Prologo
Prologo
Il gigantesco celta dai capelli gialli che dormiva sopra di me russava
talmente forte da destarsi di tanto in tanto, gorgogliando e
sputacchiando nel tentativo di non soffocarsi con la propria saliva.
Tuttavia mi permetteva di non perdermi nelle mie continue
elucubrazioni; anzi mi aiutava a continuare ad avere una migliore
percezione di ciò che mi circondava: il letto era uno scempio,
un semplice pagliericcio pieno di sterco di topi che ripugnerebbe
persino un vagabondo di Alessandria. Il celta dormiva in un enorme
incavo del muro, perché secondo quanto affermava lì stava
più al fresco. Infatti dormiva direttamente
sull’intonaco, fradicio per le infiltrazioni di umidità;
la sua corazza, una lorica di cuoio duro che segue la forma dei suoi
muscoli,giaceva con lui. Era poco estetica ma molto pratica, leggera e
funzionale ma non troppo efficace in difesa. Come arma aveva scelto un
lungo tridente, con manico munito di una correggia di cuoio molto
ruvida per evitare di perdere la presa. Al posto dello scudo aveva
preferito una rete di corda spessa, simile a quella dei pescatori, con
dei pesi all’estremità, per catturare l’avversario.
Niente in più a parte i suoi gambali di cuoio e il suo unico
copri braccio destro in metallo sbalzato. La forza di quel colosso era
incredibile, veramente impressionante, e la usava appieno in
combattimento. L’unico che ho mai visto tenergli testa era quel
mauro alto tre piedi buoni che dormiva là, alla mia destra, con
la schiena appoggiata al muro e un orcio di vino acido rovesciato,
naturalmente vuoto. E quei due mangiavano come dei tori per di
più!
Il mauro invece aveva in dotazione un classico gladius e uno scudo
rotondo, leggero, di legno, rinforzato con cuoio e borchie di ferro.
La sua corazza consisteva solamente in una lunga maglia ad anelli
fitti, corredata da un elmetto di cuoio. Non abbastanza.
Continuavo a guardare i due gladiatori assopiti e mi ci volle un
po’ per tornare alla realtà, in quello scantinato
puzzolente, umido e freddo, pieno di barili vuoti, topi e immondizia.
Lo scudo metallico, pregevole di fattura e decorato magistralmente, era
molto solido e ci ero parecchio affezionato, forse perché mi ha
salvato la pelle parecchie volte; la corazza, una lorica a scaglie di
metallo temprato, riprendeva le decorazioni dello scudo perché
li acquistai entrambi da un mercante franco undici anni or sono,
insieme a un elmo dello stesso metallo, tondeggiante sulla nuca, con
un’aletta alla base del collo posteriore e un fascione del tutto
simile a quello in dotazione ai legionari a coprire la fronte. La
spada invece, lunga più di un normale gladius, foderata in una
custodia di cuoio durissimo nero, come mai ne ho visto ad altri,
giaceva al mio fianco; era un regalo di un caro vecchio amico, che mi
fu anche maestro d’armi. Me ne fece dono quando
l’imperatore Claudio in persona lo liberò dal giogo di
schiavo donandogli il tradizionale gladius ligneum, che rappresentava
la libertà per un gladiatore. Mi disse sorridendo che aveva una
nuova spada, e che quella ormai non gli serviva più, quindi
decise di donarmela.
Non riuscivo a dormire, era impossibile. Mi alzai e cercai di
distendere un po’ i muscoli stiracchiandomi. Per il momento
funzionò. Con passo strascicato mi avviai al bacile
d’acqua e la luce dell’alba mi permise di vedere il mio
volto dopo tanto tempo.
Il passare del tempo non aveva agito così decisamente sulla mia
figura, anche se la barba non era ovviamente curata. I capelli,
leggermente mossi erano neri corvini, così neri da avere i
riflessi blu. Il mio volto è affusolato ma forte, con zigomi
decisi e mascella proporzionata, i denti stranamente bianchi e labbra
disegnate; gli occhi infine verde smeraldo, brillanti.
Mi chiamano Drago e sono un gladiatore.
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