo un inutile
spreco di energie per
spostare i blocchi. Perché nessuno di noi due, aveva pensato
che la ferita alla
spalla avrebbe procurato una notevole emorragia al nostro nemico.
Così, appena
uscii, mi feci restituire il fucile, e sparai un po’
più a sinistra della
chiazza volante che si trovava a un paio di metri da me. E che, molto
probabilmente,
il nemico era sicuro che né io, né Jill, avremmo
visto.
Il foro d’uscita del proiettile fece staccare dal corpo
alcuni frammenti di carne, che volarono via insieme al sangue.
Un secondo prima che il colpo gli perforasse il corpo, lui
era tornato visibile. Non sapevo cosa fosse, e neanche
perché si trovasse lì in
quel momento. Ma non me ne importava molto, perché se uno
era venuto da fuori,
era quasi impossibile che non ce ne fossero altri.
Rimisi a posto la spalla di Jill. Anche se penso di averle
fatto davvero male, lei non emise neanche un gemito. Poi ci mettemmo a
lavoro
per sbarrare al meglio possibile tutti i buchi da cui potevano entrare
altri
mostri. E solo dopo, andammo a cercare qualche indizio sul da farsi.
Tornammo dove avevamo visto il primo nemico, e cercammo
nelle tasche e nelle mani dei cadaveri, ovviamente di quelli che ancora
le
avevano, qualcosa che ci potesse dire qualunque cosa. Lo trovammo nella
mano
dello scienziato che avevo visto morire. Era un registratore da palmo,
ossia un
comunissimo registratore, ma piccolo talmente tanto da poter stare in
un pugno.
Il messaggio diceva:
Il nuovo esperimento che dobbiamo portare a
termine, sarà forse la
speranza di salvezza per le generazioni future. Questo messaggio
è per le cavie
che devono sottoporsi alla macchina. L’abbiamo chiamato il
tempo trasportatore,
perché per partire bisogna inserire sia le coordinate di
atterraggio, che
l’anno in cui si vuole arrivare. La macchina non è
perfetta, il primo problema
che abbiamo riscontrato è che può portare solo
nel futuro. Il secondo problema
riscontrato, è che l’umano il quale viene
trasportato, non può andare più
avanti di 100 chilometri dal luogo dove è situata la
macchina, e nemmeno 100
anni più avanti. Il terzo problema, e forse il
più importante, è quello delle
radiazioni. Di queste, durante il trasporto, ne vengono rilasciate un
quantitativo assai alto. Ma, alcuni uomini, riescono ad assorbirle
senza
morire, grazie ad una particolare sostanza che hanno nel sangue. Questo
è il
caso di alcuni militari, i quali sono stati già trasportati
da qualche giorno,
e il vostro, Jill Mauser, e… beh, il tuo nome non
è importante, ragazzo. Voi
due verrete trasportati esattamente di 20 anni. Nella base militare a
non più
di un’ottantina di chilometri da qui. Lì il
tenente Pounder vi dirà cosa fare.
Spero di riuscire a sopravvivere a questo esperimento per potervi dare
questo
messaggio di persona. Comunque, in caso contrario, vi dico che la
macchina per
il trasporto si attiva semplicemente premendo l’unico
pulsante sul pannello di
controllo, e si disattiverà appena sarete arrivati alla
destinazione che gli
abbiamo messo. E si trova alla fine della stanza con i computer. Se
troverete
questo messaggio quando io sarò morto, volevo solo dirvi
che, il medico che vi
ha fatto i test, scherzava quando ha parlato di alieni. In quel mondo
c’è ben
altro. L’unico consiglio che vi posso dare è:
guardatevi le spalle, pensate
solo alla vostra vita. Buona fortuna.
Quel messaggio ci aveva
spaventati un po’ tutti e due. Era vero che prima eravamo
spaventati all’idea
degli alieni, ma il non sapere cosa ci aspettasse al di là
di quel viaggio
fantascientifico, ci spaventava ancora di più.
In fondo è così che è fatto
l’uomo, no? Se tutto va bene secondo i suoi piani, non teme
nulla, ma se
qualcosa accade all’improvviso, senza che tu sappia cosa
è, e nemmeno perché
sia successa, ti mette una paura come se ti potesse uccidere da un
momento
all’altro. La paura dell’ignoto ha accompagnato il
cammino dell’uomo in ogni
suo passo. Alcuni tentano di sconfiggerla pensando che dopo la vita ci
sia
qualcosa, per alcuni il paradiso, per altri l’inferno, alcuni
credono persino
nella reincarnazione. Non ho mai creduto a queste cose. Credo nel
destino, ma
non faccio parte di quella cerchia di persone che tentano in ogni modo
di far
credere agli altri ciò in cui vogliono che credano. Ognuno
creda a quello che
vuole, a me non me ne importa nulla.
Comunque, tornando alla storia,
eravamo soli. Io e lei. Jill tremava ancora di paura per prima. Io non
ero da
meno. Con l’unica differenza che io cercavo di tenere un
atteggiamento più
dignitoso. Rimanemmo cinque buoni minuti a contemplare il vuoto davanti
a noi.
Eravamo soli.
Intorno a noi il sangue fresco
scivolava ancora su una parete. Imbrattava il pavimento per metri.
Sporcava
noi.
La paura tremenda di non poter
più tornare indietro da quel giorno, ci aveva attanagliati.
L’unico indizio sul
nostro futuro ero un registratore.
In quel momento il mondo cessò
di esistere per noi due. Eravamo appena due ragazzi. Eppure avevamo la
sensazione che quella scelta avrebbe cambiato la nostra vita.
Quando aprii bocca l’odore acre
del sangue me la riempì.
Dissi che io sarei andato, e che
lei non era tenuta a seguirmi se non voleva. Neanche quando pronunciai
quelle
parole, riuscii a distogliere lo sguardo da quel pannello alla fine
della
stanza.
Feci il primo passo. Jill mi
afferrò per un braccio. Mi girai e notai che stava
piangendo. Le chiesi perché,
e lei mi rispose che non voleva andare. Che le sarebbe costato troppo
andare
via dal luogo dove era cresciuta.
Le diedi il fucile. E anche le
munizioni. Le spiegai come si ricaricava, e le dissi che non doveva
assolutamente esitare a sparare a chiunque le avesse sbarrato la
strada. Poi la
lasciai tornare indietro.
Io, invece, cominciai a
camminare, sempre dritto. Niente poteva dissuadermi dalla mia
decisione.
Schiacciai il pulsante, e una forza cominciò ad attirarmi
all’interno di un
arco di metallo. Dentro il quale aveva preso forma un cerchio perfetto
di
quello che sembrava un liquido nero. Man mano che diventava
più grande, la
forza diventava sempre maggiore. Dovetti aggrapparmi ad una libreria
per non
essere trascinato via. Ma poco dopo, sentendo un colpo provenire dalla
zona
dove avevo trovato i cadaveri, mi lasciai. Scivolai dentro a quel
liquido come
fosse aria. Ma non uscii dall’altra parte
dell’arco. No. Continuai ad andare
sempre più giù. Finché, in mezzo a
tutto il nero, cominciarono a formarsi le
sagome di alcuni carri armati. E cominciai a sentire degli uomini
gridare
ordini. E colpi di mitragliatrice e fucili venire sparati come se fosse
in
pieno atto una guerra.
Quando il paesaggio che mi stava
intorno diventò più chiaro, vidi una decina di
soldati, che combattevano contro
una specie di uomo alto tre metri. Grasso come i vecchi lottatori di
sumo, pelato,
e con un occhio solo. Grande come la testa di un uomo. La pupilla non
c’era, e
gli occhi erano rossi. La pelle era marrone chiaro come quella dei
primi due
mostri che avevo visto.
Senza che me ne accorgessi, il
trasporto era finito. Ora ero fermo, dentro un edificio mezzo
distrutto. Era
una postazione militare.
Qualcuno mi afferrò per una
spalla, e mi gettò a terra. Per mia fortuna era un uomo. Si
presentò a me come
il tenente Pounder. Mi chiese se avevo partecipato ad un addestramento
militare. Poi mi chiese se prediligevo qualche arma. E io gli dissi che
generalmente le sapevo usare tutte. Mi porse un mitra con un
lanciagranate
incorporato. Anche questo, come il fucile nel laboratorio, aveva i
caricatori a
proiettili.
Non ebbi il tempo di chiedere
perché, visto che quell’uomo se ne andò
dai compagni a combattere subito dopo
avermi dato alcune munizioni.
Io rimasi lì, seduto in mezzo ad
alcuni sacchi. Sentii vagamente un colpo sparato da un fucile da
cecchino, o
almeno così era sembrato a me. Perforò
l’occhio del mostro. E quello cadde a
terra. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Avevo paura.
Mi rialzai solo dopo che la
folata di vento causata da quel corpo che cadeva verso il suolo
terminò.
Il tenente si avvicinò di nuovo a
me. Sputò per terra, e poi mi puntò
l’indice contro. Mi chiese perché ero da
solo. E io gli raccontai cos’era successo nel laboratorio.
Lui imprecò. Poi mi
spiegò il perché di quel viaggio. Ossia che il
nostro compito d’ora in avanti,
era quello di trovare un luogo, da dove nascevano quei mostri. Mi
spiegò anche
che fino ad adesso esistevano solo tre specie di mostri. I fantasmi,
che erano
quelli che mi avevano attaccato nel laboratorio. I ciclopi, quello che
avevano
appena ucciso era uno di loro. E i giganti. Ovvero degli esseri alti in
media
sette o otto metri, che avevano il tronco ricoperto di spuntoni. E, per
fortuna, ne erano rimasti una decina, perché gli altri erano
già tutti morti.
Poi mi diede una maschera per la
visione termica, perché, mi disse, era l’unico
modo per vedere un fantasma
quando diventava invisibile. L’ultima cosa che mi disse, fu
che, io avevo
percorso un viaggio di venti anni, quindi ora avevo trentotto anni. Ne
ebbi la
conferma, quando mi diedero uno specchio.
L’ultima cosa che le mie
orecchie sentirono quel giorno, fu qualcosa che colpì il
pavimento, di cui io
non riuscii a vedere l’origine, perché troppo
lontana. L’ultima cosa che
ricordo di quel momento, è una lastra di metallo, una di
quelle che componevano
il soffitto di quel luogo, cadermi in testa a causa delle scosse create
da quel
qualcosa. Poi divenne tutto nero. Io svenni, e da quel momento, inizia
la
nostra vera e propria storia. Che io racconterò, man mano
che la vivrò.
Ora che siete
arrivati fin qui, vi prego,
lasciate un commento. Bello o brutto che sia, vi prego, lasciatene uno.
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