Notte.
Non sei tu quello che mi guarda, non puoi essere tu.
Distolgo lo sguardo, ma continuo a sentire i tuoi occhi puntati su di
me.
Sta piovendo.
Numerose gocce di pioggia battono incessantemente sul parabrezza della
macchina, su di te.
Il tuo corpo esile steso sul cofano nero della Cadillac.
I tuoi occhi nocciola continuano a guardarmi, anche se sono spenti e
senza vita, riescono ad essere tremendamente espressivi.
Rabbrividisco.
So che è impossibile, ma mi sembra che tu mi stia accusando
di ciò che è appena successo, anche se forse
è solo tristezza e paura.
Cerco di non pensarci.
Sento alcune grida in lontananza, ma non m’importa, vedo solo
te.
Lo sportello si apre e due braccia robuste mi trascinano fuori dalla
macchina.
Cerco di liberarmi, ma inutilmente.
- Lasciatemi..lasciatemi. Cazzo!! Non potete portarmi via
così- continuo ad urlare.
Finalmente vengo lasciato libero, la figura possente di Saki mi scruta
dall’alto.
- Perché non capite?! Io..devo..non posso-.
Sfuggo alla sua presa e corro verso la macchina, sei ancora
lì, privo di vita.
Faccio forza con le mani e salgo sul cofano, le mie scarpe bagnate
scivolano sulla vernice lucida, macchiandola di fango.
NON ME NE FREGA UN CAZZO! L’unica cosa che ora conta
veramente per me sei tu Bill.
Tu e nessun altro.
Ti prendo per le spalle e ti giro verso di me, il tuo corpo fragile si
affloscia contro il mio.
Ti abbraccio, vorrei poterti tenere sempre accanto a me, ma sento la
tua vita affievolirsi sempre di più.
Ti stringo forte, ho paura che tu svanisca per sempre, ma allo stesso
tempo temo di ucciderti con le mie stesse mani.
Sento una sirena, le luci dell’ambulanza mi accecano, cerco
di stare calmo, ma non ci riesco.
- Tom ora dobbiamo andare- Gustav cerca di trascinarmi giù
dal cofano ma io non voglio abbandonare mio fratello, non posso!
Arrivano anche gli altri: Georg, Andreas, David, Saki.
- No, non voglio!!-.
Nessuno mi capisce, mi sembra di essere solo, senza Bill.
Una lacrima.
Voci confuse in lontananza.
- Qualcuno ha chiamato i suoi genitori?-
- Sì li ho appena sentiti, ci aspettano in ospedale-.
Vengo trascinato di peso verso l’ambulanza. Salgo e le porte
si chiudono dietro di me.
Mi guardo intorno impaurito: accanto a me ci sono Georg, Gustav e
Andreas.
Gustav si tiene la testa tra le mani.
Georg mi guarda- Credi che ce la farà?-
Che razza di domanda è?! Gli sembra questo il momento di
chiedermi una cosa simile.
Cerco di non pensarci, vorrei poter rispondere con sicurezza, ma non
posso perché anch’io mi sono chiesto la stessa
cosa poco fa.
- Non lo so- dico tristemente, Andreas e seduto accanto a me e continua
a tenere gli occhi chiusi.
Sembra quasi che dorma, ma probabilmente sta solo cercando di non
pensare a quello che sta succedendo.
Vorrei scomparire, non voglio rimanere lì, ho paura.
Un’infermiera mi chiede gentilmente – Scusi, ma lei
è il fratello della vittima?-
- Sì- rispondo secco.
- Mi dispiace molto per quello che è successo, ad ogni modo
sono convinta che suo fratello si riprenderà presto, mi
creda-.
BUGIARDA! Non sono stupido, li vedo gli altri infermieri indaffarati
intorno alla barella di Bill. Li vedo farli tutte quelle iniezioni,
quegli esami, se davvero è così convinta che
guarirà allora perché sono tutti così
agitati?
- Bugiarda- sussurro.
- Come scusi?-
- Ha capito benissimo..BUGIARDA!!
Lei è una bugiarda, mio fratello sta morendo, lo so.
È inutile che finga il contrario, so quello che sta
succedendo, non sono stupido sa!- mi accascio sul sedile esausto.
- Ma veramente io..-
- Non si preoccupi, non è colpa sua- dice Andreas cercando
di scusarsi.
Mi si avvicina e mi stringe le mani, sto tremando, si appoggia a me
cercando di confortarmi.
- Ehi Tom, vedrai che andrà tutto bene. Bill è
forte ce la farà-.
Perché continuano tutti a mentirmi!!
- Mmm- è tutto ciò che riesco a dire.
Rimaniamo in silenzio per tutto il resto del viaggio.
Quando finalmente raggiungiamo l’ospedale e
l’ambulanza si ferma, vedo gli infermieri far scivolare
lentamente la barella giù dall’ambulanza e sento
la mano di Bill allontanarsi dalla mia.
Non voglio perderlo, non possono portarmelo via! Stringo con
più forza la sua mano cercando di trattenerlo con me, ma
sento la sua mano esile scivolare via dalla mia, gli sfioro la punta
delle dita per poi staccarmi definitivamente da lui.
La barella viene spinta velocemente all’interno
dell’ospedale, ma io sono ancora seduto qui: sul freddo
sedile di questa fottuttissima ambulanza.
Chissà forse si sono dimenticati di me, mi hanno chiuso qui
dentro e tra non molto morirò.
E allora potremo essere di nuovo insieme... solo io e te Bill..per
sempre.
Magari potessi morire, invece sento le voci di qualcuno arrivarmi
indistinte all’orecchio, poi due braccia robuste mi fanno
scendere e mi conducono verso l’entrata.
Non appena varco la soglia dell’ospedale, la luce abbagliante
dei neon mi acceca, cerco di farmi schermo con la mano ma quella,
impietosa della mia tristezza e della mia rabbia, continua a ferirmi
gli occhi.
Mi accascio su una delle sedie di plastica del corridoio e chiudo gli
occhi.
Ho paura, in questo momento ho paura come non ne ho mai avuta in vita
mia.
Ho una fottuta paura di perderti, Bill.
Sono preoccupato ma soprattutto furioso, perché tutte le
persone intorno a me sembrano non rendersi veramente di quello che sta
succedendo in quella stanza, oltre quella porta bianca che mi separa
dalla mia anima, dal mio respiro, da tutto ciò che mi
appartiene e che mi fa vivere ogni giorno.
Perché dietro quella porta c’è LUI.
Lui. Il mio gemello. La mia vita.
Quello che per tutti questi anni mi è sempre stato vicino,
con cui potevo parlare di tutto e di niente, con cui ho imparato a
vivere e ad amare.
Bill. Complice di tante scorpacciate segrete alla scatola dei biscotti
condivise da piccoli fra le quattro mura della nostra cucina, la
persona che mi ha fatto scoprire il piacere della risata e di un
“Ti voglio bene” detto prima di spegnere la luce,
lui che mi ha insegnato le cose importanti della vita.
Ma soprattutto che mi ha insegnato il vero significato
dell’amore.
E se penso che ora possa perderlo così, in pochissimi
minuti, e tutto per colpa di uno stupido incidente. Per colpa mia.
Scaccio indispettito una lacrima che sta scendendo lentamente lungo la
mia guancia.
Vedo la figura di Gustav avvicinarsi verso di me con in mano del
caffè caldo.
Mi si siede accanto, porgendomi il bicchiere e mi chiede -
Come stai?-.
- Che domanda stupida. Come vuoi che stia, sapendo che il mio gemello
è la dentro da qualche parte, che probabilmente sta morendo
ed io non posso fare niente per impedirlo. Anzi non posso nemmeno
stargli accanto. Dimmi secondo te come mi dovrei sentire? –
dico arrabbiato.
- Hai ragione Tom, scusami- si alza dalla sedia e si allontana in
silenzio.
Cazzo. Mi sto comportando come un bambino! Perché ho
trattato così male Gustav? Insomma lui ha solo cercato di
essere gentile e io invece gli ho risposto così, senza un
motivo.
Forse adesso dovrei alzarmi e andarlo a cercare per chiedergli scusa.
Ma anche se questa sembra la cosa più giusta da fare, non so
perché ma il mio corpo non ne vuole sapere di staccarsi da
quella sedia e di allontanarsi neanche per un secondo da quella porta,
dove dietro c’è Bill.
Il mio Bill.
Un’altra lacrima fastidiosa si fa strada tra le ciglia e
scivola lentamente lungo la mia guancia.
Non voglio piangere, so che forse dovrei sfogarmi in qualche modo, ma
non voglio lasciare trasparire così la mia insicurezza, la
mia paura.
Non voglio.
Incredibilmente riesco ad alzarmi dalla sedia e mi dirigo verso la
macchinetta.
Ho assolutamente bisogno di bere un caffè forte, senza
zucchero, forse almeno quello riuscirà a farmi ragionare.
Infilo le monete nella fessura e aspetto paziente.
Quando finalmente il ronzio della macchinetta cessa, apro lo
sportellino e mi chino a prelevare il bicchiere colmo di
caffè bollente.
Lo tengo stretto con due dita e cercando di non fare casini, torno a
sedermi su quella scomodissima sedia di plastica azzurra.
Soffiò sul caffè per cercare di raffreddarlo, poi
lo avvicino lentamente alle labbra.
CAZZO, É BOLLENTE!!! Ingoio un sorso di caffè, mi
brucia la gola.
Probabilmente ho perso completamente la sensibilità del
gusto, ma in fondo adesso che importa.
Ormai nulla ha più un significato.
Tristemente gettò il caffè annacquato nel
cestino, mi alzo in piedi e inizio a camminare su e giù per
il corridoio.
Non riesco a stare calmo.
Mio fratello è chiuso in una di queste stanze, dove
probabilmente sta morendo e io sono qui impotente.
Questa è una cosa che non riesco a sopportare, vorrei tanto
poter fare qualcosa, ma qui tutti non fanno altro che dirmi di stare
calmo, che tutto andrà bene, che mio fratello si
riprenderà... ma io sono stufo di queste cazzate!
Perché non sono loro che stanno perdendo la metà
di loro stessi, non è il loro gemello, non è la
parte mancante del loro cuore, della loro anima.
Ma è il MIO.
Perché Bill è solo ed unicamente MIO!
Nessuno può capire quello che sto provando, è
inutile che continuino a guardarmi con pietà,
perché io non ho bisogno di questo, perché loro
non capiscono.
Ora come ora l’unica cosa di cui ho veramente bisogno
è poter stare accanto a mio fratello, ma purtroppo
è impossibile.
Quindi mi limito a rimanere in silenzio, in attesa che quelle porte si
aprano.
Respiro profondamente, questo ambiente asettico mi opprime: i colori,
gli odori, le persone, è tutto così terribilmente
irreale.
NON LO SOPPORTO!
Tanto lo so già come andrà a finire, me lo sento.
Quando quelle porte si apriranno, uscirà
un’infermiera che con aria gentile e tono calmo mi
dirà che Bill non ce l’ha fatta, che il mio
gemello è morto... la mia metà, la mia vita.
Una lacrima fastidiosa mi scende lungo una guancia.
Poi inizierà a dire le solite frasi di circostanza che
francamente non sopporto, del tipo: “ Mi dispiace davvero per
quello che è successo... Non c’è stato
modo di salvarlo... abbiamo tentato di tutto... ma sono sicura che suo
fratello le sarà sempre vicino... ” e altre
cazzate simili.
È così che andrà, ne sono sicuro, come
da copione.
Perché in questa storia non può esserci un lieto
fine, purtroppo.
***
Attimi.
Secondi.
Minuti.
Ore.
Il tempo scorre lento, incurante della mia sofferenza, del disperato
bisogno che ho di sapere che mio fratello sta bene, che tutto questo
è solo uno stupido incubo da cui presto ci sveglieremo e di
cui poi rideremo insieme, nascosti sotto il piumone del mio letto,
abbracciati uno all’altro, consolandoci a vicenda.
Un cigolio e le porte che conducono all’inferno si aprono.
Ma non è certo Satana quello che sta uscendo, anzi
tutt’altro.
È un semplice medico di mezza età avvolto in un
camice bianco, con una cartellina in mano che continua a sfogliare
nervosamente, mentre avanza a passi lenti verso di me sistemandosi gli
occhiali, che continuano a scendergli fastidiosamente sul naso affilato.
Gli occhi piccoli e gelidi scrutano un’ultima volta il plico
di fogli che tiene tra le mani, per poi rivolgere la loro attenzione su
di me.
- Lei è il fratello della vittima suppongo- chiede
scrutandomi attraverso le lenti con aria di sufficienza.
Non lo sopporto.
Possibile che in un momento come questo certa gente non riesca ad
andare oltre alle apparenze, ai loro fottuttissimi pregiudizi, e
preoccuparsi solo di compiere il loro lavoro come si deve.
Non chiedo molto.
Pretendo solo che mi vengano dette le cose così come sono,
senza tanti giri di parole.
Non mi sembra una richiesta così difficile.
Eppure sembra che a nessuno importi.
- Sì, sono io- rispondo apatico.
- Avrei bisogno di parlare con lei, se vuole seguirmi nel mio ufficio-
dice avviandosi lungo il corridoio.
- No che non voglio. Non voglio seguirla nel suo cazzo di ufficio!- il
mio braccio stretto attorno al suo, gli impedisce di muoversi.
- Mi scusi io non intendevo... - balbetta lui impaurito.
- Tom che stai facendo- la voce acuta di mia madre.
Merda!
Immediatamente mollo la presa sul suo braccio, lasciandolo libero.
Sento i suoi passi farsi sempre più vicini, quando
finalmente la vedo, ferma immobile davanti a me.
Stento quasi a riconoscerla: il viso scarno e sciupato, le guance
rigate dalle lacrime, gli occhi arrossati, i capelli in disordine.
Non sembra affatto mia madre.
O almeno non quella che mi ricordo io.
Quella che mi sgridava quando facevo i dispetti a Bill, che mi aiutava
con i compiti, che mi dava la buona notte prima di dormire, che mi
consolava quando ero triste e che ora, esattamente come faceva lei con
me, viene consolata da Gordon.
- Si può sapere che cosa ti è preso?- dice tra i
singhiozzi.
È incredibile come questa donna possa avere la forza di
sgridarmi, nonostante uno dei suoi figli stia lottando tra la vita e la
morte.
Simone è sempre stata così: una donna
indipendente e sicura di sé, che è riuscita a
tirar su due gemelli da sola, con il solo aiuto di Gordon.
È davvero ammirevole.
- Hai ragione mamma, scusa- dico a capo chino.
Lei mi guarda con aria severa, poi fa un respiro profondo –
Non importa, so come ti senti... e ti capisco benissimo-.
Quando finalmente torna a posare lo sguardo sul medico che un attimo fa
stavo quasi per aggredire, e gli chiede con voce tremante –
Di che cosa voleva parlare con mio figlio Tom? Credo sia giusto mettere
al corrente anche me, se ci sono novità su Bill, in fondo
sono pur sempre sua madre-.
Sento la paura trapelare dalla sua voce, so che non vuole davvero
sapere quello che hanno da dirle, probabilmente non vorrebbe neanche
essere qui.
Teme di sentire quella semplice frase, ormai collaudata da tempo, che
la farebbe crollare.
Una stupidissima frase, sufficiente a rovinare la vita di tante persone.
Il medico si schiarisce la gola e finalmente si decide a rispondere
– Bill non ce l’ha fatta-.
Un urlo.
Quello di mia madre.
La vedo accasciarsi a terra, mentre Gordon cerca di sorreggerla come
può.
Ma sono solo immagini confuse e sbiadite, non riesco a respirare, la
stanza mi sembra improvvisamente troppo piccola, devo uscire di qui.
Senza preoccuparmi di nessuno, corro fuori dall’edificio.
L’aria fredda della notte mi sferza il viso, ricaccio
indietro le lacrime e inizio a correre.
Non so neanche io dove sto andando, so solo che ho bisogno di
allontanarmi il più possibile da quel luogo, così
smetto di pensare e lascio che sia il mio istinto a guidarmi.
Corro, senza mai fermarmi, fino a quando arrivo di fronte a un vecchio
edificio abbandonato.
Te lo ricordi Bill?
Entro da un ingresso laterale che ormai conosco a memoria, salgo in
fretta le scale fino ad arrivare sul tetto, spingo la maniglia
arrugginita della porta e finalmente sono fuori.
È ancora più grande di come me lo ricordavo.
Non ci sono più i direttori di scena, la troupe, David che
urla da dietro le quinte, io e i ragazzi che ti supportiamo stando ai
margini della scena.
Niente telecamere, niente luci.
Questa volta ci sono soltanto io e il buio sotto di me.
Avanzo lentamente, poi salgo in piedi sul cornicione.
Fa freddo.
Guardo l’oscurità sotto i miei piedi, fa davvero
paura da quassù, ma ormai ho deciso e non posso
più tornare indietro.
Sporgo un piede nel vuoto, è una sensazione assurda.
Mi volto, sperando di vederti comparire mentre intoni “Spring
Nicht” solo per me.
Ma questa volta non ci sei tu a salvarmi, perché tu mi hai
lasciato, mi hai mentito.
Me l’avevi promesso ricordi? Staremo sempre insieme, per
sempre.
E io che come uno stupido ci avevo creduto, ma “per
sempre” non esiste.
Ora ci sono io, da solo nella notte, senza di te.
“Le luci non ti guideranno, ti stanno solo
tradendo” un’altra bugia.
Non c’è nessuna fottutissima luce accesa per me
stanotte, nessuno rivolto col naso all’insù a
pregare per me, nessuno a cui importi della mia vita. Ma in fondo che
mi aspettavo? Siamo pur sempre alla periferia di Berlino, in una zona
disabitata da tempo.
Ho paura.
Vorrei che tutto questo fosse solo uno stupido incubo.
Un ultimo sguardo alle mie spalle, poi mi lascio cadere nel vuoto.
Come hai fatto tu, in quella scena ormai oltremodo criticata di Spring
nicht, alla fine del video.
L’unica differenza è che questa volta non ci sono
effetti speciali, non c’è
un’inquadratura dal basso a farmi sembrare così in
alto e non c’è nessun materasso alla fine di
questa discesa che mi sembra infinita.
Sento il sibilo del vento nelle orecchie, il vuoto intorno a me,
l’oscurità.
Vedo l’asfalto avvicinarsi sempre di più, poi mi
schianto a terra.
Ho la guancia premuta contro l’asfalto ghiacciato, ma non
sento dolore.
Anzi, sono felice, perché finalmente sento che mi sto
riavvicinando a te.
Ormai nulla ha più importanza... basta solo che siamo insieme.
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