Carrietta Maria Sherman, née Crowley-Barnett, aveva
diciassette anni, una gran quantità di lisci capelli neri, ed era vedova.
La qual cosa non era, di per sè, tanto eccezionale; nella
Georgia dei primi dell’800 non era poi così inusuale essere vedove prima ancora
di raggiungere la maggiore età. Singolare era, piuttosto, il fatto che
Carrietta avesse una figlia undicenne.
Non era davvero figlia sua, naturalmente. Bonnie
Sherman era la bambina che Frank Sherman, il marito di Carrietta, aveva avuto
dalla sua prima moglie, morta anni prima.
Ma ora, Carrietta doveva prendersi cura di quella creaturina
pallida e insicura; e, dato che la figliastra le era attaccata in maniera
morbosa, doveva portarsela appresso ovunque andasse.
Non che la povera, gracile Bonnie le fosse di peso; anzi, la
maggior parte delle volte la ragazzina era felice di starsene in un angolo
della stanza, a leggere favole romantiche o a imbastire abiti per le sue
bambole, e Carrietta a malapena si accorgeva della sua presenza. A forza di
vedersela sempre attorno come un’ombra, con un’espressione adorante sul visino
scialbo, Carrietta aveva finito per affezionarsi a sua volta alla piccola
orfana.
II
Suo marito, proprietario terriero e amante della buona
tavola e delle cavalcate, era stato scelto per lei da suo padre, e Carrietta
aveva accettato senza discutere, da brava figlia.
Suo padre, il generale Crowley-Barnett era un florido, chiassoso
proprietario terriero di vecchio stampo – ossia portato in egual misura per i
liquori, le donne graziose, e i cavalli.
Si era sposato giovane, aveva, come da copione, avuto due figlie nel giro di
due anni, e, nemmeno trentenne, era partito per il fronte, lasciando la moglie a occuparsi di due bambine, una enorme casa, e più di cento schiavi chiassosi e insubordinati.
Mr. Crowley-Barnett aveva combattuto le guerre messicane, e dai campi di
battaglia era tornato a casa portandosi dietro il grado di generale, due dita di meno,
e una propensione più che discreta al bere e al gioco d’azzardo.
Quest’ultima conseguenza della permanenza nell’esercito,
unita ad una certa dose di spensieratezza - e ad una anche più considerevole di bourbon - aveva prosciugato, nel giro di pochi
anni, tutto o quasi il suo patrimonio liquido personale. Prima che i debiti di gioco
arrivassero ad intaccare anche la piantagione e le case, tuttavia, il generale aveva
preso la prima decisione lungimirante della sua vita, e si era risolto a maritare le sue due figlie, appena
adolescenti, ad altrettanti uomini danarosi; questo, col duplice scopo di tagliare le
spese familiari - le donne, si sa, costano - e di consolidare le sue traballanti risorse economiche.
Fu così che, il giorno del suo quindicesimo compleanno,
Carrietta venne convocata nello studio di suo padre per metterla a parte di una
solenne decisione.
Quando, avvertendo l’odore di cuoio e tabacco dello studio,
entrò con un brivido di paura ed eccitazione – non era mai stata ammessa, da
sola, nelle stanze di suo padre – Carrietta venne invitata a sedersi su una
poltrona di cuoio rosso cupo, di fronte a suo padre.
“Siedi, cara”, le aveva detto sorridendo, tenendo il sigaro
fra le dita superstiti della mano destra.
Carrietta si era seduta, ben attenta a sistemare la gonna in
modo che non si sgualcisse. Non appoggiò la schiena alla spalliera della sedia.
“Sì, papà”
C'era stato un breve silenzio.
“Così”, aveva iniziato il generale, con una specie di
imbarazzo, “sei diventata una signorina.”
Dopo una pausa ponderosa, aveva continuato. “Quindici anni.
Tua madre a quindici anni aveva già avuto te. E ora anche tu sei ormai una
donna” Il padre l’aveva squadrata lentamente, come a soppesarla. “E sei anche
diventata bellina. Sì. Molto bellina.”
“Grazie, papà.”
Il generale aveva fatto un gesto vago con la mano. In un suo
modo grossolano e svagato, amava le figlie, ma non le comprendeva, né apprezzava la loro compagnia.
“È proprio ora che cominciamo a pensare a trovarti un bravo
marito.”
Carrietta si era agitata sulla sedia.
Il generale si era sporto verso di lei, con un sorriso affabile, che a Carrietta sembrò minaccioso. “Non è vero? Sì?”
“Sì, papà.”
“Cosa ne diresti, bambina, se tuo padre ti portasse a conoscere
qualcuno dei suoi amici, eh? Forse uno di loro potrebbe riuscirti simpatico, che dici? E tu a lui...”
“Va bene, papà”
Il generale aveva battuto entusiasticamente il palmo della
mano sul bracciolo della sua poltrona.
“Brava ragazza, brava... Sì, sì. Allora, se questo è quanto, domani ti porto in
visita dal mio buon amico Frank Sherman. Mettiti in ghingheri, mi raccomando”, aveva
aggiunto scherzoso, ostentando disinvoltura.
“Sì, papà”
C’era stato un momento di silenzio.
“Posso andare, ora, papà? Devo finire la mia lezione di
francese.”
“Certo, certo, bimba, vai pure. Anzi, per oggi puoi
considerarti esentata dal francese. Dopotutto, è il tuo compleanno, no?”, aveva
risposto, gioviale, tirando una boccata di fumo dal sigaro acceso.
Carrietta si era alzata.
“Sì, papà.”