Altezze

di Mendori
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Altezze



Al suo cospetto si era sempre sentita piccola come un uccellino.
Costretta a osservare il mondo dal basso, attraverso le lenti deformanti dell'infanzia, Rin visse nella convinzione che l'altezza di Sesshomaru avesse un che di eccezionale.
Forse perché essa si faceva specchio di una statura che non era soltanto fisica: grande era la sua forza, il suo valore, il suo coraggio.
Grande il ruolo che ricopriva nella sua vita di bambina senza famiglia.

Anche quando crebbe, restò piccola al suo confronto.
Negli anni non aveva perso l'abitudine di chiamarlo con affettuosa reverenza “Sesshomaru-sama”, e allo stesso modo lei era rimasta sulle sue labbra soltanto “Rin”.
Si accorse un giorno, mettendo per caso quei nomi nella stessa frase, che la loro lunghezza scandiva dolorosamente la sproporzione che li separava, e che mai si era accorciata realmente. Ma nonostante ciò gli volle bene, e si rassegnò al pensiero di non poterlo cambiare.
Nelle fresche sere d'autunno lo guardava a lungo, immaginando il tepore della sua pelle, ma senza più sperare di arrivare un giorno a conoscerlo.

E per un po' andò bene così.
Camminarono vicini finché Sesshomaru non abbassò lo sguardo verso di lei, e riconobbe dietro quel suo sorriso sciocco il volto di una donna.
Fu forse per il vivido riflesso del sole negli occhi di Rin, e quel gesto debole e femminile di schermirsi dalla luce con una mano, che un giorno di primavera la colse in un bacio a fior di labbra. Le aveva preso fra tre dita il mento, alzandolo verso di sé, ma con quel movimento pur delicato l'aveva obbligata a guardare il sole e ad aprirsi a un bacio leggero e tremendo.
In quell'istante qualcosa aveva vibrato con forza nel suo mondo ancora infantile e Rin si era sentita persa, abbagliata. Rimasta inerme a quel gesto che così com'era nato era già finito, non aveva saputo alzare gli occhi verso di lui quando era tornato ad ergersi in tutta la sua imponenza, lontano, lontanissimo.
Solo allora la sua altezza divenne qualcosa di negativo e odioso, che arrogava a lui il diritto di abbassarsi a baciarla ma non a lei di fare l'inverso, se avesse voluto. Oh, e come l'aveva desiderato!
Ricordava come da piccola la sua irraggiungibile distanza l'avesse tenuta lontana, impedendole di cercare in lui la familiarità di un abbraccio.
Ricordava le volte in cui gli si era fatta timidamente vicino, appendendosi con una manina al morbido tessuto della sua veste, e come lui non si fosse mai abbassato alla sua altezza, neanche solo per guardarla negli occhi. Ricordava bene.
E adesso i frutti zuccherini di un affetto tranquillo e quotidiano, coltivato per anni, erano rapidamente marciti in un rancore che non trovava conforto nelle scuse, nelle promesse, nell'empatia di chi capisce come ti senti.
Sesshomaru rimaneva, splendida statua, splendidamente silenzioso e impassibile davanti al suo improvviso astio.
Quando parlò, fu solo per dire: «Rin,» (e subito lei si sentì irrazionalmente offesa, infuriata perché la chiamava con quella minuscola sillaba che sembrava sminuirla) «Rin».
«Sesshomaru» Rispose lei, umana e spavalda, e furente, e ferita.
Lui non disse altro, e Rin colse in quel silenzio una domanda.
«Voi mi baciate le labbra senza che io abbia mai potuto accarezzarvi le guance» lo accusò allora, contrita.
E vedendo che non rispondeva né mutava espressione, l'abbandonò.





 ***


Un epilogo pessimista, lontano dal mio genere. Mi giustifico questa storia col fatto che l'ho scritta mentre ero arrabbiata.
Ma... grazie per il bel bentornata. :)






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