Addio, Sarajevo.
Addio,
Sarajevo
Jane Carson osserva
il paesaggio attraverso il vetro sporco. Case distrutte, strade dissestate,
persone che camminano lente ma guardinghe. Dicevano che la guerra sarebbe finita
presto, che era solo questione di settimane. Anni, ci sono voluti. Ed ancora,
qua e là, si continua a sparare.
La
voce esaltata di Flynn, seduto accanto a lei, la irrita profondamente,
distogliendola dalla concentrazione che vuole dedicare a Sarajevo. Flynn è
felice – e ubriaco: se ne stanno tornando a casa, sul loro bel carrozzone da
giornalisti in prima linea. Jane non sa se ha veramente rischiato la vita
durante quegli anni in Bosnia, nessun proiettile le è mai sfrecciato
troppo vicino, nessun cecchino ha mai puntato la sua arma su di lei,
nessuna mina ha mai sbarrato il suo passaggio. Fortunata, le hanno detto. E così
non sa se sentirsi in diritto di festeggiare. In fondo, non era la sua guerra,
e, a volte, soprattutto verso la fine, si è sentita un po’ uno sciacallo
alla ricerca della fonte di sangue più succulento.
Uno sciacallo,
anche se lui non l’ha mai fatta sentire così. Mai. Chissà cosa lega
le persone, qual è la chimica segreta che rende incredibilmente
eccezionale un semplice ragazzo assunto come autista. Forse la sua aria da
ragazzino mai del tutto cresciuto, forse il sorriso, la parlata dal forte
accento, la voce calda. Chissà. Forse persino quella sua orribile giacca color
mattone, così allucinante da farlo diventare quasi un faro per i cecchini. O
forse il fatto che è dovuto crescere troppo in fretta. E troppo in fretta se n'è
andato.
Jane sospira,
pensando a quanto tempo ha passato ad osservarlo in mezzo alla gente. Pensa a
quanto sarebbe potuto diventare bravo come mediatore o interprete. Petrché aveva
la luce giusta negli occhi, perché ti ascoltava, perché rispettava la
sofferenza, anche da soldato, anche alla fine, quando ha impugnato le
armi. Pensa al suo corpo, riverso sul pavimento del suo appartamento, senza
vita, con un solitario rivolo di sangue a macchiare il pavimento ed una rosa
rosso scuro sbocciata sulla divisa mimetica.
Chiude gli occhi,
Jane, stanca come non lo è mai stata. Perché adesso la guerra è finita e lei può
tirare i remi in barca, non deve più pensare a come sopravvivere. Può pensare a
lui, a tutto quello che ha perso. Sarajevo è stata atroce, ma sente le voci
delle pesone con lei che progettano di tornarci, come in una sorta di
rendez-vous perverso, per ricordare i vecchi tempi, per salutare chi è restato.
La donna pensa a Michael, che in Bosnia non è più rientrato, anche se per
lui Sarajevo significa Emira, che adesso vive con lui e la sua famiglia a
Londra. E' ripartito subito dopo il funerale, Michael, confidandole le
parole pronunciate da Risto sull'assedio, sul fatto di averlo dentro, l'assedio,
e di non poter sfuggire.
Sbagliavi.
Anche se sicuramente non è finita come volevi. O come sarebbe stato
giusto.
Si affaccia di
nuovo al finestrino, guardando il cielo dipinto d’arancione. Sarajevo è dietro
di loro, ormai. Non ci tornerà, mai più. Non avrebbe senso, non per
lei. Si volta, per un'ultima volta e, assicurandosi che Flynn non la stia
guardando, si bacia le dita e le appoggia sul vetro: addio Risto,
Sarajevo non è mai stata la stessa senza di te. Eri tu a darle un senso. Ed
io non lo dimenticherò mai.
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