Shot
And you until where you can
forgive?
Fino a dove
possiamo perdonare noi umani?
Siamo
abbastanza forti da passare sopra gli errori di altri che ci hanno distrutto
dentro?
Siamo
abbastanza forti da affidarci a qualcuno che, anche se ha già sbagliato, ti dice
che i suoi sentimenti sono veri e ti chiede perdono?
Siamo
abbastanza forti per porgere l'altra guancia?
Io ho
scoperto di non esserne capace.
Io lo amavo,
lui amava me, abitavamo felici nel nostro piccolo appartamento che mantenevamo
con qualche sacrificio: questo è tutto ciò che mi bastava per essere
felice.
Poi è
arrivata l'altra.
Bassina,
mora, viso delicato, occhi grandi ed espressivi, corpo minuto ma perfettamente
proporzionato.
Una donna
molto bella.
La prima
volta che l'ho vista eravamo ad una festa di amici, un anniversario di
matrimonio per essere precisi, e lei era la sorella dell'amico del fratello di
qualcuno di ignoto.
La guardavo
da lontano come si può vedere un qualsiasi estraneo dall'alto della propria
felicità, una piccola formica che ti attraversa la strada e tu quasi neanche la
vedi.
Il mio lui
ed io felici e sorridenti, innamorati persi, perennemente appiccicati, siamo
stati presentati alla suddetta sconosciuta, e solo allora il mio sguardo si fa
più attento, ma completamente immune da un qualsiasi pensiero
maligno.
Oh che
persona virtuosa, penserete voi.
No, niente
affatto. Semplicemente era troppo lontana, troppo sfuocata, ed io troppo felice
per pensare a qualcosa di sospetto.
Notai che il
rosso le donava molto, e considerai che anche il bianco le sarebbe stato
divinamente.
Feci un
commento con una amica di fianco, le dissi “Non riesco a capire come possa
camminare su quei trampoli, beata lei che se li può permettere.”
Si, perchè
io non me li posso permettere.
Sono alta un
metro e settantacinque, mettermi i tacchi troppo alti sarebbe un problema per il
mio fidanzato (all'epoca), che è alto uno e ottantasette.
Dopo questi
pensieri, poco più che inutili, nulla muto nella mia vita, nella
nostra vita.
Almeno fino al mese successivo.
Era Ottobre, il mio compleanno, e lui mi svegliò
con un malizioso bacio sul collo, sapeva che quella mattina sarebbe stata una
delle poche in cui mi sarei svegliata con il piede giusto.
Ero raggiante nei miei nuovi 27 anni e non
vedevo l'ora di farmi un bel regalo: fare l'amore con lui.
Voi non lo potete sapere, ma io ottengo sempre
ciò che voglio, quindi non aspettai neanche di svegliarmi del tutto.
Gli afferrai le spalle, diedi una spinta con i
reni, e dopo esserci rotolati un po' nelle lenzuola, arrivai sopra di
lui.
Un bacio sulle labbra, un “buon giorno”
sussurrato per non infrangere quella perfezione, poi lo baciai con passione,
scordandomi di piccoli dettagli inutili come non essermi ancora lavata i denti:
ho un alito terribile la mattina appena alzata.
Fortuna volle che anche lui se ne scordò e mi
baciò a sua volta con passione, quasi con fame.
Seguivamo i nostri ritmi, la nostra danza
personale, aggiungendo qualcosa in più ogni volta e allo stesso tempo non
cambiando mai.
Forse a voi potrò sembrare solo una piccola
sciocca innamorata, che neanche pensa alla possibilità che magari lui non era un
così bravo amante (ed avreste ragione) ma non sono mai stata un angioletto, a
dispetto dei miei boccoli di uno strano biondo-castano con riflessi ramati (in
pratica un miscuglio di tinte a forma di cespuglio) e degli occhi cerulei, che
cambiano secondo l'umore e quindi secondo il tempo.
Molto affascinante, penserete, il problema è che
spesso (troppo spesso) hanno una sfumatura grigio ghiaccio e piccole pagliuzze
azzurre che indicano “scazzata”.
Oh, mi sono scordata una cosa: a volte parlo
peggio di uno scaricatore di porto.
Ma non divaghiamo, in fondo crogiolarsi un po'
di più in quel dolore nostalgico che ti dilania il petto mentre ripensi a quello
che tu ritenevi fare l'amore è sempre piacevole.
Lui fu costretto a cambiare lavoro, perchè la
fabbrica in cui era impiegato stava chiudendo, e con i miei piccoli impieghi da
apprendista guadagnavo appena i soldi per l'affitto e per i viveri.
Il destino (o fato, o Dio, o Buddha chiamatelo
come cazzo vi pare) lo fece entrare proprio nel reparto di quella tizia, che tra
l'altro aveva un nome: Ginevra.
“Che coincidenza: ho sempre odiato il nome
Ginevra!” dissi a cena il giorno in cui mi disse i numi dei suoi nuovi
colleghi.
La nostra vita scorreva piacevolmente
tranquilla: la mattina ci alzavamo, ci spostavamo per casa in perfetta
sincronia, ognuno andava al proprio lavoro e fino alle 6 di sera non ci
vedevamo.
Io in realtà rientravo alle 5, ma lui finiva il
turno alle 5 e mezza.
Preparavo la cena mentre lui apparecchiava, una
chiacchiera qui, un pettegolezzo là, qualche bacio scambiato al volo, e a volte
un veloce amplesso consumato sul piano da lavoro della cucina.
Poi coccole e film, o in alternativa un uscita
con gli amici, poi di nuovo quella perfetta sincronia negli spostamenti prima di
andare a letto e di nuovo facevamo l'amore, in ogni modo possibile.
La perfezione... che per antonomasia non
esiste.
Un giovedì mattina lui escì, come al solito,
arrivò in ufficio e la sua superiore, Ginevra, gli disse che avrebbero dovuto
fare una relazione per la mattina successiva.
Ovviamente il tempo non bastò e lui mi chiamò
alle 4 per dirmi che quella sera non sarebbe tornato per cena, proprio per
finire quella dannatissima relazione.
Era il 10 Ottobre.
Ventitré giorni dopo, io sono dai miei genitori
per le feste, e lui mi raggiunge con un giorno di ritardo “Scusa Elena, ma mi
sommergono di lavoro. Meno male che almeno forse così mi guadagno la
promozione!”
Certo, la promozione. In fondo quando ti scopi
il capo è facile salire di livello.
In quel giorno di ritardo arrivarono i primi
dubbi.
La sincronia che ogni tanto stonava, alcuni suoi
sguardi troppo stanchi, troppo malinconici, quegli occhi così marroni erano
troppo tormentati per essere quegli di un uomo felicemente in compagnia della
donna che ama e con solo un po' di lavoro in più.
Il fatto che ultimamente il nome Ginevra
comparisse troppo spesso nei discorsi, come troppo frequenti erano gli
straordinari e le chiamate di emergenze.
Secondo voi che emergenze ci possono essere,
durante una domenica sera, per costringere un semplice addetto ai conti e alla
rilegatura dei fascicoli a scappare per correre due ore in ufficio? Per poi
tornare con un sorriso troppo largo per uno che si è perso la serata di “giochi”
con il suo amore.
La cosa che mi consolò quella volta fu il vedere
il suo sorriso che si trasformava in una smorfia piena di sentimenti
contrastanti che sapevano di profondo travaglio interiore.
Perchè lo avevo intuito, anche se non ci volevo
credere.
Sfortunatamente non sono mai stata stupida, e
tutto quell'acume si riversò proprio nel giorno in cui lui non c'era e non
poteva ammaliarmi con la sua bocca carnosa, le sue spalle larghe e i suoi
scombinati capelli castani che sapevano del mio shampoo.
Mi auguro che voi non abbiate mai provato quello
che ho provato io.
Quando il giorno dopo (il quattro novembre)
arrivò a casa dei miei, ci dileguammo nella mia piccola depandance per
recuperare il tempo perduto.
Fu orribile.
Sentivo quelle mani che fino a due giorni prima
mi facevano andare in visibilio con il loro calore, diventare fredde e viscide,
distanti, mentre compievano gesti quasi meccanicamente.
Sentire che quando lo accarezzavo la sua pelle
portava graffi che non gli avevo fatto io, e poi quando entrò in me sentirmi
tradita, fragile e sola.
Sentirmi sporca perchè mentre facevamo l'amore
dovevamo essere io e lui, i nostri odori e le nostre pelli, senza nessun profumo
costoso a mischiarsi al nostro sudore.
Rimanemmo distesi sul letto, io rannicchiata di
lato, rivestita in fretta e furia con gli slip e una maglia vecchia, per non
essere indifesa, senza nessuno scudo davanti alla lancia che sta per
uccidermi.
A quando pare una maglia non fu uno scudo
sufficiente, e l'essere orgogliosa, testarda, indipendente e troppo frettolosa
non aiutò.
“Sai perchè odio il nome Ginevra?” Lui era
disteso accanto a me, disteso a pancia in su, con solo il piumone blu a
coprirlo. “Una volta, in quinta elementare, una bambina di quel nome dette un
bacio a quello che all'epoca era l'uomo della mia vita e lui le cominciò a
scodinzolare dietro, mandandole bigliettini durante le lezioni. Lei era così
perfetta, così minuta e aggraziata, i capelli perfettamente neri, lisci e
lucidi, il sorriso tutto zucchero. Mi sentivo una specie di brutto anatroccolo,
e non vedevo l'ora di crescere per diventare un cigno come mi spettava di
diritto, e sbatterle in faccia che io ero più bella e che il mio ragazzo era
meglio del suo.”
Il silenzio divenne più pesante che mai, mentre
mi sentivo sempre più fredda e lontana, tutto intorno a me era un eco indistinto
e la vista mi si offuscava da lacrime che non volevo versare davanti a
lui.
“L'ho lasciata. Ieri sera. Non ce la facevo più.
Tornato a casa vedevo i tuoi occhi fasi sempre più tristi e quando ti dicevo che
c'era un emergenza e dovevo andare a lavoro potevo sentire il tonfo del tuo
cuore per terra. Era peggio di una tortura. Non so neanche perchè l'ho fatto. Mi
conosci, non sono mai stato tipo da tradire ripetutamente: se tradisco una volta
il giorno dopo mollo quella vecchia per quella nuova. Ma non potevo lasciare te,
non mi riusciva, e allo stesso tempo quando la vedevo mentre si sedeva sulla mia
scrivania, con la gonna troppo corta... non riuscivo a fermarmi. Hai sempre
avuto ragione in fondo, gli uomini ragionano solo con una cosa, anche se in
alcuni casi preferirebbero tagliarselo.”
No, non è una stronzata, l'ha detto
davvero.
Tra noi c'era sempre stata questa sfida: io una
irriducibile femminista e lui uno stronzo sciupa femmine. Io sostenevo che gli
uomini ragiono solo con il cazzo senza neanche rendersene conto: sono minorati
poverini, non è mica colpa loro.
Mentre lui sosteneva che sì, ragionano con il
cazzo, ma solo perchè lo decidono loro e noi glielo permettiamo.
Avevamo e abbiamo ragione entrambi, ma
quell'arringa l'avevo vinta io, anche se non avevo smesso un minuto di sperare
in una sonora sconfitta.
Per una volta sarei stata capace di gioire
mentre mi arrendevo.
Maledetta me, lui e il nostro amore un po'
troppo litigarello.
Non l'ho perdonato ed ora vivo con un piccolo
bimbo che è la fotocopia sputata di suo padre, a trentuno anni piango ancora il
mio lui, che si è trasferito in un'altra città.
Soprattutto vivo con l'eterno rimorso di non
averlo perdonato (perchè mi amava davvero e io lo so), per non avergli detto che
il 25 di Dicembre ho scoperto di essere incinta, e per la consapevolezza che se
lo avessi perdonato lui non mi avrebbe più amata, perchè non sarei più stata
io.
Salve.
Questa è una piccola shot, scritta di getto
dopo un finale troppo triste e il ritorno di chi non avrei voluto rivedere mai
più.
Posso dire che nel complesso è una storia
inventata, tranne alcuni piccoli dettagli e il senso generale della
storia.
Io davvero non sono riuscita a
perdonare.
Dopo questa piccola spiegazione vi lascio,
sperando che la storia sia stata di vostro gradimento.
Sara.
P.S: i commenti sono ben
accetti.
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