Londra,
1 Giugno 1895
Con
gli occhi ancora pieni di sonno, Nadia allungò la mano in
cerca della sveglia, muovendola stancamente sul ripiano del comodino.
Procedeva a tentoni: un libro, no, quello era un bicchiere... il vaso
con i fiori, regalo di compleanno del suo fidanzato, che oscillò
pericolosamente.
Appellandosi
a tutte le forze di cui poteva disporre in quel momento, Nadia si
slanciò ad afferrarlo, nel disperato tentativo di impedire a
quel fragile simbolo d'amore di infrangersi sul pavimento di mattoni
rossi. Rose rosse su mattoni rossi.
Che
ironia.
Non
che lei non lo apprezzasse, ma lo trovava un regalo un po' prosaico.
Però, la serata che Jonathan aveva organizzato per
festeggiarla era stata davvero deliziosa: cena ad un esclusivo quanto
scandalosamente caro ristorante; gita in carrozza lungo l’Embakement,
al lume dei pallidi bagliori che dai Docks si riverberavano nel
Tamigi, trasfigurando le placide acque del fiume in uno strascico
d’avorio e di cera, baluginante di strass;
e poi baci fino a tarda notte, lungo la strada che riconduceva alla
piccola mansarda in Foley street a cui Nadia, in sei anni di vita
londinese, non era mai riuscita a dir addio.
Eppure
l’occasione l'avrebbe avuta ora, visto che dopo anni di fatiche
aveva finalmente coronato il suo sogno. Ogni giorno, infatti,
chiunque avesse acquistato il Times, vi avrebbe trovato la firma di
Nadia Ra Arwol stampata in prima pagina. Era un bel successo per una
ragazza di ventun anni, giunta a Londra senza un soldo; e
soprattutto, senza aver la benché minima idea di cosa fare
della propria vita.
L’unica
cosa che Nadia sapeva per certo, quando aveva messo piede per la
prima volta in Inghilterra, era che doveva trovare la propria strada,
a qualunque costo. Per tutta la vita aveva lasciato che fossero altri
a scegliere per lei, finché sentì che era giunto il
momento di dire basta. Doveva prendere in mano la sua vita, anche se
questo avesse voluto dire allontanarsi da tutte le sue certezze:
privarsi di tutto per costruirsi qualcosa che fosse solo suo, con le
sue sole forze. Non avrebbe mai immaginato che ciò l’avrebbe
portata a cancellare il proprio passato in vista di un nuovo futuro,
altrimenti non sarebbe mai riuscita a partire. Eppure, era andata
proprio così.
Quando
lasciò Le Havre era il 1890. Aveva solo quindici anni. Una
giovane sconclusionata che attirava su di sé il sospetto e la
curiosità per la sua pelle scura. Non aveva una storia, non
aveva una famiglia o qualcuno che garantisse per lei. Tutto quello
che si portava dietro, era un semplice legame d'amore, qualcosa di
così innocente e puro che mai avrebbe pensato potesse
infrangersi.
Jean...
Per
lei, lui era tutto. E così partì, credendo di poter
legare a un nome la sua vita. Pensava di averne la forza, e il
potere. Eppure, nonostante il sentimento che in lei risvegliava
costantemente il ricordo dell'unica persona che fino ad allora
l'avesse veramente amata e che lei veramente amò, la distanza
la sopraffece; e un giorno Nadia si ritrovò cresciuta, lontano
da quelli che erano stati i suoi affetti, circondata da nuovi amici e
da una nuova vita.
Incapace
di far fronte alla situazione aveva provato a mentire a se stessa. Ma
la vita, alla fine, la costrinse a venire allo scoperto e a saldare i
conti con la realtà. Per quanto dura potesse essere da
accettare.
L'incontro
con Jonathan segnò l'avvio di un nuovo corso, per lei. Il
lavoro aveva preso ad andare piuttosto bene. Erano passati i tempi in
cui veniva relegata a raschiare i fondi del caffè o a comprare
le sigarette. Da tempo non le veniva ordinato di mettere a bollire
l'acqua per il tè e nessuno, ormai, le avrebbe più
chiesto di decifrare gli appunti che qualche redattore aveva
fortunosamente tracciato a stilografica su un rotolo di carta
igienica: Nadia era diventata cronista.
Fu
un colpo di fortuna. Di quelli che non ti aspetti e che, se non stai
attento, ti danno alla testa. Ma Nadia era stata attenta a non
montarsi la testa, abituata com’era a non lasciarsi mettere nel
sacco dall’ingannevole luccichio di cui a volte risplende la
vita.
Avvenne
così, inaspettatamente. Jeremy Hunter, il direttore del
giornale, aveva notato il carattere determinato e l’incredibile
testardaggine della ragazza tanto che, un bel giorno, si prese
persino il disturbo di leggere i suoi articoli. Scoprì che non
erano poi del tutto male. Cominciò a seguirla silenziosamente
nella sua carriera, vagliandone i risultati. La sottopose a
innumerevoli prove. La aspettò al varco. Finché, un
giorno, la convocò nel suo ufficio.
«È
un po’ che ti osservo» le disse, squadrandola.
Nadia
non rispose nulla. Ancora non sapeva come avrebbe dovuto reagire. Era
la prima volta che parlava con il direttore.
«Non
hai nulla da dire?»
«Riguardo
a cosa?» azzardò lei.
«A
quello che ti ho appena detto».
Lei
si strinse nelle spalle, confusa. «Io... non so che dire...»
«Beh,
te lo dico io, allora. Mi sembri in gamba. O almeno lo sembravi, fino
a tre secondi fa».
Nadia
se ne stava tesa, in ascolto, il corpo ridotto a un fascio di nervi.
«Comunque,»
continuò lui con un sospiro, scrutandola di sottecchi «ho
pensato di affidarti qualcosa di più importante che fare il tè
o intervistare la vincitrice del premio per l’orlo a giorno.
Che ne pensi?»
«Che
è fantastico, signor direttore» esultò lei, e
sorrideva così tanto che le facevano male gli angoli della
bocca.
«Bene,
comincerai da subito. Voglio un tuo pezzo sulla crisi coloniale...»
Hunter estrasse dal taschino un grosso orologio, che si aprì
con uno scatto. Lui lo guardò torvo, per poi spostare su Nadia
il suo sguardo accigliato. «Oggi c’è una
conferenza al ministero degli esteri. Alle cinque. Vai, torna e
scrivi. Tutto chiaro?
Nadia
non riusciva a credere alle sue orecchie. Era un articolo da prima
pagina. «Volo!» esclamò, al culmine
dell’eccitazione.
«Non
farmi pentire, Ra Arwol, intesi?» le abbaiò dietro. «Già
avrò i miei grattacapi a far digerire alla gente quel tuo
cognome assurdo...»
Nadia
sorrise e schizzò fuori dallo studio, non senza aver
nuovamente ringraziato il suo
direttore. Chi se ne importava se l’aveva presa in giro per il
cognome? Aveva un articolo come si doveva, finalmente! E al diavolo
l’orgoglio famigliare.
Certo,
mentre correva entusiasta lungo Whitehall, Nadia non poteva
immaginare che quella circostanza avrebbe segnato l'inizio della sua
nuova vita visto che, proprio in quell’occasione, avrebbe
trovato nel giovane segretario alla difesa, Jonathan Fisher, l'uomo
per cui avrebbe detto definitivamente addio a tutto quello che ancora
la legava al suo passato. E certo, nessuno poteva immaginare che, da
lì a un anno, il cognome di Nadia sarebbe stata la molla che
avrebbe fatto raddoppiare le vendite al giornale per cui lavorava.
Perché un anno dopo, quando la pubblicazione in stralcio del
suo romanzo Una
vita avventurosa
apparve sul Times Literary Supplement, fu un successo inaspettato e
travolgente.
Era
il 1894 e Nadia era lanciata verso il successo. Per l'occasione, il
direttore la convocò nel suo studio.
«Ancora
non capisco come la mai la gente legga le tue scemenze» grugnì,
«ma chi sono io per discutere i loro gusti?»
Nadia
non era sicura di apprezzare il termine scemenza, per descrivere due
anni di duro lavoro. Era però certa di apprezzare le valanghe
di lettere che le giungevano da ammiratori e ammiratrici entusiasti.
In particolar modo ammiratrici, perché senza volerlo, quella
ragazza sola, straniera e senza un soldo, cresciuta orfana in un
circo fino a quando di anni ne aveva quattordici, era diventata
l’icona simbolo di tutte quelle donne che, in quegli anni a
cavallo di due secoli, cercavano di ritagliarsi un posto in un mondo
che ancora le voleva relegate ai margini. Erano quelle donne, madri,
amanti e adolescenti che non accettavano più di vivere una
vita di indifferenza e solitudine, ma che reclamavano il diritto a
nutrire i propri sogni, ribellandosi a quell’universo maschile
che le circondava opprimendole, e che negava loro tutto ciò
che esulasse dal dover essere madre, moglie, figlia, sorella e donna.
Fu
così che Nadia divenne la firma più ricercata del
Times. Le raddoppiarono la scrivania – nel senso che gliene
diedero una: prima doveva scrivere in sala bozze, appoggiandosi dove
capitava – ma l’unica cosa che non raddoppiò fu,
però, lo stipendio. In fondo, una cosa era fare il cronista;
un’altra fare i soldi facendo il cronista.
A
Nadia, però, non è che i soldi interessassero, non
veramente. Tutto quello di cui gioiva, era il successo che finalmente
le sorrideva. Era qualcosa che si era costruita da sola, lottando,
subendo, ingoiando rospi grandi come balene. Ma alla fine ce l’aveva
fatta, grazie alla sua forza e alla sua determinazione. Senza mollare
mai, aveva dimostrato a se stessa che poteva farcela. Lei chiamava
successo tutto questo. Un successo da quindici sterline al mese. E
che il resto andasse a farsi benedire.
E
poi, anche se avesse guadagnato montagne di soldi, non sarebbe mai
riuscita ad abbandonare i luoghi miserandi che avevano fatto da
cornice alla sua vita a Londra per tutti quei cinque, quasi sei
lunghi anni. Jonathan aveva spesso insistito perché lei
lasciasse il quartiere in cui ancora viveva, così poco
indicato a una ragazza sola e carina come lei. Lui, segretario del
ministro alla difesa, proveniva da una famiglia di importanti
personalità del mondo della politica e dell’economia. A
casa sua le maniglie alle porte avevano probabilmente più
valore dell’intero stabile in Foley Street in cui Nadia
alloggiava, ma la cosa non è che le importasse più di
tanto. In realtà, quello di cui Jonathan non si rendeva conto,
era che quella sicurezza ostentata da Nadia nel “suo”
quartiere, era legata a quel particolare tipo di disperazione che
nella sofferenza diventa la panacea per tutti i mali. Sei tranquillo
perché sai che persino i delinquenti sono più ricchi di
te, e che tu non hai nulla che possa in qualche modo interessarli.
Nella
solitudine di quelle strade, chiuse da squallide roccaforti popolari
in mattoni rosso ocra, di quelli che se ti appoggi ti tingono le mani
e i vestiti, nessuno toccava nessuno ma tutti, alla fine, si
occupavano di tutti. E così, Nadia aveva imparato a conoscere
nome per nome i suoi vicini di casa, e ad amare quelle caserme dalle
finestre vuote e dai mattoni rossi ingrigiti dal fumo, che al loro
interno accoglievano interi reggimenti di diseredati. Amava le strade
dagli acciottolati sconnessi, e gli alberi spogli che si levavano
verso il cielo come in un gesto di muta disperazione e supplica. Per
quanto triste, lei amava tutto di quel luogo, perché sapeva
quanta vita si celava, in realtà, dietro quell’apparente
morte.
E
mai cuore o anima pulsava più vivamente, quando d’estate
le donne del quartiere si raccoglievano sui gradini, o intorno a
un’aiuola. In quei momenti, Nadia le raggiungeva, i piedi nudi
per sentire il calore che emanava la terra; e sedendosi accanto a
loro, in cerchio con loro, quante storie! Quanti i racconti e quante
le passioni che ardevano allora nel comune falò dei ricordi,
rispolverate dalle loro ceneri sotto il sole che al tramonto
infuocava le facciate nude degli edifici e le case di mattoni in
terra bruciata; lì, voci solitarie srotolavano come su un
tappeto ricordi mai sopiti e passioni mai domante, universi femminili
che Nadia non aveva mai neppure immaginato: solo allora scoprì
come la vita, l’amarezza di un rimpianto, il sogno e la
speranza spesso si raccolgano dietro un sospiro come tesori, come
gemme, pronte a risplendere qualora le si riporti alla luce.
In
quelle occasioni, Nadia sospirava alle parole vaghe di quelle donne,
e sognava con esse. E pensava, insieme a esse, chissà...
Chissà
se lui, ancora...
Lui,
ormai lontano, nulla più che un ricordo. Eppure, quanta
inspiegabile emozione a quel ricordo.
Questi
pensieri la sorpresero ormai completamente sveglia. L'orologio era
accanto alla sua mano, ancora stretta intorno all’ingombrante,
bellissimo vaso di rose che occupava tutto il comodino. Nadia notò
che stonava un poco con l’arredamento austero e al limite dello
stile minimal – carcerario con cui aveva economicamente
arredato la casa. Un tocco di lusso che bucava la vista come una
macchia scura su una veste candida. Forse avrebbe dato meno fastidio
fuori dalla finestra.
Si
mise a sedere sul letto, poggiando i piedi nudi sul pavimento di
mattoni sbeccati. Un brivido la percorse tutta. Sollevò le
punte dei piedi, lasciando poggiati solo i talloni.
Troppo
freddo, ancora. Eppure siamo a Giugno.
Ma
quando arriva l’estate?
E
le riunioni davanti alle aiuole, con i bambini che intanto giocano
alla settimana lungo i marciapiedi sconnessi, tra gli alberi carichi
di foglie...
...e
nell'aria il profumo caldo dei tigli...
Nadia
si liberò delle coperte. Si stiracchiò e si accorse che
nella mano teneva la sveglia. La guardò distrattamente.
Le
nove e un quarto.
Come?
Fissò
per qualche istante il quadrante, credendo di aver letto male. No.
Erano proprio le nove e un quarto.
Si
precipitò giù dal letto alla velocità del
fulmine. Aveva un ritardo pazzesco, doveva essere in redazione per le
otto. Il direttore l’avrebbe uccisa.
Si
sciacquò la faccia e raccattò velocemente gli abiti
sparsi in giro per la stanza. Perché non aveva riordinato,
prima di coricarsi? Non se lo ricordava. Anzi, a dire la verità
non si ricordava molto di quello che era successo una volta che si
era separata da Jonathan. Indossava ancora il corsetto, sotto alla
camicia mezza slacciata. Se ne accorse solo ora.
Non
aveva tempo per porsi domande inutili. In fondo, quel fastidioso
cerchio alla testa che le stava uscendo a tormentarla, era una
risposta più che chiara. La prossima volta, avrebbe fatto bene
a non eccedere nei festeggiamenti.
Si
allacciò la camicia e si infilò la gonna, che trovò
abbandonata sulla sedia; glissò invece sulla sottoveste, che
non trovava.
Le
scarpe...
Trovata
la prima, sotto al letto. Mancava una.
Nove
e venticinque.
Se
non trovava la scarpa in cinque secondi, andava scalza.
Si
chinò a terra. Nulla sotto il letto. Nulla sotto alla
scrivania.
Eccola,
sotto all’armadio.
Nadia
evitò di domandarsi come ci fosse finita. Certe cose meglio
lasciarle avvolte dal mistero.
Si
annodò velocemente un nastrino al colletto e si infilò
la giacca di velluto rosso. Raccolse in una semplice coda i capelli
che portava tagliati alle spalle, così lisci e neri che
riflettevano bagliori come d’azzurro. Si pettinò la
frangia, che le ricadeva di lato sulla fronte e agguantò il
cappello. Dopo essersi concessa un breve sguardo d'insieme, cercò
di convincersi che il suo aspetto era più che soddisfacente e
si precipitò fuori dalla piccola mansarda ormai inondata dal
sole. Pochi istanti dopo, stava già correndo lungo le strade
anonime che circondavano Tottenham Court road, tra gli sguardi
contrariati delle signore perbene e quello smarrito dei rispettivi
mariti.
Volava
lungo i viali, intorno a lei macchie di verde e di rosso. Non si
udiva il vociare dei bambini, ma solo il confuso latrare dei mercanti
alle bancarelle, poco lontano. Ma non aveva tempo di fermarsi a
parlare con loro, oggi. Doveva correre.
Correva
per recuperare il suo ritardo, ma Nadia correva anche perché
amava correre. Lo faceva ogni giorno, come da bambina, quando era
acrobata al circo. Aveva ancora la stessa agilità, e il suo
corpo possedeva la stessa tonica bellezza di allora. Solo i ricordi
cominciavano a sembrare diversi, e con essi i giorni.
Sfrecciò
accanto a dame a braccetto di giovani magistrati rampanti e davanti a
uomini in tight che leggevano il Financial Times su panchine di ghisa
e di legno. Laggiù in fondo si scorgeva già Fleet
street, con le sedi dei quotidiani addossate una all’altra,
come a spifferarsi le notizie. Ma intanto Bloomsbury, il quartiere
bohemien;
uomini indaffarati, studenti, letterati e poeti che accalcavano i
caffè si succedevano indistinti in quello che è il
quartiere più alla moda di Londra, ma che quando era arrivata
Nadia non era altro che un normale quartiere di periferia, dove
l’eleganza si ferma ai cancelli e dove gli occhi non vedono
l’angoscia che si cela dietro l’angolo delle strade, come
indugiando su una soglia sconosciuta; un luogo dove la normalità
si ferma alle case dalle porte di legno smaltato e alle facciate di
mattoni in stile Georgiano.
Nadia
correva, lasciandosi ogni cosa, ogni pensiero alle spalle. Non si
sarebbe fermata per nessuno. Correva con la mente e col cuore lungo
vie che conducevano a una Londra lontana da quel luogo di semplicità
e di rassegnazione in cui viveva, verso un luogo lastricato di sogni
per tutti e per nessuno.
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