Autore: Lady Kokatorimon
Titolo: La villa delle
arance.
Rating: Arancione.
Genere: Dark, drammatico,
sovrannaturale, horror.
Numero
frase scelta: 11.
Avvertimenti: Alternate Universe,
Shounen ai, non per stomaci delicati.
Introduzione:
Non sapeva cosa lo
avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione
era giunta in città.
Profumata,
ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo
bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno
tornava sereno.
Osservò la linea
della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo
d’arancia sulle labbra turgide.
-Di qualcuno che ti
stuzzichi l’appetito-.
1900. Il giovane ed
eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un
piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano.
Ci sono due giovani
Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.
TERZA CLASSIFICATA AL
“CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!
Note
dell'autore: Nel complesso questa storia non mi piace, ma ci sono vari
elementi che volevo mettere in atto da molto tempo quindi almeno un po’ la
gradisco. In realtà sarebbe stata concepita per avere un seguito, ma volendo
può anche finire così dato che tutti i punti principali vi sono chiariti.
Deciderò sé continuarla in base al posizionamento nel concorso ed al gradimento
del pubblico: in linea di massima, se mi posizionerò sotto il podio, il secondo
episodio non vedrà mai la luce… e credo sia molto probabile che ciò accada.
Fondamentale è poi specificare che per me i veri vampiri sono solo quelli
creati dalla mente di Miss Rice, e a parti alcuni elementi (quali il
collegamento mentale tra –quasi- tutti i vampiri ed il fatto che di giorno non
sono assolutamente in grado di svegliarsi dal loro sonno, neanche per qualche
minuto) i miei li ricalcano perfettamente.
La storia si svolge esattamente nell’autunno del 1900. Buona
lettura!
CAPITOLO 1: Farse da romanzo gotico.
Solo i morti sanno quanto sia terribile essere
vivi.
Da “Il ladro di Corpi” di Anne Rice.
Aveva un suo modo di
risplendere, nell’oscurità.
Aveva perso la facoltà
di serrare le palpebre, di piegare le braccia in modo da incassare il busto
nella morsa delle gambe. Non poteva più nasconderlo. La testa abbandonata di
lato esponeva il collo bianco su cui una vena sbiancata non pulsava più, lo
splendore che lo avvolgeva reclamava attenzioni che i suoi gesti rifiutavano.
Lui pensava, guardandolo, che avrebbe dovuto solo aspettare che la sua
decadente bellezza si facesse più evidente, ed ogni cosa si sarebbe aggiustata.
“Nii san*” non sapeva
dire nient’altro. Era un oscuro stato catatonico dove ogni desiderio era
polvere ed ogni piacere un pugno di mosche, ed era impossibile convincerlo del
contrario. “Hai fame?”, gli chiedeva, e la sua risposta non era altro che un
dilatarsi flemmatico dei grandi e vuoti occhi salmastri, che le palpebre
divaricate non sapevano coprire più.
Lui conosceva la
risposta.
Quel profumo era il suo
modo di controbattere.
“Profumo d’arancia?”
chiedeva allora, tremando leggermente sulla poltrona di broccato rosso -i cui
ricami di fiori sembravano volerlo ghermire-. Annuiva, osservando il suo corpo
abbandonato risvegliarsi dal torpore -a partire dalla coscia bianca visibile da
sotto i pantaloncini corti-, il viso ritrovare espressione per sorridergli e il
tempo ricominciare a scorrere per fermarsi di nuovo.
“Hai fame, Alphonse?”
chiedeva di nuovo. Senza rendersene conto i suoi canini brillavano, mentre
confermava che sì, aveva fame, e protendeva le mani per accettare la sua
offerta minore. Nelle sue mani le arance sembravano frutti divini caduti da
alberi del paradiso, nati da semi piantati su nuvole dolci come zucchero
filato, nuvole che solo il cielo che era loro negato avrebbe potuto mostrare.
Il tempo che impiegava per posare le labbra sulla scorza era infinito, il suo
movimento un’ipnosi inebriante. Quando i denti ledevano la superficie i suoi
occhi guardavano già luna, fuori dalla finestra.
Erano passati meno di
dieci anni.
Il succo delle arance
era troppo rosso.
***
Le parole che Roy
Mustang si era sentito dire, prima di essere malamente scaraventato via dal suo
posto di lavoro, erano state probabilmente parecchio enfatiche, poco gentili ed
un poco volgari. Era quindi un bene che non le avesse afferrate con sicurezza.
D’altronde era stato il
suo capo, Olivia Milla Armstrong, a pronunciarle, e detto questo era piuttosto
scontato che tutta quella faccenda non fosse cominciata con una benedizione,
una carezza, o con un qualunque gesto d’incoraggiamento.
Era un idiota, un
inetto, un fottuto eunuco senza spina dorsale ed era già fortunato ad aver
trovato un impiego come quello, con i tempi che correvano. Quasi quasi
cominciava a credere che fosse vero.
Il ’London Central Journal’ era un giornale ancora
poco importante ma ben avviato, con una redazione piena di professionisti più
che competenti. Certo, la caporedattrice amava rendere noto il contrario con
tutta sé stessa -soprattutto parlando di lui-, ma in fondo lei amava il suo
lavoro più di qualunque altro professionista competente in tutta Londra.
In quel momento, con
una valigia di pelle chiara sbatacchiata dall’Inghilterra alla Scozia -con un
entusiasmo sinceramente inesistente- nelle mani, il suo mestiere sembrava il più
dannato e il più maledetto nell’intero panorama dei mestieri dannati e
maledetti.
Era quasi sicuro che
sarebbe stato in grado di sognare quell’arpia del suo capo in posizioni
equivoche quella notte, solo per nostalgia della sua città. Odiava la Scozia, odiava il ricordo dei suoi rubicondi zii scozzesi con i loro fottuti gonnellini a
scacchi rossi e verdi, odiava essere mandato fuori dal paese per un’indagine
che probabilmente non avrebbe portato nessun lustro né alla sua carriera, né a
quella del suo capo, né a al giornale.
Che bisogno c’era di
mandarlo a cercare a tutti i costi un altro Jack lo squartatore fuori
dall’Inghilterra?
Aveva pestato i piedi
sulla sua immaginaria linea di confine con tutto il suo disappunto, e non era
servito a niente.
Resembool, piccolo
paesino di mare poco lontano da Glasgow e lontanissimo dalle tentazioni, dalle
scostumate belle donne, dai bordelli, dalle bettole piene di alcool,
dall’oppio, e dal divino piacere, si appropinquava a lui come una condanna ad
impiccagione.
Immaginò un cappio ben
resistente, con il suo collo che ci passava attraverso.
Dette uno sguardo alle
basse case di legno, quasi livide e tristi, battute dal vento freddo che
proveniva dal mare. Tutte allineate, rivolte verso la costa dove le barche per
la pesca sembravano soldati in prima linea di un battaglione in guerra,
chinavano i tetti spioventi come teste di codardi davanti al cielo che
minacciava tempesta per la notte. Tra la prima fila di basse casette e quella
che stava più in alto, a ridosso del pendio, scorreva una stradina che, volendo
fare un paragone, stava a quel posto come Oxford street* stava a Londra. Era
stato giorno di mercato, e i banchi di pesce argenteo e ghiacciato che la
costeggiavano- fin dove lo sguardo non incontrava il limite sinistro della baia
nella quale il villaggio era infossato-, erano accalcati solo dai marinai che
si accingevano a portar via la merce invenduta.
C’erano fin troppe
persone a cui chiedere, ma ebbe l’impressione di essere finito in mezzo ad un
orda di spettri, pronti a scomparire ancor prima che avesse potuto aprir bocca.
In realtà qualunque
essere umano sano di mente avrebbe riso a crepa pelle sentendosi rivolgere la
domanda che Roy aveva attenzione di rivolgere loro. Figuriamoci, erano solo
storielle da romanzo gotico, romantiche fantasie che non avrebbero potuto
riempire un trafiletto di sesta pagina, nemmeno con tutta la faccia tosta e
l’abilità di romanziere che un mediocre giornalista poteva tirar fuori.
Doveva chiamare Olivia.
Doveva rassicurarla sul fatto che fosse arrivato sano e salvo a destinazione
–senza perder tempo a correre dietro a qualche gonnella-: anche se non
l’avrebbe dato a vedere nemmeno fosse stata la Regina stessa ad imporle di farlo, sapeva che era preoccupata per lui –e per il suo ricordo
poco felice degli zii scozzesi-. Si fermò davanti il banco di un’anziana
signora con un telo di lana bianca a fasciarle la testa ed evidenti cataratte
sugli occhi vuoti, spenti, inquietanti, e le rivolse un sorriso malfermo.
“Mi scusi, vorrei un informazione:
sa dirmi dove posso trovare un telefono?” non dette segno di aver notato la sua
presenza, e continuò a fissare il manico di una chiave inglese con attenzione,
senza rispondere. Il suo banco era pieno di oggetti simili, di ferro più o meno
arrugginito. Sotto la lana, l’ovale del viso rugoso spiccava appena,
pallidissimo e tetro come il suo atteggiamento noncurante di ogni cosa la
circondasse.
“Mi scusi, sa dirmi
dove posso trovare un telefono?!” alzò la voce, inutilmente.
Se le reazioni erano
quelle davanti ad una domanda così semplice, non immaginava come avrebbero
potuto reagire alle altre.
“DOVE POSSO TROVARE UN
TELEFONO?!” urlò, e la donna si voltò verso di lui come fosse stata investita
da una folata di vento che veniva dalla sua parte. Sgranò le perle che pareva
avere incastonate nelle orbite, scuotendo la testa, prima di aprire finalmente
bocca.
“Cosa ci fai qui,
giovanotto?” Voleva solo mettere le mani su un fottuto telefono per cinque
fottuti minuti, era chiedere troppo?! Ripeté la domanda, sperando di ottenere
una risposta utile, prima di finire a sbraitare contro una vecchietta più morta
che viva. Finalmente, mostrandogli l’ugola rinsecchita attraverso la bocca
spalancata, sembrò prendere atto della sua richiesta.
“In casa mia” disse con
voce ferma, estraendo una pipa allungata dalla tasca del grembiule.
“Potrei utilizzarlo?”
per la prima volta la donna sembrò accorgersi per davvero di lui, alzandosi
senza dire nulla.
Ringraziò spazientito,
togliendosi il cappello e seguendola. Altri passanti lo fissarono impunemente,
mentre camminava in mezzo alle persone che parevano levitare sopra il terreno.
Avevano distolto lo sguardo dal vuoto dell’aria gelida e turbinante solo per
osservare lui, e lo strano fenomeno che rappresentava.
Il sole era tramontato.
***
“Hai fame, Alphonse?”
Osservando il collo
bianco flesso all’indietro sullo schienale della poltrona, in una posizione
scomposta e lasciva, il concetto di sacrificio si esprimesse alla sua mente in
tutta la sua sacralità. Ogni suo gesto era lento, evidente, sincero ed era
sempre fin troppo semplice rintracciarne le motivazioni. Giaceva lì, ridendo di
tanto in tanto sommessamente, vagava piroettando per la stanza con la giacca un
po’ calata sulle spalle, lo chiamava, attendeva la domanda che – lo sapeva-
sarebbe inevitabilmente giunta. Alla luce della luna capiva subito quando
sorridergli e porgergli la mano, quando invitarlo a ballare per passare il
tempo che lui non percepiva più. Comprendeva quanto c’era rimasto di ragione e d’oblio
nella sua testa ciondolante.
“Tu non hai fame, Nii
san?” racchiuso negli abiti neri da funerale, col viso celato per metà
dall’ombra di un drappo di velluto rosso che dal soffitto scivolava sulla nuda
gamba destra, sembrava una bambola di porcellana le cui giunture erano ormai
usurate.
“Ho già mangiato”
disse, e quella volta, tra le tante, non era vero.
Lui sorrise, come lo
faceva ogni secondo, divaricando le gambe e sfregandosi sul suo giaciglio, la
testa che spariva alla sua vista ed il suo collo che tornava a tormentarlo.
Decise di lasciarlo struggersi un poco, soffrire la fame che soffriva lui, con
la risata folle che lo aiutava a sopportare qualunque cosa. Senza la luce della
luna, gli arti non coperti dalla funerea seta nera del suo completo nero si
protendevano verso di lui involontariamente, in cerca di un contatto che gli
concedeva solo quando ogni cosa diveniva tenebra, e lui si rendeva conto di
avere fame.
Molta più fame di
quanta il suo Nii san avrebbe mai potuto placare con le sue arance dal succo
rossissimo.
“Ho fame… voglio un
arancia, nii san! Dammi un arancia!” pigolò, mentre la luna veniva soffocata
dai lampi di tempesta, dalla tempra più forte. Improvvisamente Edward non
riuscì ad accettarlo. Ignorò l’accenno di lacrime sui suoi occhi, con una mano
sul papillon che non si curava più di raddrizzare sul collo da tempo. Molto più
tempo di quanto sarebbe riuscito a ricordare, provandoci.
“È una menzogna”,
sussurrò. Non avrebbe piovuto, ed Alphonse avrebbe smesso di piangere con un
sorriso bianco ed una richiesta di ballare il valzer. Alphonse lo guardò, come
non lo guardava da anni, probabilmente. Neanche la luna, di nuovo libera,
attenuò la sua impressione che stesse per comprendere cos’è che non andava
aldilà della sua arrendevolezza, aldilà delle scorze rosse sul pavimento di
marmo regale.
“Non è d’arance che hai
fame”
C’era qualcosa, una
vibrazione diversa nello scorrere dei secondi nei minuti, dei minuti nelle ore,
delle ore nelle notti.
“Mi annoio” -il tuo sacrificio m’annoia, la pena che ho per te
m’annoia, la mia noia mi terrorizza e l’amore che provo per te lo fa anche di
più-.
“Non lo fare”, si voltò
verso di lui, mentre la luce lo inondava e la minaccia di tempesta si rilevava
per ciò che era. Una menzogna. Come i suoi desideri e come l’illusione di
contentezza che la follia aveva provveduto a costruirgli addosso. Non sapeva
cosa lo avesse spinto a decretarlo, e sperava fosse per il fatto che la loro
soluzione era giunta in città. Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta
soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo bisogno
di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava
sereno.
Osservò la linea della
costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia
sulle labbra turgide.
-Di qualcuno che ti
stuzzichi l’appetito-.
***
Lady Pinako Rockbell
gli dava una strana sensazione di deja vu, anche se non aveva l’aspetto di una
persona minacciosa nel senso che lui intendeva. Era piccola, a tratti minuscola
se la si guardava da seduta, con un paio d’occhialetti che le rimpicciolivano
gli occhi ed un codino di capelli grigi simile al picciolo di una rapa. Ma
sapeva molte delle cose che Roy voleva sapere, ed aveva la capacità di farle
sembrare vere e più inquietanti del dovuto.
Roy Mustang aveva
ancora vergogna della storia che sarebbe andato a ricamare, non lo negava, ma
mentre osservava la zuppa tanto gentilmente offertagli pensò che sarebbe
bastato renderla verosimile.
“Me lo sarei dovuta
aspettare”
“Che cosa?” era stupito.
Pensava che non gli avrebbe rivolto la parola, che la sua espressione
diffidente sarebbe bastata a farlo desistere. Dalla credenza a qualche metro
dalla tavola, imprigionata nella carta di una fotografia, una ragazza dai
lunghi capelli biondi, di non più di vent’anni, gli sorrideva abbracciando un
grosso cane. Era l’unico oggetto nella camera che non fosse un martello od una
scatola di chiodi. La fissò per qualche secondo.
“Che qualcuno del mondo
là fuori sarebbe arrivato, prima o poi”
Era un villaggio di
fantasmi malinconici, rarefatti e rassegnati al loro legame col mare e con una
lisca di pesce. L’immagine gli tornò alla mente, calzando a pennello con quella
definizione del mondo da cui proveniva. “Quanti sono i morti?”
L’anziana donna aveva
saputo sin dall’inizio dov’è che voleva giungere, e stette in silenzio per
qualche tempo, ponderando su fantasie di cui aveva subito il lato reale. Era
ancora abbastanza attaccata alla terra per dispiacersene e cercare vendetta. La
luce del camino rendeva il suo viso meno spettrale. “Non mi fido di voi”
“Lo immaginavo”
“E nemmeno voi di me,
suppongo”
“Il mestiere che svolgo
rende il mio atteggiamento ambivalente, Milady” disse, indossando la sua
maschera di candido ammaliatore. Doveva riporre la sua fiducia in chi poteva
ricambiare lasciandogli tra le mani vitali segreti, sussurri e tracce su una
mappa da disegnare. Allo stesso tempo doveva fare in modo che i gentiluomini e
le gentildonne avessero fiducia in lui, o che perlomeno lo ritenessero tanto
insignificante da pensare che, parlare o meno con lui, fosse irrilevante.
Nessuna di quelle condizioni si era verificata, tra di loro.
“Èqui per gli Elric?”
era una domanda, ma era abbastanza sicura della risposta che avrebbe ricevuto da
non infondervi un tono interrogativo.
“Allora ci sono già dei
sospetti”
“Fesserie”
“Perché avete parlato
di questi Elric, allora?”
“Pensavo foste in cerca
di fesserie anche voi. Non troverete altro, signore”
Mentre la luce della
luna rendeva più chiari i lineamenti del suo volto allungato, Roy pensò che non
fosse il caso di trattarla come qualunque altra donna –o uomo, se è per
questo-. Si rimise nelle sue mani, sorridendo, come avesse un potere oltre
quello conferitole da ciò che sapeva.
Annuì quasi meccanicamente.
Era esattamente ciò che aveva pensato, ma quelle fesserie si adattavano a lui
e le meritava perfettamente, anche senza i fumi dell’oppio nella testa o
senz’avere quest’ultima infilata sotto le vesti di una gentile donzella.
Sorrise, annuendo quasi soddisfatto.
“Cinquanta vittime, tra
abitanti del villaggio e commercianti in transito, da un anno a questa parte.
Tutte completamente private del loro…”
“… sangue” lo disse
soprappensiero, mentre lo diceva lui, creando un’eco che fece tremolare la fiamma
della candela che stava sul tavolo. Nel gioco di luce e ombra, il suo sorriso
non parve credibile. Tutte quelle dannate storie venivano fuori proprio quando
denti aguzzi e creature succhia sangue, nel frattempo, si pavoneggiavano sulle
pagine di romanzi da due soldi. Avevano incominciato a farlo, da due anni a
quella parte, con una presunzione discutibile. “Vi offendo se confermo che mi
sembrano fesserie?”
“È solo ciò che molti
qui intorno hanno visto. Ma del resto voi del mondo là fuori ritenete che
troppe cose siano fesserie”
Abbassò il capo,
cercando di nascondersi da lei per qualche attimo. “La carta stampata c’ha
rivelato troppo, forse? Non saprei, Milady. Sono qui per scoprirlo, non anelo
altro” con un gesto di biasimo appena accennato parve voler liquidare la
faccenda, con un po’ di quell’omertà degli spettri immorali, che non hanno
nulla da perdere a lasciare che gli uomini si dannino per il loro divertimento.
“Avrei molta più
facilità a crederlo, è solo che non lo desidero. Non voglio credere che loro
siano…”
“… vampiri” lo disse
con la noia nel tono di voce. Sgranando le minuscole iridi si ritrasse di
scatto, trotterellando giù dalla sedia e fuori dalla casa prima che avesse
potuto pentirsi della sua fretta. Aveva dimenticato che, superstizioni o no,
delle persone c’avevano lasciato le penne nella stessa razionale realtà che lui
riconosceva. La luna fuori era piena come un occhio pieno di terrore. Il cielo
e il mare erano uniti dallo stesso colore nero, impenetrabili se non dalla luce
della luna.
“Potrei dissipare tutte
le vostre paure, se me lo permetteste” Fece per voltarsi verso di lui, ma il
suo sguardo l’oltrepassava: su uno sperone di roccia, che pendeva sulle loro
teste come la lama di una ghigliottina, stava una costruzione che sì stupì di
non aver notato prima.
“La residenza degli
Elric” Spiegò Lady Rockbell, con voce atona. Era comparsa insieme alla notte,
non c’erano altre spiegazioni. Non si poteva dire se quella figura fosse
davvero nera, o se fossero state le tenebre a farne una sagoma indistinta, la
cui coppia di torri parevano il profilo di un paio di rachitiche braccia. Un
castello costruito nello stile dei peggiori romanzi dell’orrore. “Mio dio,
tutto ciò è troppo divertente”
“Non mi siete
simpatico, signore”
“Non so perché l’avevo
intuito”
Roy sorrise ancora,
alla vista, come avrebbe potuto fare davanti ad una bella donna.
“La popolazione del
villaggio si è dimezzata da quando gli ultimi due rampolli della famiglia Elric
sono tornati alla loro residenza estiva. E non parlo solo di morti. La mia
unica nipote è scomparsa nel nulla qualche mese fa, perciò potete ridere
,dall’alto della vostra raziocinante intelligenza inglese, di questa storia da
superstizione. Ma fatelo quando non posso vedervi”
Neanche allora riuscì a
prenderla sul serio, e le rivolse un espressione quanto più possibile incolore.
Dentro di sé non vedeva l’ora di scovare quel pazzo e sbatterne la foto sulla
prima pagina del suo giornale, con una spiegazione scientifica e tangibile.
Niente trucchi da circo
o castelli infestati.
“Parlatemi di questi
Elric vi prego, Milady. Immagino di non potermi recare da loro l’indomani
mattina, ho bisogno di tenermi occupato.
Suvvia, parlatemene!”
***
“TU! BRUTTO IDIOTA!”
tuonò la cornetta del telefono.
Roy cominciava a temere
di avere una malaugurata sfortuna con le donne: o gli urlavano contro, o si
rifiutavano di parlargli.
Anche se Olivia Milla
Armstrong aveva perso da tempo quella caratteristica che la gente comune chiama
femminilità, consacrando la sua vita alla politica del terrore –specie se
applicata su di lui-. Giusto qualche volta poteva essergli sembrato che il suo
modo di terrorizzarlo fosse in qualche modo femminile, ma probabilmente era
solo un’ impressione -messagli in testa dal dondolare dei suoi seni o cose
simili, magari-.
“Se stai pensando
quello che pensi di solito –ed io so che tu lo pensi- sappi che, ora, è
alquanto ridicolo pensarlo”
“Vuoi dirmi che non hai
trascurato il tuo lavoro per correre dietro a qualche gonnella nemmeno per un
attimo?”
“Se ne avessi trovate
di appetibili…”
“MUSTANG!”
“Ho notizie,
My Fair Lady!”
Olivia odiava che la
chiamasse a quel modo, ma soprattutto odiava il fatto che avesse il coraggio di
farlo quando lo aveva mandato in un paesino sperduto ad occuparsi di qualche
bega da superstizione paesana, solo per toglierselo di torno.
“Se mi chiami ancora
così ti spezzo un braccio. Non chiedermi come, ma sai meglio di me che ho i
miei mezzi!”
“Ne sono cosciente. Ma
so riconoscere quando c’è un bella messinscena da smascherare, e stavolta non
so dire se il nostro uomo sia davvero più incline all’omicidio che all’inganno”
Olivia sapeva che era vero, che –quasi- ogni cosa che diceva era del tutto
attendibile, ma non seppe trattenersi dal dubitarne un poco. Era pur sempre il
migliore elemento della sua redazione, pur con tutte le sue dannate ossessioni
nichiliste, e per questo andava tenuto sotto controllo. Acconsentì con un
grugnito a farlo continuare.
“La serie di omicidi e
sparizioni sembra sia iniziata in concomitanza col ritorno di due giovani conti
‘in città’. Poco più che ragazzini. La loro famiglia possiede la residenza che
domina la baia fin da quando fu costruito, si dice, e, ad intervalli che vanno
da cinque a dieci anni, tornano ad alloggiarvi per qualche tempo. Esattamente
dieci anni fa, quando avevano rispettivamente sette e nove anni, i due fratelli
passarono un soggiorno di qualche mese qui con i loro genitori. Ne sono sicuro
perché un anziana signora mi ha raccontato che sua nipote, della stessa età del
fratello maggiore, aveva stretto con loro all’epoca una fortunata amicizia.
Almeno fin quando non se ne sono andati, e sono tornati poi con l’acquisito
‘savoir faire’ del nobile: troppo superbi per curarsi di lei. Per quanto abbia
provato ad incontrarli i domestici le sbattevano sempre la porta in faccia. Ed
ora è scomparsa nel nulla”
“Ma come avrebbero
potuto due ragazzini uccidere in quel modo?” sbottò Olivia grattandosi la
testa.
“Si tratta di un lavoro
da professionisti: litri e litri di sangue tirati via dalle vene lasciando
solamente due piccole punture, senza versarne una goccia e senza infliggere
nessun’altra ferita. Sia che abbiano tramortito le vittime e che le abbiano poi
dissanguate da un'altra parte, sia che abbiano raccolto il sangue in un contenitore,
la cosa risulta infattibile senza che nessuno se ne accorgesse”
Doveva trattarsi quindi
di un medico. Aveva già fatto un ragionamento simile, ed il risultato era stato
lo stesso.
“Forse lasciano
l’incarico a qualche servitore” azzardò quindi Roy.
“Possibile”
“Credi davvero che le
due cose siano correlate?”
Ricordò il profilo
della residenza, e riuscì ad immaginare una farsa tanto ben architettata da far
ridere ed inorridire allo stesso tempo: un castello infestato, due giovani
conti dalla vita solitaria su cui, imbastire una montatura di follia e
decadenza, sarebbe stato fin troppo semplice.
“Tutto combacia” disse
al termine della sua catena di pensieri.
“Cosa ti aspettavi? I
grandi assassini sono fuori dalla nostra portata attualmente, e comunque sai
quanto poco m’interessino. Il mondo è un alcova di pazzi, ormai, non capisco
cosa ci sia da farsi uscire le pupille dalle orbite ogni volta”
“Grazie mille per la
tua considerazione per me, allora. Farò quel che potrò. E grazie anche per
avermi ricordato perché questo mondo fa tanto per me”
Protese le labbra verso
la cornetta. Lo schiocco rese il tono di voce di Olivia più sbrigativo.
“Prego, idiota.
Smettila di fare l’idiota, idiota, e fai un buon lavoro… nei limiti del
possibile. Ah, e lascia perdere quel fottuto libro!”
Era forse il terzo
telefono che rompeva quella settimana… forse.
*Nii san= fratellone,
fratello maggiore. Scusate, so che essendo in Inghilterra non dovrebbero parlare
giapponese, ma “fratellone” e “fratellino” mi suonano veramente male in bocca a
loro xD
*Oxford street è, ai
nostri giorni, la strada dello shopping di Londra. Non so se esistesse già nel
1900 e se avesse già questa fama, ma passatemi il paragone per piacere xD
*Otouto= fratellino,
fratello minore.
NOTE FINALI!
Bene, stavolta sto avendo
un inflazione di terzi posti xD quando arriverà quella dei primi? Credo mai.
Comunque la prima
condizione necessaria affinché io scriva il seguito s’è verificata: sul podio
ci sono arrivata! Non mi rimane da vedere se questa fic piacerà o no a voi del
pubblico. Tutto sommato mi è andata bene, per il momento. La fic sarà formata
da quattro capitoli e posterò ogni sabato.
Al prossimo capitolo e
commentate in molti *O*
Banner e giudizio