Pure M
Capitolo 4: Borderline bipolar
La porta era lucida nella poca luce del corridoio giallo. Legno
scuro e liscio. Ci appoggiai un palmo per tutta la sua lunghezza,
distendendolo bene finché il freddo passò nella mia mano
e il caldo di essa sulla superficie asciutta. Come la sua pelle. Mi
decisi finalmente a bussare, dopo che quegli attimi mi avevano donato
una leggera calma.
Mi ritirai dalla porta e attesi che aprisse. Forse stava dormendo…oppure non era in camera.
Stavo per voltarmi e andarmene quando la serratura scattò. Il
suo volto fresco mi apparve, ancora truccato leggermente, e mi fece
sciogliere. Stavo sbagliando? Cosa avrei potuto dire?
Non parve sorpreso e mi lasciò entrare senza dir nulla. Si
sedette sul letto e attese che io parlassi. Capiva tutto, sempre,
dannatamente.
“Allora?” mi chiese dopo parecchio tempo, che io impiegai a
torcermi le mani come un ragazzino al suo primo appuntamento.
Presi un grosso respiro e tirai tutto fuori.
“Dobbiamo risolvere questa cosa, Brian. O i Placebo moriranno. Non esistiamo più come band, per colpa tua.”
Attesi una risposta. Il suo sguardo era indescrivibile, incomprensibile.
Poi scoppiò a ridere, sorprendendomi e quasi facendomi sobbalzare.
“Colpa mia? E cosa avrei fatto io?”
“Cosa?” quasi urlai incredulo. Possibile che fosse
così stupido, o insensibile? “Brian, ti rendi conto di
quel che mi hai detto? Che per te non valgo nulla!”
“Ti sbagli” disse, e per un attimo sperai che fosse vero.
“Ho detto che vali solo per scopare, è diverso.”
Non avevo intenzione di farlo, non lo avevo premeditato. Diamine, non
riuscivo neanche a pensare, come l’altro giorno al locale. Lo
schiaffo colpì Brian sulla guancia, facendo ondeggiare i capelli
che gli finirono davanti al volto, nascondendomi finalmente e
dolorosamente i suoi occhi.
Lo avevo colpito molto forte, ma cercai di reprimere il primo istinto di pentimento: non potevo cedere.
Si voltò con lentezza esasperante, e con la stessa calma subdola
si scostò i capelli dal volto e si massaggiò la guancia.
Un sorriso divertito disegnò in modo odioso le sue labbra
perfette. Attirarono la mia attenzione su di esse e mi chiesi se
l’intento di Brian non fosse proprio quello. Ormai non sapevo
cosa aspettarmi da lui.
Era impossibile risolvere la cosa se continuava a recitare quella parte dannata.
“Non sono uno qualunque, Brian!” urlai imperterrito. “Sono Stefan! Che cazzo!”
Si alzò e il suo sguardo mutò improvvisamente. Quegli
occhi sembravano tanto liquidi e densi da annegarci, e il sorriso
scomparve con una velocità impressionante.
“Cosa cazzo vuoi?” chiese con lentezza, scandendo bene ogni parola.
Cominciavo a sentire rabbia, troppa, per l’unica persona che volevo tenere immune da questo odioso sentimento.
Sentii il bisogno di scuoterlo per far andare via quella creatura
tremenda che aveva preso il posto del mio Brian. Gli afferrai la maglia
e lo scossi con forza.
“Brian, sei fatto o cosa? Che diamine ti succede? Svegliati, cazzo! Non sei un bambino!”
Ma lui non si scompose, solo un leggero tremolio nei suoi occhi mi fece
capire che stava reprimendo qualcosa, e sentii il bisogno e il malsano
desiderio di provocare la reazione opposta. Volevo smascherarlo, era
giunto il momento di farlo.
“Che fai, non rispondi?” avrei voluto chiedergli, ma la mia
coscienza stava fluendo via. Ero diventato più calcolatore da
quando avevo a che fare con lui, ma rimanevo molto istintivo quando gli
istinti stessi prendevano il sopravvento. E la mia rabbia mi stava
accecando. Da un lato lo temevo, dall’altro lo desideravo,
finalmente.
Avvicinai il mio volto a quello di Brian, in parte sollevandolo da
terra in parte chinandomi minaccioso. Odiavo farlo, ma in quel momento
sentivo che non potevo più trattenermi, né una parte di
me lo voleva. E lui nelle mie mani era così fragile, la sua
ostentata compostezza e arroganza contro la mia furia e forza vibrante.
“Cosa vuoi che ti dica? Ah, lo so” disse Brian fissandomi
gelido con quegli occhi immobili. “Vuoi che ti dica che ti amo
alla follia, anche se tu non mi ami. E vuoi che mi ficchi nel tuo letto
ogni notte, giurandoti amore e dedizione, fedeltà cieca.”
Prese una pausa nella quale studiò il mio sguardo. “Oh,
sì, mio principe” disse con fare femminile, “sono
tutto tuo! Ti giuro amore eterno, non ti lascerò per nessuno
e…”
Non gli feci finire quella farsa. Lo sbattei pesantemente sul letto, non con le stesse intenzioni di molte narcotiche notti.
“Smettila!” gli urlai in volto.
Lo scossi così forte che quando non lo udii più parlare mi venne per un attimo il dubbio di averlo….
Mi fermai e quella paura mi rifece prendere coscienza. Mi allontanai
dal letto tendendo lo sguardo fisso su di lui. Era steso sul materasso,
le braccia allargate e le gambe penzoloni, come un angelo ubriaco.
Fissava il soffitto. Improvvisamente una lacrima scivolò stanca
di essere trattenuta, giù per l’angolo dell’occhio
fino a sfiorare i capelli e a fermarsi tra di essi come rugiada amara e
notturna.
Non capivo più nulla. Brian era sempre stato complicato e per
molto mi ero semplicemente adattato assorbendo le sue stranezze e dando
loro un senso qualunque, convincendomi che fosse quello giusto, e
quando non ci riuscivo l’accettavo come semplice parte di Brian.
Ma ora mi pentivo, perché capivo che molte cose erano troppo
profonde in lui perché anche Brian stesso le potesse afferrare.
La rabbia sfumò in modo odioso, lasciandomi i sensi di colpa ormai familiari e un misto di pietà e paura.
“Brian…” provai a chiamarlo, quasi la mia voce
rompesse quell’aria così grava di dolore e sospensione.
Lui si portò le mani al volto e cominciò a piangere,
silenziosamente, reprimendo a stento i singhiozzi. Le sue spalle,
così gracili, erano scosse e tutto il corpo fremeva. Da quanto
tratteneva quel pianto? E l’idea di aver contribuito a fargli
quello mi distrusse.
Mi avvicinai cauto e mi sedetti sul materasso vicino al suo corpo.
Allungai tremante una mano e gli accarezzai la spalla, cercando di
farlo riprendere. Non vedere il suo volto credevo fosse tremendo, ma
quando al mio tocco scostò le mani e mi rivolse quegli occhi
colmi di pianto e rossi mi sentii molto peggio.
“Cos’hai? Ti prego Bri non mentirmi, non sfuggire, dimmi cosa sta succedendo!”
Mi fissò ancora e nel vedere i suoi occhi i miei si inumidirono.
Era questo uno degli aspetti che ingrandiva a dismisura il suo potere.
“Lascia perdere” mi disse con voce rotta. “I Placebo sono morti.”
“Cosa? Non puoi decidere così da un momento all’altro.”
“Stef…”
Mi stava supplicando, per la prima volta.
“Non hai idea della fatica che ci ho messo nella band, di cosa significhi per me e Steve.”
“Stef, smettila.”
“No, Brian, non la smetto. Sei infantile quando…”
“Stef!” supplicò tra le lacrime. “Va’ via!”
Il suo sguardo non ammetteva repliche. Mi alzai lentamente e
controvoglia. Uscii dalla camera che lui ricominciava a piangere dietro
le mie spalle.
Mi ritrovai di nuovo seduto in camera mia, sul letto. La stessa
posizione, la stessa incoscienza, la stessa tortura mentale. Ma ora
avevo molti più dubbi e paure. E non avevo risolto nulla, anzi
le cose erano peggiorate. Non capivo cosa stesse succedendo a Brian. E
quell’annuncio-i Placebo sono morti-faceva dannatamente male.
Non avevo il coraggio di chiamare Steve, di fare qualcosa, qualunque
cosa, e neanche di addormentarmi. L’indomani mattina tutto
sarebbe stato perso. Malgrado il mio dolore, la mente era troppo stanca
e l’animo troppo frustrato. Così mi addormentai
scompostamente sul letto.
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