Alle
23 e 35 del 29 Maggio 1890, l’astronomo David Billings e il
fisico John Hume dell’osservatorio di Greenwich, puntarono per
puro caso il telescopio sulla fascia di cielo compresa tra la Grande
Nebulosa di Orione e la piccola Nebula M78, catalogo Messier. Non
avevano un reale motivo per osservare quella particolare area del
cosmo e anche per questo, quello che si presentò ai loro occhi
li lasciò senza parole. Un nuovo pianeta era visibile in modo
chiaro e distinto: la sua distanza dal Sole era all’incirca di
150 milioni di chilometri, più o meno la stessa della Terra;
ma il pianeta sembrava seguire un’orbita completamente diversa
rispetto a quella terrestre. Gli venne dato il nome Side
e fu possibile osservarlo per alcuni mesi. In seguito, tuttavia,
scomparve misteriosamente com'era apparso. Ogni ulteriore tentativo
di inquadrarlo, dopo di allora, si risolse in un insuccesso. Nessuno
riuscì mai più a vederlo.
Valle
dell'Urubamba, Bolivia, 23 Febbraio 1895
Incrociatore
imperiale di Atlantide, Mesekhet
Quando
la porta si aprì, lo vide come al solito immerso nelle carte,
la fronte corrugata sorretta da una mano. Negli occhi aveva sempre il
solito sguardo angelico da bambino, quasi che la sua infanzia si
fosse trattenuta in lui forse troppo a lungo, proprio come una
lacrima tra le ciglia folte. Ma era più probabile che
un'infanzia lui non l'avesse mai neppure avuta e quello non era,
dunque, che uno spettro terribile di essa, che aleggiava spargendo
tutt'intorno a sé il proprio monito. Era qualcosa di lui che
la stupiva sempre: come una tale dolcezza potesse convivere con un
animo così duro.
Gli
si avvicinò, come sempre attenta ad aspettare che fosse lui ad
invitarla a parlare. E, come sempre, lui alzò gli intensi
occhi di ghiaccio, fissandoli severamente nei suoi. Talvolta lei
l'aveva visto sorridere, ma era molto che non accadeva.
«Si?»
le domandò. «Cosa desidera, Faloe?»
«Signore,
ci sono novità... spiacevoli» fece la donna. Lui
aggrondò ancora di più.
«Quali?»
«Non
abbiamo più notizie del resto della spedizione. L'incrociatore
Argo è sparito improvvisamente dal rilevatore posizionale,
dopo che si erano interrotte le comunicazioni nel passaggio
attraverso la Merkaba.
Appena abbiamo raggiunto la gravità terrestre abbiamo provato
a contattarli, ma senza successo».
L'uomo
impallidì. «Non può essere vero».
«Purtroppo
è così, signore» fece lei, con un timido inchino.
«Li abbiamo persi».
***
Resoconto
stilato da:
Capitano
di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento
di Wellington, New Zeland, Oceano Pacifico.
Oggetto:
Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895
Questo
è quanto emerso dall’interrogatorio dei testimoni,
marinaio scelto Murray, Carl e mozzo Leslie, Harold.
Versione
di: Leslie, Harold, mozzo, prestante servizio a bordo della fregata
H. M. S. Queen Victoria:
Il
23 Febbraio, ci trovavamo al largo dell’arcipelago di Samoa, al
confine con le acque Americane. Erano circa le 12. Me lo ricordo
perché dovevo portare le patate alla cambusa, per il pranzo,
ed ero sceso a prenderle nella stiva.
Prima
di rientrare, mi sono fermato un secondo sul ponte, a fumare. Non
avrei dovuto, ma era tutta la mattina che non mi facevo una
sigaretta, e cominciavo ad averne davvero bisogno.
Me
ne stavo lì, tranquillo; ricordo che il sole era caldissimo e
il riflesso sul mare accecante. Tirava una leggera brezza e sul ponte
non c’era nessuno. Stavo bene.
Improvvisamente,
ma proprio così, di punto in bianco, tutto s'è fatto
silenzioso. Me ne sono accorto perché ho cominciato a sentirlo
dentro di me, prima che all’esterno. È strano da
spiegare: il cuore ha preso a pulsarmi nelle orecchie, come quando
uno se le tappa.
Mi
accorsi che il vento si era improvvisamente calmato. Il mare era
tranquillo, liscio come un tappeto. Non riuscivo quasi a scorgere la
cresta delle onde.
Ricordo
benissimo che mi sono guardato intorno e ho visto che tutto aveva
cambiato colore. Era come se ci illuminasse una luce chiarissima e
abbagliante. Ho guardato all’orizzonte e mi sono accorto di una
enorme colonna di luce azzurra che dal mare saliva fino in cielo. Ho
pensato subito a un’esplosione vulcanica, qui ne accadono
spesso, e ho avuto paura che potesse scatenarsi uno tsunami, o una
cosa del genere. Ho gridato, almeno credo, ma non ho sentito nessun
suono uscire dalla mia bocca. Per un istante, il sole si è
coperto e tutto si è fatto buio. L’unica cosa che
brillava era quella intensa colonna di luce azzurra, ma confesso che
potrei anche aver avuto un’allucinazione, perché tutto è
durato davvero pochissimo. Ho cominciato a correre e ricordo bene la
fatica che ho fatto per muovere le gambe. Erano come incollate al
legno del ponte e non volevano saperne di muoversi. Forse perché
ero terrorizzato, chissà.
Riuscii
in qualche modo a dare l’allarme. Il primo che incontrai fu il
sottufficiale marinaio scelto Carl Murray. Salì con me sul
ponte e quando vide quello spettacolo, restò pietrificato
esattamente come me. Fu pochi istanti dopo che la luce scomparve e
tutto riprese a scorrere come se nulla fosse successo.
***
Fossa
di Tonga, Samoa, Pacifico Occidentale,
23
Febbraio 1895
«Tirali
su!»
Il
marinaio azionò il verricello. Lentamente e con uno stridente
rumore di ingranaggi e lamine di acciaio che sfregavano tra loro, la
scaletta si abbassò, raggiungendo il pelo dell’acqua.
Uno alla volta, i tre sommozzatori si prepararono a risalire a bordo.
«Ecco
il primo, Hanson. È Sergio» gridò uno dei
marinai, che se ne stava sulla balaustra, affacciato sul mare come da
un balcone.
Hanson
Garrett se ne stava dritto in mezzo al ponte, cercando di controllare
che tutto filasse per il verso giusto. Fece un cenno deciso con la
mano.
«Aiutalo,
forza. Tiralo su».
Il
sommozzatore si aggrappò alle mani che gli venivano tese dai
compagni. Non appena ebbe scavalcato la balaustra, si accasciò
sul legno bagnato del ponte, ansante.
«Caràjo»
esclamò, guardando da sotto in su Hanson, che avanzava a passo
malfermo verso di lui. «Ma
que pasò?»
«Quien
sabe?»
commentò Hanson, tendendo la mano al secondo degli uomini che
risalivano la scaletta. «Un gran casino, questo è
certo».
«Forse
dovremmo andare a vedere che non ci siano feriti, non credete anche
voi?» disse il secondo dei sommozzatori, mentre si toglieva di
dosso l'attrezzatura.
Hanson
annuì. «Credo anch’io. Domanderò a Kurtag
se è d’accordo. In fin dei conti, è lui che guida
la spedizione».
Non
appena tutti i sommozzatori furono fatti risalire a bordo, Hanson
compilò un rapporto su quanto avevano riportato, quindi si
diresse sotto coperta. Scese la ripida scaletta dagli stretti
gradini, attento a non ruzzolare. Il passaggio era angusto e lui
poteva avanzare solo stando di lato, a causa della sua stazza.
Devo
mettermi a dieta,
pensò. Giuro
che prima o poi lo faccio. Davvero, così non può andare
avanti.
Bussò
a una piccola porta di legno. Dall’altra parte di essa, una
voce sottile e profonda al tempo stesso lo invitò ad entrare.
Un
anziano signore sui settant’anni se ne stava in piedi, con i
gomiti appoggiati a una specie di ripiano su cui si trovavano un
libro aperto, una carta geografica e diversi fogli manoscritti.
Sembrava intento a decifrare qualcosa tracciato su un foglio e se ne
stava chino, con la testa dai capelli incanutiti tra le mani.
«Prof.?»
L’uomo
si voltò, fissando Hanson da sopra gli stretti occhiali che
portava in bilico sulla punta del naso.
«Ah,
sei tu?» disse. «Stanno tutti bene?»
«Sì,
solo un po’ spaventati» rispose Hanson, e indugiò
con lo sguardo sul resto della cabina. Sembrava che tutto si fosse
rovesciato là dentro. «E lei?» domandò,
lievemente preoccupato.
«Solo
un po' di confusione, tutto qui».
Hanson
osservò dubbioso la cabina messa a soqquadro. Kurtag dava
realmente l'impressione di non essere rimasto toccato da quanto era
accaduto. Probabilmente era così immerso nei suoi studi che,
quando la mareggiata li aveva investiti, non si era accorto di nulla.
«Il
rapporto dell'immersione?» chiese il professore. Hanson gli
tese la cartellina.
«Eccolo».
Il
vecchio studiò il foglio, limitandosi ad annuire.
«Bene.
Come pensavo». disse. Quindi, soppesandolo con gli occhi:
«pensi che potremmo scendere ancora più in basso?»
Hanson
scosse la testa. «Temo che abbiamo raggiunto il limite. Ho
provato ad aggiustare le saldature della gabbia di profondità,
ma non so per quanto ancora potranno reggere».
Il
professore si morse un labbro, picchiettando la cartellina sul
ripiano di lavoro mentre guardava fuori dall’oblò.
«Questo
significa che dobbiamo tornare a casa?»
«Almeno
finché non riusciamo a trovare il modo di scendere oltre i 500
metri senza rischiare la pelle» rispose Hanson, con una
scrollata di spalle.
«Sono
convinto che prima o poi riuscirai a trovare la soluzione» fece
Kurtag ridendo. «Solo, cerca di muoverti. Non mi resta molto
tempo. Sono vecchio».
Hanson
rise. Il professore era anziano, è vero, ma ancora pieno di
energie. «Un'altra cosa,» riprese Hanson. «Ci
chiedevamo se non fosse il caso di andare a controllare...»
«Sì»
saltò su Kurtag, intuendo quello che l'altro stava per dire.
«Dirigiamoci là, magari possiamo essere di aiuto».
Hanson
annuì, quindi si allontanò, lasciando il professore ai
suoi pensieri. Non appena fu risalito sul ponte, richiamò
l’uomo addetto alle macchine.
«Rotta
est, nord est, Kyle» gli disse. «Facciamo in fretta».
Il
ragazzo scattò, prendendo la barra del timone. «Andiamo
a vedere, Han?»
Hanson
annuì. Fissava con il binocolo nella direzione in cui aveva
visto alzarsi quella immensa colonna di luce.
«Sì»
disse. «Andiamo a vedere. E che Dio ce la mandi buona».
***
Resoconto
stilato da:
Capitano
di corvetta Jacob Ketterley, Marina Reale Britannica, distaccamento
di Wellington, Oceano Pacifico.
Oggetto:
Incidente avvenuto presso Samoa, 23 Febbraio 1895
Versione
di: sottufficiale Murray, Carl, marinaio scelto, prestante servizio
sulla fregata H.M.S. Queen Victoria:
Erano
le 12 e 05 quando vidi il mozzo corrermi incontro in preda
all’agitazione. Pensai che fosse successo qualcosa di
terribile, perché mi sembrò davvero sconvolto. Per
questo decisi di seguirlo immediatamente sul ponte, per vedere cosa
fosse successo, anche perché dalle sue parole scomposte era
difficile riuscire a capire qualcosa.
Quando
fui sul ponte, mi trovai di fronte a uno spettacolo a dir poco
impressionante. Una enorme colonna di luce azzurra saliva dal mare
fino al cielo, in direzione della poppa. Era qualcosa di
incredibilmente spaventoso, perché sembrava distante almeno
una cinquantina di miglia e tuttavia era colossale. Temetti per
un’esplosione vulcanica e per un conseguente tsunami, e per
questo corsi immediatamente ad avvertire il capitano; ma non appena
questi salì in coperta, della luce non c’era più
traccia.
Ci
recammo comunque sul posto. Trovammo una serie di frammenti
metallici, sparsi tutt'intorno. Dopo poco ci raggiunse una nave cerca
relitti, o qualcosa del genere. Erano venuti a vedere anche loro
quello che era successo. Ci scambiammo alcune informazioni su quello
che avevamo visto e cominciammo a recuperare parte dei frammenti più
grandi. Poi, improvvisamente, lo vedemmo: era una luce, una specie di
faro che proveniva dal fondo dell’oceano. Lanciava un bagliore
intermittente. In un primo momento ne fummo spaventati, perché
temevamo che si potesse scatenare una seconda esplosione, ma in
realtà non accadde nulla del genere. La luce continuò
ad affievolirsi sempre più, finché non restò che
un debole scintillio. Decidemmo che era il caso di saperne di più.
Tuttavia, noi potevamo fare ben poco: non avevamo l'attrezzatura
adatta al recupero subacqueo, né una squadra immersione. Se ne
occuparono gli uomini a bordo di quella nave: possedevano tutte le
attrezzature necessarie, e anche di più. Sembravano molto
competenti, a giudicare da come si muovevano. Calarono in mare i
sommozzatori e alcune apparecchiature strane, e trovarono quella
pietra luminosa. Il resto lo sapete, non ho nulla da aggiungere a
quanto già riferito dal resto dell’equipaggio.
Solo
una cosa ancora mi perseguita, in tutta questa storia. Non riesco
davvero a capire che fine abbia fatto il tempo che sono sicuro di
aver impiegato a guardare l'esplosione. Sono assolutamente certo di
essere rimasto lì, a fissare quello spettacolo impressionante
per diversi minuti, prima di riuscire a reagire. Eppure, il capitano
afferma di avermi visto uscire dalla cabina di comando solo pochi
secondi prima che io mi precipitassi a chiamarlo. È questo che
non riesco a spiegarmi. Ma chissà, forse la mia fu solo
suggestione.
***
La
caratteristica di essere un uomo, è solo quella che lo è
per importanza.
Winston
si sforzò di capire cosa diceva quella frase racchiusa nel
quadro. Tutte le volte che si trovava a passare da lì, cercava
di capirci qualcosa, ma ogni volta gli risultava sempre più
oscura. Non che gli piacesse particolarmente. La trovava persino
stupida: per lui, una frase incomprensibile era una frase che non
voleva dire nulla.
Scrollò
le spalle. Anche il quadro non gli piaceva. Gli dava i brividi. Certo
che ce ne voleva di pessimo gusto, per appendere una roba del genere.
Uno scheletro umano era raffigurato seduto su un trono, con in mano
una enorme spada, mentre nell’altra reggeva una bilancia di cui
si serviva per pesare alcune monete d'oro. Sotto ai suoi piedi
ossuti, su una pergamena srotolata, si poteva leggere la frase
misteriosa, quasi fosse stata messa lì a mo' di commento. O
almeno così Winston aveva sempre immaginato.
Il
ragazzo guardò il grosso orologio a pendolo appoggiato alla
parete. Le tre meno cinque. Ormai era ora.
Si
alzò e si aggiustò la giacca. Quindi si incamminò
a passo calmo e deciso lungo il corridoio. I suoi passi echeggiavano
tra il pavimento di marmo rosa e le pareti imbiancate. Tenne lo
sguardo fisso avanti a sé, anche perché non c’era
proprio nulla da guardare, se non la grande porta di quercia in fondo
al corridoio.
Era
come percorrere una sorta di lungo e stretto budello: Winston sentì
un brivido corrergli lungo la schiena. Accadeva tutte le volte che
doveva andare in quel posto maledetto.
Si
fermò davanti alla porta. Si passò una mano sui capelli
impomatati, si spazzolò la giacca e si sistemò la
cravatta. Non appena ebbe bussato, una voce calma e scura rotolò
da dietro il legno spesso, invitandolo ad entrare. Come sempre, il
ragazzo vide l’uomo seduto alla grande scrivania di mogano
avvolto in una nuvola di fumo denso, il sigaro stretto tra le dita
ingiallite dal tabacco.
«Puntuale,
come sempre. Bravo».
Il
ragazzo sorrise, impacciato.
L’uomo
sospirò e una densa nube di fumo uscì dalle sue labbra.
Tra le mani teneva una cartellina, su cui il giovane riuscì a
leggere frettolosamente “Resoconti”. Non appena l’uomo
alla scrivania se ne accorse, chiuse la cartellina in un cassetto,
con un sorriso smaliziato.
«Prenda
questa» disse, porgendogli una busta sigillata con la
ceralacca. La carta era immacolata, senza alcuna scritta. «La
consegni al solito indirizzo».
Il
ragazzo si inchinò ossequioso, quindi fece per voltare le
spalle e andarsene, come al solito.
«Aspetti».
Lui
si fermò, una mano sulla maniglia. «Signore?»
«Lei
è bravo» disse l’uomo, dopo un brevissimo istante.
«Continui così e farà strada. Ma ricordi: mai
rivolgere una domanda su quello che vede qui, né a se stessi,
né ad altri; mai parlare di quello che vede qui, né con
se stessi, né con altri».
L’uomo
aspirò una boccata di fumo caldo. Quindi la trattenne per
qualche istante, per poi soffiarla fuori dalle labbra, lentamente e
con disinvoltura.
«Intesi?»
«Sì,
signore» rispose, il giovane. «Grazie».
L’uomo
annuì. «Può andare, Churchill».
E
con un ultimo inchino, il ragazzo se ne andò.
|