Osservare.
Kagome
ora lo stava osservando con la coda dell'occhio, ben attenta a non
incrociare il suo sguardo. A separarli erano un mucchio di legnetti
e, soprattutto, una fiammella arancio-rossastra che si innalzava ogni
istante di più, come a voler creare una barriera tra i due.
Kagome
si stringeva nella coperta, teneva tra le mani una tazza di coccio,
sorseggiava il suo tè alle erbe, nel vano tentativo di
scaldare le
corde vocali.
Non
sapeva per qualche astruso motivo, ma le sue guance avevano preso a
colorarsi autonomamente – faceva un freddo boia, il vento del
Nord
scuoteva la vegetazione con forti raffiche – e fu necessario
nascondersi nel suo stesso lembo di coperta. Decise di accucciarsi a
terra, dondolando un po' su se stessa, così da scaldare il
suo
corpo; chiuse le palpebre, nel vano tentativo di cadere tra le
braccia di Morfeo.
Ma
quello le rifiutava bellamente, scaltro com'era. Si girò e
rigirò
più volte, strabuzzando gli occhi. «Mi farai
venire il mal di
testa», grugnì Inu Yasha, guardandola in cagnesco.
Kagome
si rialzò, fulminandolo con lo sguardo.
«Scusa
tanto, ma mi sento leggermente
osservata...», alluse agli
occhi del ragazzo – miele, aveva paura di affondare in essi e
di
non
riuscire più a far
ritorno a riva, se li guardava troppo – che permeavano sul
suo
corpo scheletrico; provava una certa soggezione quando Inu Yasha era
meno scorbutico del solito, distendendo tutta la parete facciale.
«Non
sapevo che ti emozionassi così.»
Ecco,
un'altra frecciatina bella e buona. Kagome lo ammonì con
un'altra
occhiataccia fugace ma d'effetto; decise di abbracciare le proprie
ginocchia con la sola forza delle esili braccia.
«Non
ho sonno», mormorò, osservando lo spicchio di luna
che si ergeva
maestoso in alto, lasciando in penombra Inu Yasha, che non ne era per
niente toccato.
«Se
evitassi di pensare, ti verrebbe», il suo tono di rimprovero
le era
arrivato come una freccia al cuore. Se
riuscissi a non pensare a
te, razza di cagnaccio!
Fu
solo un pensiero, anche se quelle parole permeavano sulla punta della
lingua come tanti ghiaccioli che non vedevano l'ora di essiccarsi al
sole.
«E
tu... Tu non dormi mai, Inu Yasha?».
Trascinò
il lenzuolo a terra, trasportando anche il suo corpo,
inevitabilmente. Sfiorò il suo kimono, chiese scusa in un
sibilo,
probabilmente lui non l'aveva nemmeno udita. Aveva paura di
conoscere i suoi pensieri – paura di non essere all'altezza
di
Kikyo. Lei, che era solo una sosia, una copia, un riflesso, un
pallido spicchio di luna rispetto alla vera – allora la morsa
al
cuore si faceva più stretta e i suoi occhi divenivano due
fessure,
doveva trattenersi. Già, niente sentimentalismi.
«Preferisco...»,
si fermò. Adesso picchiettava due dita sulla fronte,
martoriando la
frangia argentea. Perché non riusciva ad andare avanti?
Kagome si
preoccupò; gli sfiorò con le dita il profilo
perfetto, incrociando
ancora una volta i suoi occhi miele. Non
affondare, non
affondare, non affondare. Il
respiro meno regolare, il battito del cuore che, liberamente,
accelerava. «... osservare»,
fu con una sola parola che Kagome congedò le proprie corde
vocali,
mutismo nella sua gola. Affondata.
«Osservare?»
Si
limitò a precisare. Non c'era né stupore
né ironia in quella
parola: semplicemente una constatazione. Anche se, doveva ammettere,
le sorti di quella domanda erano tutte tra le labbra del ragazzo.
«Osservare.»
affermò lui, ora meno teso.
«Allora
non smettere di farlo», Kagome adesso poggiava la testa sulla
spalla
del ragazzo, sistemando comodamente la matassa di capelli corvini.
Forse
sulle labbra di Inu Yasha ora indugiava un sorriso.
Kagome
non lo seppe mai, perché, un attimo dopo, le
sentì premute contro
le sue, come per addolcirla con una ninna nanna.
Si
ritrovarono l'uno accanto all'altra, con sorrisi sornioni
in
volto. Avrebbero voluto che
la
notte riposasse un po' di più, perché era solo in
quegli attimi che
la razionalità
veniva
meno, lasciando un po' di spazio alla gemella, sua opposta.
Fine.
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