That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Mirzam - MS.008
- Breaking Down Your Will
Mirzam
Sherton
Doire, Irlanda del Nord - merc. 15 ottobre 1968
La luce filtrava attraverso il vetro, riversandosi
su di noi e illuminando, liquida e azzurrina, l’ambiente
oscuro che ci circondava; di là del cristallo, sinuosi,
nuotavano alcuni pesci tropicali. Spostai lo sguardo alla mia sinistra
fino a incrociare il suo viso: gli occhi chiari di Sile seguivano
affascinati una creatura dalla pelle opalescente, con una lunga coda
variopinta che si agitava lenta, simile a un ventaglio; le luci
“al neon” davano un tono di azzurro anche alla sua
pelle chiara e a quelle lentiggini, che richiamavano in me ricordi di
baci rubati in riva al Lago Oscuro.
E ora…
Sospirai: era già un miracolo che avesse accettato di
vedermi. Sile alzò gli occhi verso di me: la stanza era
vuota, avrei voluto baciarla, ma lei sollevò la sinistra e
accarezzò, leggera e malinconica, la barba rossiccia che
avevo iniziato a farmi crescere. Rimasi a respirare il suo profumo,
mentre già scorreva via, dandomi le spalle. Era
così vicina, eppure la sentivo irraggiungibile, non mi
capacitavo di quanto tempo avessi perso, di quanto fossi stato sordo
alla voce del mio cuore, che per anni aveva cercato, invano, di
guidarmi saggiamente. Si era avviata in silenzio verso
l’ambiente attiguo, io la seguii come un cucciolo
nell’ultima sala, dove campeggiava una vasca più
piccola, con dentro appena due pesci: dai nomi altisonanti capii che
erano gli esemplari più preziosi dell’acquario di
Doire. Il custode ci controllava da lontano: eravamo gli unici ospiti
di quel giorno, probabilmente gli unici da molti giorni; Sile, conclusa
la visita, si voltò e gli sorrise, poi gli lasciò
una lauta mancia “Per la causa” facendo un gesto
che non compresi, ma che l’uomo parve apprezzare, tanto da
abbandonare l’espressione astiosa che mi aveva rivolto,
quando aveva intuito che non ero irlandese.
Uscimmo e fummo colpiti a tradimento dall’aria gelida e umida
che scendeva da nord. Il pomeriggio stava sfiorendo in un tramonto
velato dalle nebbie, comparse come spettri dalle acque placide del
Foyle, la gente si ritirava al sicuro nelle proprie case, chiudendo
senza indugi le porte dietro di sé, le strade,
già lugubri, erano presidiate dai soldati: da alcune
settimane il governo babbano di Londra aveva mandato a Doire
l’esercito, per “garantire sicurezza alla
popolazione”. Mi sollevai il bavero e strinsi Sile a me,
protettivo: non avevamo nulla da temere, ma attraversare quella piazza,
circondata da alberi morti, sotto lo sguardo inquietante di quei
babbani armati, sollecitava il mio istinto di sopravvivenza. Sile,
invece, non appariva preoccupata: quando alzò sul capo il
foulard scuro, pensai che, stretta nel suo trench tortora,
assomigliasse ad Audrey Hepburn in “Sciarada”, uno
dei film che avevamo visto insieme in un cinema di quella
città, pochi anni prima. Sembrava fosse passato un secolo.
“Ti va di prendere qualcosa da
Eogan, mentre parliamo?”
Annuii, un po’ preoccupato dal suo tono serio ma non
ribattei, la seguii al ponte vecchio che collegava la riva occidentale
a quella orientale del fiume: le nostre figure si camuffarono nella
nebbia, rapide, e nessuno si accorse del passaggio che si
aprì davanti a noi, tra le pietre millenarie.
Bastò sfiorarle con il palmo e la magia ci
materializzò alle porte di “An
Feabhail”, che sorgeva sull’estuario del Foyle fin
da epoche remotissime: il varco si richiuse alle nostre spalle e, come
se un sipario nero fosse stato sollevato davanti ai nostri occhi, il
villaggio si aprì dinanzi a noi. La Doire magica sorgeva su
quelli che, ad occhi babbani, sembravano ettari di terreno brullo e
abbandonato, su cui nascevano alberi rinsecchiti e ritorti, funghi
velenosi e muffe malsane; un territorio sempre avvolto da una nebbia
innaturale e pesante, inadatto a qualsiasi uso umano. Agli occhi di chi
poteva vedere, però, quella desolazione ospitava un centro
ricco e fiorente, fatto di piccole case allineate, già
addobbate per “Samhain”, il sabba di fine mese,
disposte attorno a una piazza pentagonale su cui si aprivano le
attività commerciali del mercato più vivace
dell’isola. Da lì partiva il corso pieno di
vetrine illuminate, che culminava nella piazza principale, dove
torreggiavano l’ospedale, dalle candide linee vittoriane, e
la “Cancelleria”, l’edificio pubblico
più antico di An Feabhail, risalente all’epoca in
cui molti maghi del Nord fuggirono in Irlanda e rifondarono, in quella
terra ospitale, le loro famiglie sterminate durante le prime guerre
magiche. Austero e nero come la pece, decorato con mascheroni e
gargoyles, aveva un’aria cupa e sinistra a testimoniare le
originarie funzioni di carcere e luogo di tortura, in cui furono
giustiziati i rinnegati che avevano causato la morte dei confratelli:
sul portale era ancora impressa la forma della spada di Hifrig, il
simbolo dell’amministrazione della nostra giustizia. Ormai
era usato come Tribunale della Confraternita per i crimini commessi in
Irlanda, era la Sede del Consiglio, alternativa a Inverness, e il
principale Archivio in cui erano conservati i nostri contratti, da cui
l’attuale nome. Nell’ampio salone a piano terra,
inoltre, si tenevano anche le feste che potevano celebrarsi al chiuso.
La nostra meta era situata all’inizio del corso, era un pub
apparentemente lontano dalle finezze di quelli di Londra, ma poteva
vantare la più ricca varietà di Firewhisky e
Burrobirre di tutto il regno: Stiofann Eogan, il padrone, era un omone
arcigno e minaccioso, grosso come un armadio, con i capelli fulvi e
corposi e lo stesso aspetto ruvido del suo locale; ma, stando a chi se
l’era vista brutta da quelle parti, era anche uno su cui si
poteva contare sul serio, in caso di pericolo. Ci sedemmo a un tavolo
vicino al caminetto, il locale era semivuoto, l’ideale per
parlare, ci spogliammo dei soprabiti babbani e ordinammo delle
Burrobirre. Sile era in attesa di quello che dovevo dirle, ma preferivo
prenderla alla lontana per tante ragioni, non ultima prolungare al
massimo quell’incontro, che avevo faticato non poco ad
ottenere. Ero a Doire, inviato da mio padre, per contattare le famiglie
più influenti e convincerle a sostenerci nella proposta di
farli riparare nelle Highlands, almeno fino alla normalizzazione della
città babbana: da quando, nell’isola, le tensioni
erano aumentate al punto che l’esercito inglese aveva
occupato quelle contee, temevamo che i confratelli
“irlandesi” potessero restare coinvolti, per la
familiarità di alcuni di loro con i babbani.
“Non mi aspettavo
quell’atmosfera, a Doire, ora capisco le preoccupazioni di
mio padre, dobbiamo fare in modo che vi mettiate in salvo al
più presto…”
“Da che cosa? Lo vedi da te,
la nostra Doire è sempre la stessa: tranquilla, ospitale,
fiorente…”
“Sareste al sicuro,
certo… se non frequentaste i babbani: non si tratta
più di una disputa ideologica, qui ormai rischiate la vita e
sai bene che la confraternita non può permettersi di perdere
nessuno!”
“E tu sai, Sherton, che quando
c’è una guerra tra i babbani, sta covando qualcosa
anche nel nostro mondo… perciò la tua
“sicurezza” è qualcosa
d’illusorio… per esempio, quel Mago che si
dà tanto da fare ultimamente, ecco, è il tipo che
potrebbe trascinarci tutti in guai seri…”
La guardai di sottecchi mentre mi gustavo la Burrobirra più
buona che bevessi da tempo: Sile non era nuova a quel genere di
filippiche, ma al contrario di quelle di mio padre, trovavo subito
nelle sue argomentazioni una logica che, in passato, mi aveva distolto
spesso dai cattivi propositi.
“Non ha alcun senso fuggire
dalla nostra terra per paura di un esercito babbano, quando la follia
di un Mago oscuro e dei cretini che lo venerano può mettere
a ferro e fuoco tutto il nostro mondo…”
“Da quanto ne so, quel Mago ce
l’ha con sanguesporco, mezzosangue, rinnegati e babbani: mi
pare che tu e la tua famiglia non rientriate in nessuna delle
categorie… Quindi che cosa t’importa?”
Sospirò, esasperata, le presi la mano, intrecciai le dita
alle sue, le rune si allineavano perfettamente, per raccontare
un’unica storia, la nostra storia: perché ci avevo
messo tanto a capirlo? Sile, però, la tirò via
brusca, guardandomi offesa, quasi le avessi fatto delle avances pesanti.
“Quando ti ho frequentato, mi
ero illusa che fossi cambiato, Sherton, invece dal godimento con cui ne
parli… vedo che le tue adorate amicizie ti hanno fatto
ritornare indietro di anni…”
“Che cosa vorresti
dire?”
“Augustus mi ha detto che
frequenti sempre più assiduamente Lestrange…
Certo sono solo affari tuoi, ma spero che tu non voglia diventare come
lui… persino qui si raccontano cose tremende sul tuo caro
Rodolphus Lestrange e su quello che lui intende, quando parla di
“divertimento”…”
Il richiamo ad Augustus mi sorprese, non avevo idea che Sile lo
frequentasse, tantomeno che Rookwood fosse a conoscenza delle
attività di Lestrange al servizio di Milord.
“Secondo me, chiunque insinui
che Rod sia legato al suddetto Mago Oscuro, potrebbe parlare solo se
fosse a sua volta coinvolto, e anche così sarebbe solo una
panzana: un Mago come quello non potrebbe andare in giro
tranquillamente, se si circondasse di persone con la lingua tanto
lunga…”
“Non conosco quel Mago, e non
ci tengo, ma conosco voi tre, tanto bene da sapere di cosa sareste
capaci: ti ricordo, però, che non siete più dei
ragazzini, un errore ora non vi costerebbe più soltanto una
punizione da Gazza, ma un biglietto di sola andata per
Azkaban…”
Percepivo sgomento nella sua voce, ma non ascoltavo le sue parole,
pensavo solo che, se si preoccupava tanto per me, dovesse esserci
ancora una possibilità per noi. La fissai, volevo che
capisse che dicevo la verità, avrei dovuto raccontarle molte
cose, alcune spiacevoli, ma se avessi messo da parte
l’orgoglio e le avessi parlato con sincerità,
scusandomi per i miei errori, allora…
“Rodolphus e Augustus sono
responsabili per se stessi, Sile, per quanto mi riguarda, mi occupo di
Quidditch e degli interessi della Confraternita: nulla di cui dovrei
vergognarmi, penso ne convenga anche tu… E sui babbani, sai
già come la penso: il loro mondo non mi fa schifo, come a
tanti, ma le capacità artistiche di alcuni di loro, secondo
me, non c’entrano con la loro natura. Per me, i
più sono falsi e pericolosi… per questo dovreste
tornare nelle Highlands al più presto…”
“Potevi parlarne alla
Cancelleria, avresti fatto prima e convinto più persone.
Perché perdere tempo con me, nella Doire babbana, se li
disprezzi tanto? Ti compiaci che vogliano ammazzarsi tra
loro?”
“No, Sile, ti sbagli, io non
voglio che si ammazzino, né che gli succeda qualcosa di
male, te lo giuro… Vorrei solo non vederli mischiarsi
impunemente tra noi e avere la libertà di essere me stesso,
senza rischiare di essere perseguitato com’è
accaduto ai nostri antenati… Nulla di
più… Ma ora basta con i babbani, io non sono qui
solo per mio padre… io devo parlarti…”
Un’espressione strana le accese lo sguardo, non capivo se
fosse terrore, sollievo, dolore o che cos’altro: tutto
l’insieme le dava l’aria di un condannato
trascinato al patibolo. Ed io non capivo. Mi scrutò a fondo,
poi mi guardò le mani, seguendo un ragionamento che non
riuscivo a intendere.
“Allora avanti…
parliamo della vera ragione che ti ha portato qui…”
“Credo che tu la conosca
già, ma te la ricorderò a parole o, se
preferisci, con i fatti…”
Avrei fatto di tutto per riprendere da dove avevamo lasciato, quella
mattina a Londra, immaginavo che, a mali estremi, sarei arrivato
persino a rapirla, perché ero convinto che anche in lei, in
fondo, sepolto sotto delusione e orgoglio, fosse ancora vivo e pulsante
il sogno d’amore che avevamo appena iniziato a condividere.
Se ci fossimo guardati di nuovo dentro, senza maschere, ero convinto
che avremmo messo una pietra sul passato e avremmo colto quella
felicità di cui era nostro diritto godere, una
felicità che sentivo di avere ancora a portata di mano.
“Quando mi hai spedito il gufo
chiedendomi di incontrarci, ho accettato perché mi faceva
piacere rivederti e chiarirci, ma io ho accettato solo questo, Sherton
non di farmi prendere in giro da te…”
“Prenderti in giro? Che cosa
stai dicendo, Sile… Quando ti avrei preso in giro?”
Arrossii, immaginando si riferisse alle storie con Rita Skeeter e le
altre ragazze. Sile mi prese la destra e la capovolse, mi
accarezzò le rune che mio nonno mi aveva imposto alla
nascita di Meissa e che avrei riaperto alla nascita dei nostri figli;
poi l’anulare, su cui un giorno avrei portato
l’anello che ci saremmo scambiati, promettendoci di essere
una cosa sola per tuta la vita… e anche oltre.
“Spero che ti sia tolto
l’anello perché con il guanto da cercatore ti
dà fastidio, non per venire qua e farmi qualcuna delle tue
candide proposte… Non te lo perdonerei mai,
Sherton… mai…”
“Di che cosa stai parlando,
Sile? Quale anello? Io non porto anelli su quel dito… non
ancora…”
Mi fulminò con lo sguardo, poi si alzò in piedi,
in silenzio, prese il suo trench e si avviò alla porta,
chiusa in quello che sembrava dolore misto a rabbia; scattai in piedi
anch’io, lasciai a Stiofann più galeoni del
necessario e la raggiunsi, ghermendola al braccio, disperato, confuso,
arrabbiato a mia volta. Si divincolò e a passi rapidi si
avviò nella nebbia, al centro della piazza: voleva
smaterializzarsi e mollarmi lì, come uno stupido.
“Che cosa sta succedendo
Sile?”
“Non fare finta di non capire,
Sherton, so di te e di Black, vi ho anche visto al matrimonio di
Augustus… Pochi giorni prima l’avevo incontrata e
mi aveva detto di voi due, volevo farti i complimenti, ma alla festa mi
hai evitato tutto il tempo. Ora so che era meglio finirla
lì… Non abbiamo più nulla da
dirci…”
“No! Tu ora non vai da nessuna
parte finché non mi avrai spiegato cosa significa tutto
questo! Quale notizia? Quale anello? Noi non abbiamo nemmeno iniziato a
parlare, Sile, ho fin troppe cose da dirti…”
“Io invece sono già
stanca di ascoltarti… Che cosa ci fai qui, Sherton? Che cosa
vuoi ancora da me? Sei venuto a dirmi addio? Bene! A-D-D-I-O! Non
c’è altro da aggiungere!”
“Addio? Io non ho alcuna
intenzione di dirti addio…”
“Ah no? Che
cos’altro avresti in mente? Portarmi a letto ora e dirmi
addio domattina? Di nuovo? No, io non sono una di quelle, ho sbagliato
una volta, vero, ma io non sono una di quelle…”
Scoppiò in lacrime, io, annichilito da quelle accuse
ingiuste, riuscii a stento a trattenerla e ad abbracciarla e
consolarla: non avevo idea di che cosa avessi fatto per sconvolgerla,
non poteva essere solo per quelle storie, salvo che mi avesse visto
baciare Meda al matrimonio di Rookwood e ora pensasse che fossi andato
lì a dirle che stavo per sposarla. Sì, doveva
essere per quello: un’incredibile serie di equivoci cui
dovevo mettere fine, una volta per tutte. Anche se non capivo
perché mai Meda, di solito tanto discreta, le avesse
mentito… No, qualcosa non mi tornava.
“Sile per favore…
Andromeda ed io siamo amici da una vita, lo sai… Quando sei
scappata in Francia, ho perso tempo, troppo tempo, per orgoglio e per
paura, ho avuto dei dubbi e ho fatto dei gravi errori, vero…
ma quanto a Meda, ti giuro… Non c’è mai
stato nulla di serio tra noi…”
“Andromeda? Mi stai prendendo
in giro, Sherton? Io sto parlando di Bellatrix Black,
dell’onnipresente Bellatrix Black, quella per cui hai perso
il senno da ragazzo e non l’hai più ritrovato,
nonostante anni di alti proclami; quella per cui mi hai mollato,
nascondendoti dietro scuse e silenzi… Mi ha detto lei che
Rita e le altre servivano a mascherare la vostra storia, per non farmi
soffrire, e mi ha detto anche che vi sposerete… Ora vattene,
non ne posso più delle tue bugie…”
“Che cosa? Io cosa? Ma che
diavolo… Quando? Come ha fatto a dirti una cazzata del
genere?”
Mi misi le mani tra i capelli, mi guardai attorno, sperduto…
No… nemmeno Bellatrix poteva aver fatto davvero…
Non poteva essere vero, quello era uno stramaledetto incubo: che cosa
stava succedendo? Riflettei… No, non c’era da
dubitarne, Bellatrix ne era capace: l’aveva già
fatto con Meda, aveva mentito per rovinarmi la vita, ma io non avevo
capito che avrebbe coinvolto anche Sile. Quale altra diavoleria si era
inventata quella maledetta putt…? Bella si frapponeva tra me
e la felicità, continuamente, da anni, e forte in me montava
ormai solo il desiderio di smaterializzarmi a Manchester, bussare alla
porta d Cygnus Black e ucciderla con le mie mani…
“No… Sile,
no… Non puoi davvero credere che quella pazza dica la
verità e che io menta… non ci credo…
Tu lo sai, Sile… lo sai che io non sto mentendo…
In vita mia ho detto “ti amo” solo a una persona e
ho fatto quella promessa solo una volta: questo lo sai,
perché c’eri tu di fronte a me, quando
l’ho fatto… perché quella persona sei
tu… sei tu, maledizione... sei tu… solo
tu… Sile…”
Sentii le lacrime rigarmi la faccia e la voce che mi si spezzava: non
m’importava niente, nemmeno che qualcuno mi vedesse in quello
stato, lì, inginocchiato ai suoi piedi, supplice. Sputavo
sul mio orgoglio, sui dettami di forza di mio nonno, su qualsiasi cosa,
perché per me ormai contava solo il suo perdono. Era tutto
chiaro e giusto, dovevo essere lì, a dire quelle esatte
parole già da tanto tempo e invece per paura,
perché l’erede di Hifrig non corre dietro a una
ragazzina che l’ha piantato, mi ero perso dietro le
stupidaggini, facendo soffrire l’unica persona che avessi mai
amato.
“Ero in me allora e lo sono
adesso, che son qui per dirtelo di nuovo… sono venuto a
Doire, non per mio padre, ma per te… è qui che ci
siamo dati appuntamento per ricominciare a vivere… ci siamo
salutati a Hogwarts con la promessa che te lo avrei chiesto di nuovo
qui ed è ciò che sto facendo: sono tornato a
Doire non per dirti addio, ma per dirti che ti amo, che ti ho sempre
amato e che ti amerò per tutto il resto della mia
vita… e che sono stato un idiota ad aspettare
tanto…”
“Bellatrix ha
detto…”
“Sai quanto meschina
è Bellatrix! Non puoi averlo scordato e non puoi aver
dimenticato noi due…”
“Io non credo a lei, ma a
quello che tu provi per lei…”
“Quello che provavo,
Sile… Quello che provavo anni fa, quando si ha quella scarsa
lucidità, che conosci bene anche tu… Anche tu,
una volta, sei uscita con Rodolphus Lestrange, anche se per te non
contava niente… per me Bellatrix non conta niente, allo
stesso modo… da anni…”
Sile arrossì, il paragone era azzeccato. Le presi la mano
nelle mie, gliela baciai, lei tremava, sembrava un pulcino che pigolava
appena parole sconnesse, soffocate nel pianto.
“Non ci sarà nessun
matrimonio tra voi… Salazar… Non
c’è mai stato nessun
progetto…”
“Nessun matrimonio, Sile, con
nessuna delle figlie di Cygnus Black, né con
nessun’altra che non sia tu…
C’è un anello che ti aspetta da prima che passassi
la notte con me: ha sempre aspettato te… solo te…
Sono qui per dirti quello che provo e per chiederti scusa, ho commesso
errori, per stupidità, paura, orgoglio… ho perso
tempo e ti ho fatto soffrire… ma ti prometto che non
accadrà più… Permettimi di rimediare
ed io ti dimostrerò che ogni mio respiro, ogni gesto, ogni
pensiero sono consacrati a te…Voglio darti quello che ti ho
promesso e renderti felice come meriti…”
Sile era pallida come la morte, gli occhi lucidi e febbricitanti,
lacrime silenziose le rigavano il viso. Capii subito che non era per la
commozione, la sua espressione restava mesta, non c’era
traccia della felicità di chi, dopo tante battaglie,
finalmente ha vinto la guerra. Un brivido mi percorse, c’era
qualcos’altro, che non sapevo, più temibile di
quanto avessi finora valutato: si era stancata di aspettare, umiliata
dalla mia indecisione? Si era innamorata di qualcuno che la meritava
più di me? Alle lacrime si erano aggiunti i singhiozzi; mi
alzai e la strinsi a me, ma lei restava rigida nel mio abbraccio:
sentivo il mondo crollare a pezzi tutto intorno a me, oramai ero certo
di averla persa.
“Sile, che cosa
succede?”
“Mi dispiace,
Mirzam… anche se quello che ha detto Bellatrix non
è vero… è troppo tardi… ho
accettato di vederti perché dovevo dirti addio a mia
volta… e stavolta è per
sempre…”
“Che cosa dici? Io sono qui...
tu sei qui… guardami, Sile… guarda le nostre rune
come si allineano, in un racconto senza interruzioni: sai che cosa
significa, rappresentano la nostra vita insieme…”
“No… non
è vero… Sherton…
tu…”
“Che cosa vuoi dire, Sile? Che
c’è un altro? Che ti sei innamorata di un
altro?”
Sile annuì ed io persi la cognizione del mondo e di me
stesso, vidi tutto nero, era tutto freddo e oscuro. Era questo
ciò che si prova, quando si muore?
“Chi è ?”
“Non ha
importanza…”
“E’ stato tuo padre?
Ha saputo di Bellatrix e ti ha portato a casa un uomo, per salvare
l’onore della vostra famiglia, Sile? Perché se
è così, quel contratto non ha
valore…”
“No, Mirzam… Non
c’è nessun contratto… io…
è tutto vero, io lo amo davvero…”
“BUGIARDA!
Ero ferito, confuso, sicuro che stesse mentendo, che fossimo entrambi
vittime dell’ingiustizia del mondo, della
malvagità di Bella e delle assurde fissazioni medievali di
suo padre. Non potevo credere che fosse tutto finito, veramente finito,
che qualcuno avesse preso sul serio il mio posto nel suo cuore.
Perché lei apparteneva a me, come io appartenevo a lei, da
sempre, per sempre.
“Tu ami me!”
“Ti amavo, Mirzam…
ma anche l’amore finisce, se ti rendi conto che non
è corrisposto…”
“No, non è
così… Tu lo sai che non è
così… Tu menti… Perché non
hai chiesto almeno a mio padre la verità? Avresti saputo che
quella storia era falsa… Perché Sile?
Perché tuo padre ti ha mandato in Francia appena ha saputo
di noi? Perché voleva separarci fin
dall’inizio?”
“Ti sbagli, Mirzam: mio padre
non mi ha imposto niente, ho deciso da sola, dovevo sottrarmi
all’assurda ossessione che avevo per te, che m divorava da
anni… la verità è che Bellatrix poteva
dire tutte le bugie della terra, ma sei solo tu, Mirzam, che le hai
rese credibili…”
“Tutto questo è
assurdo, Sile… Non può essere vero… Ti
prego… Dammi un’altra
possibilità…”
“E’ giusto
così, Mirzam… Troverai presto la persona che ti
farà felice, ma non sono io…”
“Che cosa? No, o
no… Io non permetterò che finisca
così… non mi fermerà niente e
nessuno!”
“No, Sherton! Tu non
t’intrometterai più… io non voglio
più soffrire per te… ho trovato una persona con
cui sono felice e con cui riesco a vivere in pace
e…”
“In pace? Non sei una vecchia
di cento anni che ha bisogno della pace, tu hai bisogno di vivere, di
amare e di essere felice e sappiamo entrambi che lo sarai solo con
me… Non permetterò che sposi uno che sta
approfittando della tua debolezza e dei miei errori, per
comprarti…”
La strinsi a me e le strappai un bacio con la forza, disperato, lei si
divincolò e cercò di sottrarsi, mi diede uno
schiaffo, mollai appena la presa, volevo smaterializzarmi con lei a
Herrengton, barricarmi nelle Terre del Nord o fuggire con lei. Per
tutta la vita se fosse stato necessario.
“Le tue parole, i tuoi baci,
le tue scene non contano più niente… Non
più Sherton, lasciami…”
“Merlino mi è
testimone, Sile… Tu sposerai me, dovessi arrivare a uccidere
per convincerti…”
Non sapevo perché l’avessi detto, me ne pentii
all’istante, non era l’amore, ma
l’orgoglio a parlare.
“Scusami! Sile…
Scusami…”
Sile, spaventata dalle mie minacce, riuscì a forzare la mia
presa e si smaterializzò, consapevole che non sarebbe finita
lì: mi aveva visto convinto ed agguerrito come mai nella mia
vita. Ritornai a Herrengton, confuso e disperato ma deciso ad assediare
suo padre con qualsiasi mezzo fino ad ottenerne la collaborazione. E a
farla pagare a quella maledetta di Bellatrix. Una volta per tutte.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - novembre 1969
Le ore scorrevano rapide, nella biblioteca di Herrengton, i libri e le
pagine si alternavano lenti, senza svelarmi i loro segreti che cercavo
di conoscere disperatamente. Il 31 Ottobre ero ritornato a Doire, per
la serata organizzata dal marito di mia zia: era stata una festa
incredibilmente bella, con la musica celtica suonata dagli elfi
disposti in ordine nei punti strategici del parco incantato, gli
addobbi autunnali, le luci dei falò, l’aria carica
di magia e di profumi, odore di muschio e di castagne, di funghi e di
essenze, di carni arrostite e di fiori disposti a corone intorno e
sopra di noi. Avevo camminato nel bosco con le mie vesti scure, tipiche
della ricorrenza di Samhain, la notte in cui lo scudo di Skathach viene
abbassato, permettendo ai due mondi di ricongiungersi, al caos di
fondersi con l’ordine, ai morti di tornare ad abbracciare il
mondo dei vivi. Avevo alzato gli occhi verso il cielo, ad ammirare le
Pleiadi rilucenti: impreziosivano la volta celeste e annunciavano un
nuovo anno. Il mio destino ripartiva da lì, da quel momento:
ero consapevole che avrei dovuto lottare fino alla morte, ma non mi
sarei fermato di fronte a nulla, non avrei avuto remore, qualsiasi
mezzo avessi dovuto usare per ottenere quello che volevo. Per la prima
volta risuonarono in modo diverso, sinistro, anche le parole che Milord
mi aveva detto, la prima volta che l’avevo incontrato:
“Spero ti unirai anche tu alla mia causa, un giorno, Mirzam
Sherton… Al mio fianco potresti ottenere facilmente tutto
ciò che vuoi… dalla donna che ami… al
potere… alla verità…”
Sapeva già che mi sarei trovato di fronte a quelle
difficoltà? Era un veggente, come dicevano alcuni, o aveva
contribuito personalmente con i gesti di quella notte, a far scivolare
la mia vita fino a quel vicolo cieco? L’unica via per
riprendermi Sile passava davvero attraverso quel Mago?
Avevo sperato invano di rivederla quella sera, pur sapendo che, dopo
quanto era accaduto ad An Feabhail, era di fatto impossibile. Non ci
avevo messo molto a sapere qualcosa di più: ufficialmente
non era ancora fidanzata, ma dagli zii avevo saputo che i Kelly
ricevevano spesso visita da un certo Edgar Corso, un francese che aveva
un figlio poco più grande di noi, che aveva studiato nella
stessa scuola di medicina di Sile. Ciò non significava,
secondo me, che fossero davvero innamorati, ero assolutamente convinto
che fosse una sistemazione di comodo e che, se avesse saputo la
verità, Kelly non avrebbe svenduto così la sua
unica figlia, potendo ancora imparentarsi con noi. Mi ero sentito
osservato per buona parte della festa e alla fine avevo guardato
attorno a me, fino a riconoscere la figura di Donovan, che si ergeva
simile a un dio nordico, là dove la luce dei falò
si perdeva nell’oscurità del bosco: era un ospite
dello zio, come me, uno dei migliori amici di mio padre da quando,
insieme, giocavano a Quidditch. Avevo persino riso con lui, in passato,
parlando del più e del meno, dei decreti del Ministero,
della situazione dei purosangue e della Confraternita, ma mi era
bastato uno sguardo, quella sera, per capire che non era ben disposto
nei miei confronti. Potevo comprenderlo, le mie azioni con Sile erano
state scellerate: l’avevo sedotta e delusa, avevo fatto lo
stupido con altre, l’avevo minacciata, pur pentendomene
subito. Alla prima difficoltà me l’ero presa con
Bellatrix e con Donovan Kelly, in realtà dovevo prendermela
solo con me stesso.
Avevo approfittato di quei giorni per riflettere, avevo deciso di
affrontarlo da solo, senza l’intervento di mio padre,
così che vedesse che non ero un bambino, ma un uomo, pronto
anche a farsi picchiare e punire. E ad offrirgli tutto quello che
avevo, per Sile; volevo convincerlo che per sua figlia, nonostante gli
errori commessi, il futuro con me fosse la strada per la
felicità. E anche per la sua famiglia, i benefici non
sarebbero stati indifferenti. Quella parte del discorso però
non mi convinceva: sentivo che aveva un che di falso e di sporco, non
suonava come una dichiarazione d’amore, ma come un sordido
tentativo di corromperlo. E sapevo quanto Donovan fosse orgoglioso. Era
meglio lasciar perdere il discorso dei benefici e parlare solo dei miei
sentimenti. Kelly mi aveva stampato addosso uno sguardo glaciale appena
l’avevo salutato e mi ero mostrato desideroso di parlargli,
era rimasto in silenzio mentre lo imploravo di ascoltarmi e gli
esponevo la situazione e l’equivoco: era impallidito, avevo
percepito la sua confusione. Forse in quel momento si pentiva anche
lui, come me, di aver ceduto all’orgoglio, di non aver
chiesto chiarezza almeno a mio padre… di aver preso delle
decisioni con Edgar Corso senza prima indagare la verità.
“Sono qui per chiedervi
perdono, Milord, per tutti gli errori che ho commesso e che
riconosco… ma so che Sile ed io siamo fatti per stare
insieme, io vi giuro sulla mia vita e su ciò che ho di
più caro che non commetterò più
errori… Vi prego… Ho bisogno del vostro
aiuto… ”
Mi fissava, l’espressione tempestosa, silenzioso, sembrava
occupato a sondarmi cuore e cervello, per poi emettere la sua sentenza:
sapevo che era suo diritto punirmi per lavare l’onore offeso,
ma speravo che, dopo un equo risarcimento e il giusto periodo di
penitenza, sarebbe stato ragionevole.
“Belle parole, Sherton, ma
appunto, sono solo parole… E ormai non è
più sufficiente chiedere scusa… Dopo averti visto
da Rookwood, mia figlia era intenzionata a lasciarsi morire per colpa
tua… e ora sei arrivato persino a minacciarla. Non mi
sembrano gesti che dimostrino amore, anzi… Ringrazia che sei
il figlio di un mio caro amico, altrimenti a quest’ora ti
avrei già mandato sottoterra. Sile è mia figlia,
non una merce da scambiare…”
“Milord, non
intendevo… Vi prego… Farò
ciò che volete… Tutto ciò che
volete… Vi ripagherò nel modo che riterrete
più giusto del dolore che ho provocato a tutti
voi… ma vi prego… Aiutatemi…”
“Scozzesi, immorali e
bastardi, prima prendete ciò che volete, poi chiedete il
permesso… Sei tale e quale a tuo padre, ma senza nemmeno uno
dei pochi pregi che ha… Te lo dico un’ultima
volta, Sherton, è meglio per te se
sparisci…”
“Vi prego…
Ascoltatemi, datemi l’opportunità e
rimedierò a tutto… farò tutto
ciò che volete…”
“Credi che mi farò
comprare dalle tue parole o dai soldi di tuo padre? Sai cosa sono le
promesse? Io ho promesso a sua madre, sul letto di morte, che
l’avrei protetta dai bastardi come te, e nonostante tutto il
mio impegno e i miei insegnamenti, sei riuscito a farle del male, a
usarla e buttarla via… Come pensi di ripagarmi di questo?
Non puoi! Lei è felice adesso… Se davvero
l’amassi, smetteresti di farla soffrire, importunando lei e
me… Ma tu ti curi solo del tuo orgoglio, perché
è inaudito che uno Sherton si senta dire
“NO”, vero? Bene! Hai appena scoperto che il vostro
nome e i vostri soldi, almeno per noi Kelly, non contano
nulla… Ora, per il tuo bene, sparisci!”
“No… Vi
prego… Ascoltatemi…”
“Non vuole più
vederti, Sherton… C’è un vero uomo al
suo fianco, ora, che se ne farebbe di un ragazzino immaturo come
te?”
“Io non sono un ragazzino
immaturo, Milord…”
“Ah no? E chi lo dice? Tu? La
tua parola è un po’ poco come prova, non ti
pare…”
“Posso provarvelo! Chiedetemi
qualsiasi cosa, sono pronto a dimostrarvelo!”
“Davvero?”
Kelly si era sollevato la manica sinistra, lasciando scoperto il
Marchio Nero che avevo già visto sul braccio di Lestrange.
Io ero rimasto inorridito, non capivo: quell’uomo era sempre
stato più progressista persino di mio padre sui babbani e
aveva educato Sile secondo principi che con la sua nuova fede non
avevano nulla a che vedere. Com’era possibile? Che cosa stava
succedendo? Kelly aveva ghignato alla mia espressione smarrita e se
n’era andato, smaterializzandosi tra gli alberi…
Che cosa voleva davvero Kelly da me? Mi aveva indicato la strada da
prendere per ottenere il suo aiuto? Da quella sera,
quell’immagine e quelle parole incomprensibili mi
tormentavano, ma, invece di spaventarmi, di dissuadermi, mi spingevano
alla ricerca di una soluzione, magari violenta, che mi avrebbe permesso
di riconquistare Sile. A volte mi chiedevo se certi metodi me
l’avrebbero fatta perdere per sempre, mi rispondevo che
dovevo correre il rischio, perché una volta insieme, avrei
avuto tutta la vita per farmi perdonare da lei e farle capire le mie
ragioni… Ora, invece, avevo poco tempo, presto si sarebbe
aperto un oscuro abisso ad inghiottirci tutti.
*
Ero a Inverness, un fosco pomeriggio di pioggia e vento, avevo appena
terminato una seduta di allenamenti con Stenton, quando vidi venirmi
incontro Teti, la civetta fulva di Meda, con una pergamena legata alla
zampina. Sorrisi, cosa ormai strana per me: era da molto che
l’aspettavo, avevo bisogno di qualcosa che mi staccasse dai
pensieri ossessivi che divoravano i miei giorni. E iniziavo a sentirmi
impaziente, non avevo sue notizie da circa sei settimane. Presa la
lettera, diedi un biscotto al messaggero, che aveva affrontato la
tempesta per raggiungermi, e Teti volò via, rapida, diretto
di nuovo a Hogwarts, senza attendere la mia risposta. Entrai nel solito
pub, in cui mi ritrovavo la sera con alcuni amici: quel pomeriggio ero
solo, potevo godermi la lettura in pace. Quello che lessi,
però, non era per niente soddisfacente.
Hogwarts, 14 novembre 1969
Caro
Mirzam,
Scusami se ho tardato
tanto a darti mie notizie, avevamo un complesso tema di Pozioni e sono
letteralmente svanita sotto quintali di libri in biblioteca. Ma ne
è valsa la pena.Come puoi immaginare, senza più
Bella, nei sotterranei la vita è più tranquilla,
io riesco a finire di studiare in orari decenti e Cissa…
beh, lei ormai l’abbiamo persa, cotta
com’è di quel suo Malfoy. A scuola, a parte le
fisse di Slughorn, va tutto bene: le lezioni sono impegnative, ma
rispetto al delirio dello scorso anno posso dirmi fortunata. Grazie al
libro che mi hai regalato, ho una marcia in più, vorrei
dedicarmi anche in futuro alle Pozioni, ammesso io possa un giorno
impegnarmi in un’attività lavorativa: sai
com’è, le Black difficilmente si occupano di
queste cose. Come forse hai intuito parlandoci, quel giorno a
King’s Cross, mio padre è una persona molto
tradizionalista e temo mi riderà in faccia quando gli
dirò cosa voglio fare della mia vita. Ora, però,
passiamo alle cose piacevoli.
Tuo fratello non si
comporta male, anzi… Lo trovo un ragazzino adorabile,
riserva sempre una marea di gentilezze a me e a Cissa: non so se
è la naturale galanteria degli Sherton, o
l’effetto che mia sorella fa su qualsiasi maschio,
indipendentemente dall’età. Però
è uno dei ragazzini più educati, simpatici e
gentili che popolano i sotterranei. Al contrario di quanto prevedevi
tu, è stato pizzicato solo una volta da Ted Tonks (non so se
te lo ricordi, è il prefetto di Tassorosso) per i corridoi
insieme a Lestrange jr, ma a quanto pare erano solo andati nelle
cucine. Spero che la prossima settimana ti farai vedere a Hogsmeade:
abbiamo letto sul Daily che nella prossima partita forse prenderai il
posto del cercatore che si è infortunato e qui siamo tutti
elettrizzati e facciamo il tifo per te. Alcuni hanno addirittura
fondato un club di sostenitori, come Helena Collins e
pressoché tutti quelli degli ultimi due anni dei corvi, e
molti Tassi e alcuni Grifoni. Ci sono ragazzi e ragazze di tutte le
Case a tifare per te, sai? Come dici tu “il Quidditch
unisce…”: per certe cose si può essere
amici anche di chi non è Serpeverde, è quello che
dice sempre tuo padre, no?
I miei però
non sono d’accordo, pare che dopo la mia partenza si siano
inaciditi ancora di più: mi hanno proibito di aderire, prima
ancora che chiedessi loro il permesso… Ho deciso
però che tiferò ugualmente per te. anche se in
disparte… Se verrai, te lo dico così sei pronto
al peggio, ti stanno preparando un simpatico comitato
d’accoglienza, Ted si è dato tanto da fare, voleva
convincermi a partecipare, ma non ho potuto… tra gli altri
ci sono Helena, Nicholson e Martin dei Grifi, Kathy e Sally dei corvi,
insomma, i soliti amici…”
L’avevo riletta tre volte e non riuscivo a tranquillizzarmi:
pur non essendoci scritto nulla di sconvolgente, c’era anzi
tutta la vitalità e la gentilezza che amavo tanto in Meda,
c’era qualcosa che non mi tornava. Piegai la lettera e me la
infilai nel taschino, consapevole che di lì a tre minuti
l’avrei ripresa e riletta dall’inizio. Quando Rigel
mi aveva scritto e alla mia precisa domanda su come stava Meda aveva
raccontato di aver visto diverse volte lei e il prefetto babbano di
Tassorosso in giro insieme non ci avevo creduto, ma ora la lettera di
Andromeda, con quel suo sano e ingenuo entusiasmo… Non
sapevo cosa pensare, forse era il caso di vedere dal vivo e di
parlarle… e capire. Sì, anche se avevo tanti
problemi di cui occupami, era il caso che le parlassi e chiarissi,
perché se una storia del genere fosse arrivata alle orecchie
sbagliate…
Salazar… Deve
essere tutto un equivoco… Deve per forza essere un equivoco.
Meda non è una sciocca… E una semplice amicizia
non significa niente. Meglio ricordarle, però, che deve fare
attenzione alle voci… Anche perché per i Black, e
lei se ne sta già rendendo conto da sola, persino le
semplici amicizie sono motivo sufficiente per infliggere punizioni e
sofferenze.
Mi alzai, la pioggia scendeva con maggiore violenza e il vento urlava,
invitando a far rapido ritorno ognuno al proprio caldo focolare. Io ero
deciso, invece, a restare fuori, affrontando le intemperie, conscio che
erano nulla, rispetto all’uragano che stava crescendo dentro
di me.
***
Mirzam
Sherton
località sconosciuta, Cornwall - 30/31
dicembre 1969
Le feste di Natale mi trovarono particolarmente funereo, non volevo
seguire i miei a Doire, temendo di trovarmi di fronte a Corso che
corteggiava liberamente Sile: Donovan mi aveva fatto intendere che il
fidanzamento ufficiale si sarebbe tenuto il 1 Febbraio, per legarlo
alla sacralità di Imbolc. La mia idea era quella di prendere
tempo, le mie ricerche ancora non davano frutti, ma dovevo riuscire
prima o poi; per il momento dovevo fingere che mi fossi spaventato e mi
fossi messo il cuore in pace, poi quando meno se
l’aspettavano, avrei colpito. Più ripensavo al
marchio nero, meno comprendevo le intenzioni di Kelly, e soprattutto mi
chiedevo se Sile ne fosse a conoscenza: visti i toni accorati contro
Milord, forse non ne sapeva nulla e magari la situazione in cui si era
messa, era meno cristallina e più pericolosa di quanto
immaginasse. Mi figuravo Donovan Kelly coinvolto con qualche promessa,
o assoggettato con un Imperius a Milord, perché io fossi
costretto a piegarmi al Signore Oscuro, facendomi intendere che fosse
quella la sola strada che mi avrebbe ricongiunto a Sile: dovevo
intervenire, non solo per i miei sentimenti, ma per salvarla. Oppure, e
mi sembrava tipico di lei, ne era a conoscenza e aveva deciso di
lasciarmi per salvare me e la mia famiglia dalle brame del Signore
Oscuro e di suo padre, evidentemente impazzito. Cercavo di convincermi
che fosse così, che Sile fosse ancora innamorata di me e
cercasse di difendermi: anche se sospettavo fosse solo una mia
fantasia, non potevo credere che non provasse più
quell’amore che mi aveva dimostrato e che io, come un idiota,
avevo sottovalutato. Passavo, così, i miei giorni
macerandomi nell’idea che se fossi entrato nelle fila di
Milord, Sile non avrebbe più dovuto fingere e sarebbe stata
libera di tornare con me. Da qualsiasi punto studiassi la situazione,
capivo che quanto accadeva era solo colpa mia: al cospetto di Lord
Voldemort, avevo lasciato che mi guardasse dentro, rivelandogli che
vivevo per l’amore, non per la gloria. Per questo avrei
dovuto piegarmi, lasciar perdere remore e dubbi, avrei condannato me e
Sile per sempre. Mascheravo abbastanza bene i miei turbamenti, grazie
alle lezioni di autocontrollo cui mi aveva sottoposto Fear, da Stenton
rendevo bene, e con mio padre mi mostravo meno battagliero nel
sostenere le tesi di Milord, per metterlo fuori strada; mia madre,
però, percepiva le mie inquietudini: lei era
l’unica persona che potesse in qualche modo aiutarmi, ma non
me la sentivo di coinvolgerla. Tutto quel caos nella mia mente andava
in qualche modo esorcizzato, e al solito quando si è
confusi, nervosi, si è anche a stretto contatto con le
persone più pericolose: Rodolphus non sapeva nulla di quanto
mi stava accadendo, ma aveva da sempre una specie di sesto senso che
gli faceva cogliere l’attimo in cui una persona è
sospesa sul baratro, così da trovarsi pronto a buttarla di
sotto. Quella sera, vigilia dell’ultimo dell’anno,
al solito pub, la sua proposta non mi parve shockante come al solito,
forse soltanto prevedibile e monotona.
“Rookwood ha organizzato
qualcosa per domani sera, non volevo dirti nulla perché so
che non è il tuo genere d’interessi, ma
ultimamente mi sembri un po’ giù…
magari un’esperienza per te nuova potrebbe scuoterti e
ridarti entusiasmo… Puoi rimandare le tue gite per boschi,
per una volta…”
“Va al diavolo…
Lestrange!”
Rodolphus, immaginando già la mia reazione,
ghignò e brindò al mio indirizzo, sornione.
“Naturalmente…
qualsiasi cosa decidi… acqua in bocca!”
“Non temere, non
sarà per colpa mia se Rookwood
divorzierà… comunque la mia risposta è
sempre no, non m’interessano le vostre spedizioni in qualche
bordello…”
“È una spedizione,
vero, ma non si catturano femmine, stavolta si beve
sangue…”
“Ma che schifo! Ti sei fumato
roba più pesante del solito, Lestrange?”
“In senso metaforico,
RAGAZZINA… solo metaforico… si va a caccia, si
cattura e si uccide…”
“Non puoi dire semplicemente
“andiamo a caccia?” Salazar, quanto sei
barocco!”
“E tu, Sherton, quanto sei un
noioso! L’appuntamento è alla casa al mare di
Rookwood, nel Cornwall, alle 23 in punto, così festeggiamo
il compleanno di Steve, il nuovo anno e il primo anniversario di
Augustus… copriti il volto in qualche modo e parla il meno
possibile, una delle cose divertenti di questo genere di serate
è non sapere subito chi sono i nostri compagni di
caccia…”
“Sto già vibrando
per l’emozione, Lestrange…”
“Non fare l’ostile,
dai! Vedrai, ti piacerà: ce l’hai pure tu il
sangue, in fondo, ti si deve risvegliare prima o poi! Però
ricordati, se accetti ora, poi non puoi tirarti indietro ed
è tassativo il silenzio su tutto ciò che vedrai,
sentirai e farai quella notte… Ci saranno alcuni amici,
gente che non consoci e anche qualche ragazza: ci
divertiremo… E forse, al mattino, si unirà a noi
anche Milord: non sarebbe male vederlo all’alba del nuovo
anno, sarebbe molto evocativo… non trovi?”
“Oh, sì! Immagino
possa considerarsi un perfetto rituale di
purificazione…”
“Vedo che inizi a calarti
nella parte! Bene… molto bene!”
Rodolphus mi canzonò ancora, io tirai l’ultima
boccata e spensi il sigaro, mi alzai e con un semplice cenno di assenso
lo salutai. Desideravo solo qualcosa che mi risvegliasse davvero il
sangue e mettesse in pausa il cervello, almeno per una notte. Forse
sarebbe stato il genere di prova che poteva richiedermi Kelly, tanto
valeva abituarsi… O forse sarebbe stata la dimostrazione
definitiva che quella non era la mia strada e allora, persa Sile, non
mi sarebbe rimasto altro che morire.
*
L’aria salmastra saliva, gelida, a permearci le narici:
eravamo circa una ventina, tutti avvolti nei nostri mantelli, muti,
irriconoscibili, nascosti da cappucci, da maschere, da baveri alzati a
lasciar scoperti solo gli occhi. Alcuni, viste le dimensioni minute,
dovevano essere davvero delle ragazze e questo, per un attimo, mi fece
dubitare delle reali finalità di quella serata: Augustus una
volta mi aveva detto che Lestrange l’aveva coinvolto in una
festicciola molto sopra le righe, con numerose ragazze, e sapevo che
non era il genere di esperienze che mi serviva in quel momento,
né che avrei mai reputato adatta a me. Una voce mi
ringhiò in testa e mi chiesi se considerassi più
morale ammazzare qualcuno che concedermi una scopata a cervello
spento… Rabbrividii. La costa iniziava a illuminarsi i
fuochi colorati sparati per aria: anche i babbani festeggiavano la fine
dell’anno. Sospirai… Sì, sarei stato
capace di staccare il cervello quella notte, qualsiasi cosa mi avrebbe
messo davanti il destino, troppo dolore, rabbia, disperazione, si
stavano stratificando in me: stavo per perdere tutto, vagavo
inconcludente da due mesi dietro al progetto di una pozione che si
stava rivelando irrealizzabile, e Sile si allontanava sempre di
più, che considerassi o meno quei mezzi che aborrivo.
Sentivo forte la corrente che poteva travolgermi, volevo smettere di
respirare e di resisterle, volevo farmi portare via. Le lezioni di Fear
erano finite, ormai potevo affrontare Milord senza rischi per la mia
famiglia, perché ero cosciente che avevo bisogno, in un modo
o nell’altro, di lui e del suo aiuto per riavere
Sile… O forse desideravo solo fallire ed essere sopraffatto,
magari proprio quella notte. Solo per spegnere occhi e cervello, e non
dover soffrire più… mai più.
“È il
momento…”
Rookwood diede il via e il gruppo si suddivise in squadre di 3/4
elementi, a me capitarono altri due uomini e una donna: Rodolphus, che
aveva tanto insistito per invitarmi, non si era nemmeno presentato, in
seguito seppi che Roland Lestrange si era sentito male e suo figlio era
stato costretto a partecipare al suo posto a non so quale
galà al Ministero. Una figura maschile mi si
avvicinò e insieme raggiungemmo una figuretta che era
rimasta opportunamente in disparte, in compagnia di un ragazzino lungo
e magro.
“Mi fa piacere che tu sia
riuscita a venire stasera…”
“Non volevo mancare di nuovo,
Steve…”
Un lampo d’odio m accecò, quando riconobbi le voci
di Bellatrix Black e Steven Pucey, io rimasi muto per non farmi
riconoscere da lei, anche se intuivo che sapesse già chi
fossi e che perciò fosse rimasta in disparte, per non farsi
scegliere da altri e finire nel mio gruppo. Ci inoltrammo nella
boscaglia: gli scenari che mi si prospettavano in quel momento erano un
sordido sabba fatto di sesso e alcolici, in mezzo al bosco, cui mi
sarei sottratto a costo della vita, o una vera caccia a qualche povera
bestia, anche se lo trovavo troppo banale per menti malate come quelle
di Bella e Rodolphus. Oppure saremmo andati a infastidire i babbani, e
questa era la situazione senza dubbio più plausibile, quella
che mi aspettavo e per la quale in fondo mi sentivo pronto. Mi
distrassi dietro ai miei pensieri e rischiai di cadere, riprendendomi
appena in tempo: Bellatrix ghignò, ero ormai certo che mi
avesse riconosciuto. Il bosco si aprì
all’improvviso sulla vasta campagna, una piccola casa
apparentemente deserta s’innalzava su una collinetta davanti
a noi, un brivido di terrore mi percorse la schiena,
all’improvviso capii, era anche più pericoloso di
quanto temessi: credevo saremmo piombati in qualche vicolo, facendo
scherzi pesanti e aggredito vagabondi e ubriachi, non che saremmo
penetrati in una vera casa babbana.
“Steve…”
Lo presi per una manica e lo fissai alla luce della luna.
“Non dirai sul
serio…”
“Che cosa credevi? Che
andassimo a cercar funghi sotto la luna, Sherton? Mi spiace, se ci hai
ripensato, ma conoscevi i patti: ormai non puoi più
andartene, se ti fa schifo partecipare, devi restare a fare almeno da
palo…”
Mi aveva lasciato indietro, raggiungendo gli altri due che
già si muovevano furtivi per raggiungere la casa…
Salazar, come avevo fatto a non capire? Corsi a mia volta,
approfittando delle ombre raggiunsi la porta sul retro intorno alla
quale si erano ammassati gli altri.
“Guardate come faccio
io… e ricordatevi… per ora dobbiamo solo
catturare…”
Vidi una luce malevola nello sguardo di Bella, mentre Steve con un
colpo di bacchetta metteva fuori uso la serratura e si faceva strada
nella casa silenziosa con un timido “Lumos”, Bella
prese in mano alcuni oggetti di cui non conoscevo nome e funzione e con
faccia schifata, estratta la bacchetta, si divertì a
distruggerne in gran quantità, dopo aver gettato un potente
“Muffliato” a porte e finestre.
“Bellatrix! Vuoi farci
scoprire subito? Ho detto niente improvvisate!”
“Ma quanto sei
noioso… puccioso Pucey…”
Ghignò, languida, poi si avvicinò alle misere
tende, ne saggiò la fattura mediocre e con un altro colpo di
bacchetta le incenerì all’istante. Io pregavo che
i padroni di casa fossero in città a festeggiare e che dopo
aver fatto un po’ di vandalismo, ce ne andassimo, senza
aspettare il loro ritorno: magari si poteva risolvere il tutto facendo
recapitare a quei poveretti, che già non sembravano
passarsela bene, un po’ di denaro babbano. Bella mi si
avvicinò, aveva lo sguardo di una pazza.
“Ehi Sherton… Non
ti pare che di sopra ci sia qualcuno che sta scopando? Ma…
che puoi saperne tu! Walden, tu che hai più
esperienza… per te scopano?”
Rise della sua risata malefica e folle, e del ghigno che, irridente, mi
rivolse McNair, poi corse per le scale, Walden, che avevo riconosciuto
solo dentro la casa, aveva lo sguardo famelico tipico dei ragazzini
esagitati che vogliono sentirsi grandi e crescere in fretta: mi
ripromisi di bastonare Rigel alla prima occasione, finché
non mi avesse giurato che si sarebbe tenuto alla larga da certa gente.
Salimmo al piano di sopra, i gradini di legno cigolarono appena sotto
il passo pesante di Steve che fece fatica a tenere McNair dietro di
sé: da quella bocca uscivano le idee più
raccapriccianti che avessi sentito in quasi venti anni, e vedere il
compiacimento di Bellatrix, la sua aria divertita, mi facevano temere
che avrei presto ceduto a un attacco di vomito. Come avevo fatto a
cacciarmi in un casino simile? Mi feci forza, dovevo impedire quello
scempio o almeno limitare i danni. Di sopra c’erano tre
porte: il respiro affannoso e i gemiti inconfondibili venivano da
quella davanti a noi. Dalle altre due porte non si sentiva niente,
Steve ne aprì lentamente una e intravidi un bagno misero ma
ordinato: non c’era nessuno e tirai un sospiro d sollievo.
McNair e Bellatrix stavano sghignazzando dicendo a Pucey che dovevamo
assaltare i due amanti e farli schiattare dallo spavento proprio mentre
raggiungevano l’orgasmo. Io intanto schifato dai loro
discorsi, aprii la terza porta: quando vidi un ragazzino
dell’età di Meissa che dormiva profondamente nel
suo letto, iniziai a sudare freddo, mi tornò alla mente la
storia di Margareth, la figlia mezzosangue di Orion Black e mi dissi
che il destino doveva avermi messo dentro quella casa, quella notte,
solo per farmi scontare tutto il male che avevo pensato di mio padre,
anni addietro… E fui consapevole, in quel momento, di essere
davvero suo figlio, perché a costo di rimetterci la mia, di
vita, avrei fatto anch’io quello che a suo tempo aveva fatto
lui.
“Allora… cosa
c’è lì dentro?”
“Non c’è
nulla, solo roba vecchia…”
“Potremmo
incendiarla…”
Strinsi la bacchetta, pronto a schiantare Bellatrix se solo si fosse
avvicinata, la fulminai con occhi carichi di odio: forse, per la prima
volta dopo tanti anni, ebbe nuovamente paura, e provò
rispetto per me.
“Smettetela di
bisticciare… concentriamoci su questi due… al mio
via!”
Steve mi diede le spalle e avanzò con gli altri verso la
camera, Bella era entusiasta all’idea di provare la bacchetta
su carne viva, io non avevo il coraggio di guardare cosa stava per
accadere, gettai un “Muffliato” alla stanza del
bambino e la chiusi così che non uscisse nel momento
sbagliato e i miei compagni non potessero entrare… Pregai
gli dei per lui e mi voltai, pensando a cosa potessi fare per i
genitori, ma già le urla di spavento dell’uomo e i
pianti disperati della donna annunciavano che gli altri avevano fatto
irruzione nella stanza.
*
La cazzata l’avevamo fatta e anche bella grossa: Walden aveva
usato la bacchetta, non si era limitato a guardare come gli era stato
ordinato. Il dipartimento ora sapeva che un Mago minorenne aveva fatto
una magia alla presenza di babbani; non solo, ma quando fossero venuti
a verificare, e sarebbe accaduto molto presto, avrebbero legato
quell’evento alla scena di un crimine. Steve diede un paio di
schiaffi a McNair, gli prese la bacchetta e la distrusse, per
cancellare una prova, ora però dovevamo far sparire anche
lui, Walden non poteva ancora smaterializzarsi da solo.
“Sherton, tu e Black lo
accompagnate da suo padre, io prendo gli ostaggi e vi anticipo alla
base…”
“Io voglio venire alla base
con te, non star dietro a questi due mocciosi!”
“Bella, non discutere, Walden
non ha più la bacchetta e Sherton non è abituato
a certe situazioni…”
Non mi curai dello sguardo schifato che mi rivolsero, mi ero rifiutato
di muovere un passo dal corridoio per tutta la loro
“caccia”; sapevo che non si fidavano di me, almeno
non più di quanto mi fidassi io di loro, ma ormai ero in
mezzo al guado, dovevo andare fino in fondo. La prima parte della
missione andò bene, McNair senior non fece domande, si
limitò a riprendersi suo figlio e a preoccuparsi della
bacchetta, ero sicuro che appena ce ne fossimo andati, avrebbe riempito
Walden di sberle, e non perché si fosse messo in una
situazione pericolosa, ma perché non aveva portato a termine
la serata. A quei pensieri, non feci che ringraziare ancor di
più gli dei di avermi dato un padre come il mio, seppur con
i suoi difetti. Quella notte, però, si rivelò
presto una notte piena di errori: lo capii anche dallo strano silenzio
di Bella mentre, lentamente, camminavamo come spettri lungo il fiume,
che costeggiava da sud il maniero dei Rookwood. Sotto i nostri piedi,
si percepiva appena il rumore del ghiaccio che s’incrinava e
della ghiaia che faceva attrito. Era una notte di luna piena, fredda,
di quel gelo che però non riusciva a penetrarmi le ossa,
solo perché ossa e sangue, in me, erano già
freddi come la morte. All’improvviso vedemmo che i nostri
compagni, non sapendo dell’errore di McNair e quindi della
probabile presenza di ministeriali nella zona, stavano facendo le cose
in grande. Le fiamme si alzarono da un gruppo di case isolate,
precedute da un sordo boato, Bella fremette, come una belva che annusa
nell’aria il sangue, si voltò verso di me,
irridente, pronta a sbeffeggiarmi come suo solito, avanzammo per i
vicoli, come ratti, per avvicinarci: lei voleva festeggiare, io
limitare, se possibile, i danni. Quando intravidi qualcosa nel cielo,
una striscia rossastra, poi un’altra, capii e ghermii Black
per un braccio, schiacciandola al muro
nell’oscurità del vicolo che stavamo percorrendo.
Provò a ribellarsi, serrava la bacchetta, io le misi una
mano sulla bocca e le feci cenno di ascoltare. Dopo un attimo di
smarrimento, non sapevo se avesse temuto o avesse sperato che me la
volessi scopare, come uno dei tanti che frequentava, lì, al
buio, contro il muro, udì anche lei le voci degli Aurors che
si scambiavano ordini secchi, perché la casa fosse
accerchiata e facessero irruzione: non potevamo permettere che i nostri
compagni fossero catturati, ne andava anche della nostra sicurezza. Mi
chiesi come si potesse essere tanto idioti da lasciare tante tracce
dietro di noi, come stavamo facendo quella notte. Non c’era
tempo per mandare un “Patronus” per chiedere aiuto,
mi guardai attorno, Bella voleva assaltarli senza prima organizzare un
piano, io mi accorsi di una casa non troppo vicina, apparentemente
abbandonata e lanciai degli incantesimi silenziosi perché
sembrasse prendere fuoco dall’interno. I Ministeriali di
guardia andarono a verificare, lasciando senza guardia la casa e noi
entrammo a dare manforte. Rookwood, Carrow e Wilson erano in
inferiorità, Bella ed io colpimmo gli Aurors alle spalle,
schiantandoli e lasciandone tre svenuti a terra. Per le scale, intanto,
sentimmo gli altri tre che, capito il trucco, erano già di
ritorno; ci nascondemmo nella camera, dove due babbani atterriti si
stavano appena riprendendo dai precedenti
“schiantesimi” e non riuscivano a capire cosa
diavolo stesse accadendo in casa loro. Ci difendemmo bene, mettemmo di
nuovo sotto gli Aurors, ma sapevamo tutti che ne sarebbero presto
arrivati degli altri. Bella voleva prendere i babbani, per essere
quella con più prede catturate in una sola notte, ma la
donna le sfuggì, mentre Rookwood colpiva di nuovo
l’uomo e se lo caricava in spalla. Corsi per le scale dietro
a Bellatrix, deciso a fermarla o aiutarla, dovevamo sbrigarci, presto
sarebbero arrivati nuovi miniseriali. E, infatti, l’Auror
entrò proprio in quel momento, mentre Bellatrix colpiva la
donna alle spalle ed io ero ancora nell’oscurità
delle scale; sollevò la bacchetta contro di lei, che come
una ragazzina sbavante davanti all’albero di Natale,
festeggiava emozionata la sua prima preda, catturata tutta da sola.
L’Auror la puntò. Io pensavo che meritasse di
morire, che avrei voluto sollevare io stesso la bacchetta, lanciare un
“Avada”, e poi schiantare l’Aurors e
confonderlo, così che credesse di aver ucciso lui la nobile
Bellatrix Black. Volevo farla finita una volta per tutte, sollevai
anch’io la bacchetta e pronunciai l’incantesimo
silenzioso. L’Auror crollò a terra, schiantato e
privo d memoria degli ultimi fatti, mentre Bellatrix, spaventata, si
voltava e lo vedeva crollare a terra, poi vedeva me,
sull’ultimo gradino, che uscivo dall’arco oscuro
della porta. Le avevo appena salvato la vita, e non poteva crederci.
Non riuscivo a capirlo e a crederlo nemmeno io.
*
Il maniero era fatiscente, ovunque c’erano assi sconnesse, un
odore di chiuso e di muffa, tappezzeria staccata alle pareti, mobili di
un tempo passato, ricco, ma in declino: era un’antica
residenza di qualche casato estinto, abbandonata ormai da decenni. Di
fronte a me c’erano un tavolo lungo, davanti a un caminetto
ormai spento, e sedie, tante sedie, alcune occupate, altre no;
c’era gente stravaccata a terra, seminuda, sbronza, altri
ancora stavano scopando nel buio, da qualche parte: dal corridoio erano
arrivati per tutta la notte gemiti inequivocabili. Stretto nel mio
angolo, da cui non mi ero mai spostato, impietrito, da quando ero
arrivato lì con gli altri, alzai gli occhi da terra,
ritraendo appena il piede: quel rivolo di sangue stava arrivando a
lambirmi le scarpe, erano già tre volte che
impercettibilmente mi spostavo, e con un leggero incantesimo facevo
defluire quel vischioso rosso carminio, che non accennava a raggrumare,
lontano da me. Dalle persiane sconnesse filtrava l’alba del
nuovo anno: avrei dovuto essere a Loch Moidart, a veder sorgere il sole
dopo un rito di purificazione, non dopo una notte di sangue e di
orrore. Tutto avrei creduto, tranne di riuscire a sopravvivere a una
notte come quella: erano tutti morti… tutti…
tutti i babbani che le squadre avevano raccattato in giro per la
città e la campagna… li avevano tramortiti e
rapiti e condotti in quello che, evidentemente, era il quartier
generale delle bestialità di quel branco di folli. La
chiamavano Little Hangleton, ma non l’avevo mai sentita
nominare, non avevo idea di dove fossimo. Quando eravamo usciti dalla
casa di Rookwood, con le prede in mano, Steve mi aveva detto di nuovo
che potevo andarmene, come aveva fatto anche con Bella. Era stato
tremendo, eravamo ancora scossi, mi disse che era meglio fingere di
essere stato a una festa rispettabile, di non far intendere in nessun
modo che avevo partecipato proprio a quella “caccia al
babbano”, ma io volevo andare fino in fondo, dovevo vedere,
volevo vedere cosa ci fosse in fondo alla strada che stavo per
imboccare… Avevo colto di nuovo lo sguardo diverso che mi
rivolgeva Bella: sembrava lo stesso di tanti anni prima, quando mi
ammirava. Voleva parlarmi, ma non me ne curai. Quello era stato il mio
vero momento di debolezza, ma mi ero ripromesso che, appena si fosse
ripresentata l’occasione, mi sarei vendicato di lei, senza
altri scrupoli. Quella notte avevo compreso anche che tutto quello che
diceva mio padre era la verità: se quelli erano gli uomini
di Milord, o gente che stava per diventarlo, allora lui stesso era solo
un impostore, che usava mezzi indegni per scopi che non erano certo
costituire un governo migliore; stava allestendo un esercito di
assassini e mercenari, che di certo non era finalizzato a dare una
speranza al mondo magico, come invece poteva fare la nostra
Confraternita. Ad ogni frustata, ad ogni colpo, ad ogni risata, quella
verità penetrava più a fondo in me: avevo sentito
parlare delle cacce al babbano fin da bambino, ma mio padre aveva
sempre fatto in modo che non ne sapessimo più di tanto,
sicuramente per proteggerci, perché nessuno, a Herrengton,
poteva pensare di macchiarsi le mani in quel modo. Fissai di nuovo quel
sangue e feci un altro mezzo passo indietro. All’improvviso,
gli altri, pur confusi e spossati dopo una notte di delitti e di
sangue, si alzarono in piedi eccitati: mi chiesi che
cos’altro doveva ancora succedere. E fu allora che fece il
suo ingresso Lui, nella sua veste povera, nera, autoritario con la sua
sola presenza e maestosità, seguito da Rodolphus. Si
divincolò da quanti si prostravano ai suoi piedi, fece
correre lo sguardo tutto intono a sé, alle spoglie nude e
ferite delle prede, al sangue che ancora gocciava dal tavolo sul
pavimento. Estrasse la bacchetta dalla manica e le sue mani
scheletriche, nervose e rapide, trasfigurarono quei poveri resti in
polvere, e il sangue sparì dalle travi di legno. Tutto,
tranne quel rivolo che puntava, inesorabile, ai miei piedi e che io,
con gli occhi fissi, cercavo di mantenere lontano da me.
“Vi auguro Buon Anno, amici
miei, un anno ricco e fruttuoso per voi e i vostri
progetti…”
Ci guardò uno a uno, mentre la schiera di elfi, introdotta
da Rodolphus, distribuì altri beveraggi per i brindisi.
Puntò gli occhi su di me, sorpreso di vedermi, con un cenno
del capo chiamò Lestrange e bisbigliò qualcosa al
suo orecchio.
“Bene… Siamo tra
amici, siamo tutti obbligati da un voto di silenzio, pena la morte, ma
dopo una notte di sangue, di purificazione, ecco giungere una mattina
di gioia e speranza; Rookwood, Carrow… mi compiaccio delle
vostre offerte, venite qui…”
Augustus e Amycus si alzarono dalla sedia all’istante, lo
raggiunsero e s’inginocchiarono davanti a lui. Il Signore
Oscuro non mi staccava gli occhi di dosso, io lo guardai con terrore e
molta indecisione, Rodolphus si avvicinò di nuovo a lui e
gli bisbigliò qualcosa che parve non convincerlo del tutto.
Continuava a fissarmi, al tempo stesso stupito e affascinato. Forse
avevano scoperto del ragazzino e ora avrebbe chiesto a Rookwood di
cruciarmi fino ad uccidermi: dopo tutto quello che avevo visto quella
notte, non mi sembrava più un’ipotesi tanto
remota. E forse, se l’unica strada per riavere Sile era
diventare un mostro, era meglio morire subito e non soffrire oltre.
“Sollevate la manica
sinistra…”
I miei due ex compagni di Serpeverde, speranzosi e inginocchiati ai
suoi piedi, sollevarono la manica e porsero l’avambraccio
sinistro al loro Signore… Sibilando in serpentese, Milord
poggiò la bacchetta sulla pelle candida di uno e
dell’altro e, improvvisamente, come avesse richiamato una
Runa del Nord, vidi comparire sulla loro pelle, la stessa figura che
avevo imparato a riconoscere.
“Giuro di servirvi, di
proteggere con la vita la causa, per la gloria di Salazar…
ripeti Rookwood…”
Augustus ripeté, poi il rituale toccò ad Amycus
… Milord li fece alzare poi li baciò sulle
guance, e li rispedì al loro posto. Alla fine si
voltò verso di me, che avevo osservato tutto il rituale teso
e pallido come un morto, non mi rivolse alcuna parola,
iniziò, però, a girarmi attorno, in cerchi
concentrici, sempre più ravvicinati, iniziò a
bisbigliare piano, in serpentese, ma le sue parole, per me non avevano
senso, non capivo quella lingua, non la parlavo. Non l’avevo
mai parlata.
“Potete tornare dalle vostre
famiglie, abbiamo finito… Tutti, ma non tu,
Sherton… dobbiamo parlare…”
Lo guardai, non capivo, gli altri mormoravano sommessi e delusi che
fosse già tutto finito, io sentivo su di me lo sguardo
preoccupato e inquieto di Rodolphus.
“Lestrange, ho
fretta…. Fai in modo che se ne vadano subito via,
tutti!”
Milord mi ghermì il braccio e mi trascinò dietro
di sé, si muoveva rapido, con ampie falcate, cui stentavo a
star dietro, attraverso un lungo corridoio, tetro e particolarmente
soffocante, scendemmo delle scale, fino a raggiungere quella che doveva
essere una cantina, allestita come il sotterraneo di un qualsiasi Mago
che si prodighi nelle Pozioni.
“Siediti!”
C’erano tre sedie, due eleganti, simili a quelle del piano di
sopra, e un semplice sgabello da lavoro: pensando come uno sciocco che
mi avesse portato lì per mettermi alla prova con il
calderone, mi diressi verso il tavolo da lavoro con lo sgabello. Il
gesto sembrò colpirlo, ma non disse nulla.
“Tra quanti anni prenderai le
prossime Rune del Nord?”
“Tra poco meno di due anni,
nel giugno del ‘71, Milord…”
“Non hai ancora venti
anni… Bene… molto bene… ora se
permetti… LEGILIMENS!”
Mi colse alla sprovvista, cercai di opporre resistenza ma sapevo che
non ci sarei riuscito del tutto: non sembrava però
interessato a indagare a fondo, voleva solo rivedere, attraverso i miei
occhi, gli eventi di quella notte. Si compiacque nel vedere un vecchio
ridotto a stupida e oscena marionetta, mentre Pucey, per il proprio
compiacimento e per quello dei suoi compari lo faceva ruotare per aria.
Una morsa mi aveva preso allo stomaco, mi ero chiesto che diavolo ci
facessi io lì. Augustus, poco lontano da me, sembrava in
estasi, aveva alzato la bacchetta per richiamare il vecchio a
sé, l’aveva cruciato senza pietà, poi
l’aveva gettato ai miei piedi e lì avevo visto
quel corpo contorcersi dal dolore. L’uomo, agonizzante, mi
aveva puntato i suoi occhi ormai velati addosso, era ancora vivo e mi
chiedeva pietà, ed io come un codardo non ero riuscito a
finirlo… Non c’ero riuscito… il sangue
usciva dalle sue ferite al volto e sul corpo e bagnava il pavimento e
lambiva le mie scarpe, ma io ero stato capace solo di ritrarmi
inorridito: mi ripetevo che nessuno Sherton aveva mai toccato il sangue
della feccia, perché anche solo versare il loro sangue era
una macchia sul nostro onore. Milord smise di leggere i miei ricordi,
proprio mentre ero arrivato al momento in cui Rookwood mi aveva puntato
gli occhi addosso e capendo il mio turbamento, aveva lanciato al mio
posto un “Avada” facendo morire quel poveretto ai
miei piedi.
“Ci sono mezzi più
rapidi e che non prevedono spargimento di sangue, per liberarsi della
feccia… non devi lascarti frenare da questa vostra strana
debolezza, Sherton…”
Aveva un sorriso strano sulla faccia, non mi capacitavo di cosa stesse
accadendo, di cosa volesse da me.
“Mi farebbe piacere rivederti
alla nostra prossima riunione… Anche se, finché
non avrai il tuo marchio, non potrò dirti molto delle nostre
iniziative…”
“Vorrei far parte della sua
cerchia, Milord, per tanti motivi, ma mi rendo conto da solo che non
riuscirò mai a esserne all’altezza: il mio mondo
sono filtri e pozioni, alambicchi e sotterranei…
e… scope da Quidditch… non sono una persona
d’azione e il sangue babbano mi ripugna…”
“Sì, lo sapevo
già, so tutto della tua famiglia e so tutto d te…
ma ci sono molte cose da fare per la nostra causa… non
saresti obbligato a uccidere, né ora né in
seguito, se non è nella tua natura… ma vedo che
ormai sei pronto per me, tu non sei mosso da teorie, come gli altri,
non ardi di stupide ambizioni, tu hai veri desideri ed io, se
vorrai… Io ho molto da darti, Mirzam Sherton…
come tu hai molto da dare a me… Permettimi di conoscerti e
di farti conoscere quello che solo a pochi rivelo, il grande progetto,
quello che renderà il nostro mondo migliore per tutti
noi… non c’è solo quello che hai visto
questa notte, io non c’ero questa notte, perché,
come te, anch’io ho bisogno di altro, tu sei
un’anima a me affine, Mirzam Sherton… Spero che
vorrai vedere di là di tutto questo… solo
vedere… la ricompensa per te andrà di
là dei tuoi desideri più
profondi…”
Mi sentivo avvinghiato come tra le spire di un serpente, non riuscivo
quasi a parlare, soggiogato da quella voce e da quella presenza. Poi si
allontanò, la sua voce sembrò tornare umana alle
mie orecchie, ma si ergeva ancora di fronte a me, sembrava
l’incarnazione dell’Eden, carico di promesse,
bastava solo allungare la mano.
“Prenditi tutto il tempo
necessario, Mirzam, ora però, prima di salutarci, vorrei
chiederti un piccolo favore: vorrei che recapitassi per me un messaggio
a tuo padre… ho un grande desiderio di rivedere anche
lui…”
“Lo conoscete già,
Milord? Io non lo sapevo… Gli porterò la lettera
oggi stesso, personalmente…”
“No, non si tratta di una
lettera… Naturalmente quello che è successo qui,
stanotte, deve restare tra noi, inutile condividerlo con tuo
padre… sarebbe spiacevole per tutti se si sapesse, dico
bene?”
Annuii e Milord prese da un armadio una vasca simile al pensatoio che
avevo visto nella stanza di mio nonno, una volta, a Herrengton: non
sapevo che fine avesse fatto dopo la sua morte, non l’avevo
più trovata. Immaginai che sarebbe andato a prendere una
boccetta o si sarebbe estratto un ricordo in quel momento, invece disse
di guardare dentro, quello che dovevo vedere era già
lì che mi aspettava. Mi accorsi subito che non si trattava
di un ricordo… mi sentii risucchiare in qualcosa di caldo,
vischioso, soffocante.
Il fuoco era ovunque,
persino nel cielo, carico di un pesante color rosso sangue: nelle
sagome ritorte e prive di vita che mi circondavano, riconobbi appena il
bosco di Herrengton. Mi guardai attorno, con sgomento vidi che anche
dalle cime degli alberi che celavano la torre meridionale, si levava
alta una minacciosa colonna di fumo. Iniziai a correre, oppresso e
soffocato da calore, sudore, fumo; a fatica affrontai la miriade di
gradini riarsi, su, sempre più su, fino ad arrivare
strisciando al cortile delle rose. E ritrovarmi lì, senza
avere più nemmeno il fiato per urlare tutto il mio orrore.
L’impotenza mi morì in gola: delle cinque torri di
Herrengton non restavano che ruderi fumanti, del giardino delle rose,
un patetico scheletro carbonizzato, e in mezzo alla devastazione del
mio mondo, un piccolo lembo di seta rossa. Tutto ciò che
rimaneva della bambola di mia figlia… Crollai a terra, rotto
dalla disperazione e dal pianto. Poi, nell’immane silenzio
che mi circondava, sentii qualcosa in lontananza, i singhiozzi di una
bambina.
“Meissa!”
Ripresi a correre come
un pazzo, senza neppure sapere dove andavo: non esisteva più
niente, solo vita bruciata, solo fiamme che arrivavano a tuffarsi
nell’oceano, rompendo il colore mercurio delle acque di
bagliori fatti di fuoco e di sangue.
“Alshain… Solo tu puoi fare qualcosa
perché non succeda…”
Una voce sibilante in
serpentese, dietro di me, mi fece sussultare. Io non avevo mai parlato
né compreso il serpentese, guardai le mie mani, non erano le
mie, erano più grandi, erano quelle di mio padre…
Io ero mio padre. Mi voltai, ma non c’era già
più nessuno. In lontananza, però, le torri degli
Sherton svettavano di nuovo magnifiche e alte nel cielo, stagliate nel
rosso, ora sereno, del tramonto. Sentivo dolore, un rivolo di sangue mi
scendeva dal braccio ma non sapevo come mi fossi ferito, lo sollevai e,
sconvolto, non riuscii a trattenere un grido, di paura e dolore: vidi
il marchio di Salazar Slytherin che sanguinava copioso. La leggenda
diceva che il vero erede di Salazar Slytherin si sarebbe rivelato
all’erede del suo discepolo marchiando il suo stesso corpo
col sangue… Gli Slytherin aspettavano quel segno da secoli.
Ed ora, tutto si compiva.
Mi svegliai a terra, col cuore in gola, sudato e tremante, preda di
atroci domande, ma nella stanza del sotterraneo non c’era
più nessuna traccia di Milord, nessun cenno di vita.
Non c’era più il pensatoio e i miei vestiti
puzzavano di fumo e d’inferno. La camicia era zuppa di
sangue, ma sapevo che non era il mio sangue. Non sapevo cosa mi avesse
fatto, ma ora, a qualsiasi costo, dovevo andare avanti.
***
Mirzam
Sherton
Herrengton Hill, Highlands - lun. 19 gennaio 1970
Avevo scritto a Meda. Di nuovo. Ancora. Da quando mi aveva detto che
era vero, che con quel Ted erano “…
amici… solo amici…” e
“… non c’è nulla di
male…”, per me era diventata un’altra
ossessione. Lei non si rendeva conto dei guai in cui si stava
cacciando, ma io che, al contrario di lei, avevo saputo del trascorso
“babbano” di suo zio Orion e della vera natura
della sua strana malattia, ero consapevole che certe cose, a casa
Black, si potevano lavare persino col sangue… E dopo aver
visto all’opera Bellatrix, quella notte nel Cornwall, non
osavo immaginare cosa sarebbe arrivata a farle! Dovevo farla ragionare,
e quel giorno, a Hogsmeade, aveva dovuto ascoltarmi. In
quell’occasione mi aveva confidato che, a Natale, solo per
un’osservazione ingenua di Narcissa sulle sue amicizie a
scuola, suo padre l’aveva ripresa e punita severamente. E che
il clima, ormai, a casa Black era insostenibile, anche
perché Bellatrix sembrava aizzarli sempre di più
contro di lei, presa com’era dalla sua esaltata fissazione
per quel famoso Mago Oscuro che tutti a Black Manor chiamavano
“Milord”. Non c’era stato bisogno di dire
altro per capire che cosa stava succedendo. Mi sentivo soffocare,
ovunque guardassi, vedevo le spire di Lord Voldemort serrarsi sempre
più attorno a me e alle persone che amavo. Avevo cercato di
farle capire che cosa poteva provocare anche un semplice pettegolezzo:
se si era accorto Rigel, anche il fratello di Rodolphus poteva
riportare quella strana novità a suo padre e Roland avrebbe
riferito e fatto presente a Cygnus la situazione. Le cose non potevano
che degenerare a quel punto. I Black avrebbero subito provato a
stroncare sul nascere qualsiasi chiacchiera, se era così
evidente da far parlare non solo Narcissa ma persino gli estranei:
l’avrebbero messa ancor più sotto stretta
sorveglianza, l’avrebbero potuta togliere dalla scuola,
distruggendo tutti i suoi sogni per il futuro, l’avrebbero
incastrata con uno di quei matrimoni che aborriva. Quando avevo saputo
che anche McNair ora aveva iniziato a frequentare Black Manor con certe
intenzioni, ricordando la folle crudeltà di quel ragazzino,
mi ero sentito male per lei… Avevo perso il sonno ed ero
caduto nel panico: era solo colpa mia, se Meda era esposta a quelle
belve. La sua vita rischiava di cadere a pezzi, solo per uno stupido
“Mezzobabbano”.
Meda, che non poteva non rendersi conto che sarebbe davvero finita
così, era rimasta di sale alle mie parole, forse si
aspettava comprensione da me, ma io le avevo parlato con estrema
serietà e una certa durezza. Per lei, Ted era ancora solo un
amico, ed io le credevo, ma vedevo che non voleva già
nemmeno prenderla in considerazione, l’unica cosa che era
ragionevole e giusta: lasciar perdere quella pazzia. Sicuramente ne
faceva solo una questione di principio e se non si fosse trattato di un
“mezzo babbano”, io le avrei anche dato ragione.
Però per un “mezzo babbano”, no! No, non
per uno così, lei non poteva gettare al vento tutta la sua
vita. Non sapevo se ero riuscito a convincerla, di certo
l’avevo scossa abbastanza. Mi chiesi se non fosse il caso di
affrontare anche lui: se era davvero un amico, avrebbe agito di
conseguenza, per non metterla nei guai. Sapevo, però, che
infondo era solo Sanguesporco, e di loro non c’era mai da
fidarsi: quasi sicuramente le ronzava attorno, animato da desideri
indegni e non mi sarei stupito se metterla nei guai, lei, una nobile
Black, fosse una sfida che si era prefisso di vincere.
Perciò quando la vidi allontanarsi mesta e confusa, sapevo
già, dentro di me, che dovevo prepararmi al peggio, a fare
qualsiasi cosa per lei, perché tutto faceva supporre che non
avrei ottenuto niente con le buone maniere. Nemmeno in quel caso.
***
Mirzam
Sherton
74, Essex Street, Londra - sab. 31 gennaio 1970
Mi alzai e guardai fuori dall’ampia finestra che si apriva
sulla parete di fronte, consentendo una vista completa dalla strada
fino al fiume. Si stava facendo sera, mio padre era rimasto a
Herrengton con Meissa, mia madre ed io eravamo andati a Londra per
acquisti e c’eravamo fermati a Essex Street per cercare dei
vecchi abiti lasciati lì tanto tempo prima. Come tutto il
resto di Londra, anche la nostra strada era ammantata da una candida
coltre di neve, che ricopriva i gradini d’accesso alle case,
le macchine parcheggiate lungo i marciapiedi, i lampioni, le insegne e,
sullo sfondo, gli alberi che digradavano verso il Tamigi, le banchine
deserte, gli imbarchi e i tetti della città di là
del fiume. Di lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per
sempre e un fremito di odio e sconforto, fusi insieme, mi spinse a
ritornare al mio posto. Era la scelta migliore che potessi fare, senza
dubbio, avrei agito poi me ne sarei andato per sempre, la decisione
più opportuna per me e per la mia famiglia: significava
libertà dal dolore e sicurezza per gli altri, non volevo
subissero le conseguenze delle mie azioni. Mi scostai una ciocca dal
viso e tornai a sedermi al piano, scorrendo rapido con le dita sulla
tastiera e strappando a quello strumento la più sincera
manifestazione di ciò che avevo dentro. Mi veniva da ridere,
al pensiero che riuscissi a esprimere me stesso attraverso un oggetto
babbano: dopo tutto quello che avevo fatto nella mia vita per liberarmi
da certi fantasmi, era davvero sorprendente e ridicolo e poco
conveniente. Ma io ero tutto questo: un’assurda accozzaglia
di contraddizioni. E dovevo ringraziare ancora una volta mio padre se
ero fatto cosi. Anche il resto della mia famiglia era come me, ma io,
al contrario degli altri, da sempre cercavo di fare di tutto per
annullarle, invano. Cercai di liberare la mente, le ore che mi
attendevano richiedevano tutta la mia calma: non sapevo nemmeno se
sarei stato capace di fare tutto quello che avevo in mente. Ero
nervoso, avrei abbandonato Meissa e non l’avrei rivista mai
più, proprio ora che si avvicinava il suo ingresso a
Hogwarts e più avrebbe avuto bisogno di me: avevo fallito
anche con lei, per il suo bene era meglio uscire dalla sua vita il
prima possibile. Ero orgoglioso di lei, glielo avevo scritto nella
lettera che le sarebbe arrivata appena avessi fatto tutto secondo
programma: non dubitavo del suo temperamento, sapevo che avrebbe
ottenuto un giorno per se stessa e per la nostra famiglia
ciò che desideravamo da generazioni. Lo sapevo e non
c’entrava niente quello che avevo visto fare a Habarcat, o la
maledizione o duemila altre cose. Ero convinto di essere
l’unico a conoscerla davvero, anche più dei nostri
genitori che l’amavano tanto. Meissa era molto più
di una sorella per me, sapevo che l’affetto che provavo per
lei era superiore a quello che provavo per gli altri; era
l’unica persona al mondo per la quale avrei fatto
l’impossibile, l’unica cui tenevo davvero, anche se
non sapevo perché. Mi guardai la sottile linea di Rune che
solcava il mio palmo, testimone silenzioso del legame che ci aveva
imposto nostro nonno. Mi chiedevo se fosse solo per quello. Uno degli
aspetti che mi avevano trattenuto in quegli ultimi venti giorni di
tormento, era stato il pensiero di lei, eppure oramai sapevo che solo
allontanandomi potevo rispettare l’impegno che avevo preso,
quello di proteggerla a costo della vita.
“Che melodia triste,
Mir… Non puoi suonare qualcosa di più adatto a un
giorno di festa? È Imbolc, ricordi?”
“Appunto, non
c’è molto da festeggiare,
oggi…”
Mi fissò, preoccupata: col passare dei giorni,
all’avvicinarsi della cerimonia, il suo sguardo si faceva
sempre più attento e indagatore, sembrava percepire le mie
paure più profonde. Mi conosceva bene, sapeva che stavo
covando qualcosa, ma per il suo bene, non dovevo dire nulla. Alzai lo
sguardo su di lei, seduta sul divano di fronte a me, con dei vecchi
abitini di mia sorella in mano, lo sguardo commosso a rivelare dove
stavano perdendosi i suoi pensieri in quel momento. Con mio padre non
facevo che scontrarmi, poteva essere per la politica, o per questioni
di gioco, o per le mie frequentazioni, non importava il motivo,
litigavamo sempre più spesso: dopo una breve tregua, nelle
ultime settimane le sue espressioni avevano smesso di essere
incoraggianti, non faceva altro che criticarmi e aveva cercato di
dissuadermi in ogni modo, quando gli avevo detto chiaramente come la
pensavo su Voldemort. Quando gli avevo detto, solo in parte, del
“ricordo”, era impallidito, non sapevo come avesse
fatto Milord a impossessarsene, ma avevo capito subito che quello era
un sogno di mio padre, che lui conosceva fin troppo bene. Si era
ripreso subito da quell’attimo di smarrimento, mi aveva
accusato di non essere in grado di mettere a frutto le lezioni di Fear,
che ero uno stupido, che avrei rovinato tutti quanti, stando dietro a
Rodolphus e affrontando le situazioni senza la dovuta attenzione. Da
come mi guardava, sembrava che non fossi più suo figlio. Mi
ricordava lo sguardo che il nonno gli riversava addosso, ed ero
convinto che non fosse solo una mia impressione. Mia madre invece era
sempre la stessa, preoccupata per me, con quella straordinaria
capacità di guardarmi fino nel fondo dell’anima:
non resistevo a lungo a quello sguardo, era l’unica persona
al mondo capace di farmi riflettere e vergognare, anche senza dire una
parola. Era la persona che temevo di più. Eppure, nonostante
i dubbi che mia madre riusciva a instillarmi nella mente con un solo
sguardo e il chiaro risentimento che mio padre mi riservava, non
riuscivo a tornare sui miei passi. Non riuscivo a vedere cosa ci fosse
di sbagliato nei miei propositi. Non capivano che la nostra strada era
segnata da sempre? Che era l’unica via per sopravvivere,
almeno per una parte di noi?
“Vieni qua,
Mirzam…”
Mi avvicinai: chi non ci conosceva poteva pensare davvero che fosse una
mia sorella più grande, non mia madre. Andai a sedermi
accanto a lei, mi prese la mano nella sua, calda e profumata, me la
portai alle labbra per baciarla, respirando quello che da sempre era
l’odore che più amavo: amore e fedeltà.
Mi accarezzò il viso e mi scostò una ciocca dagli
occhi.
“Non smetterai mai di essere
mio figlio, Mirzam: può accadere tutto ciò che ci
riserva il destino, ma tu sarai sempre mio figlio… E questa
sarà sempre la tua casa, e qui ci sarà sempre la
tua famiglia… Se non sei convinto di ciò che stai
per fare, di qualsiasi cosa si tratti, non farlo! Non devi curarti di
niente, non devi preoccuparti di niente, tuo padre ed io ti saremo
accanto in ogni lotta…”
Mi sorrise incoraggiante, voleva mi aprissi come da bambino, ma quella
era una battaglia solo mia e il mio modo per far vincere loro la guerra
era allontanarmi, perché ero l’anello debole della
nostra famiglia. Scorsi con gli occhi all’orologio affisso
alla parete di fronte, nel giro di pochi minuti me ne sarei andato,
forse quello era davvero l’ultimo istante tutto per noi.
Appoggiai la testa sulla sua spalla, lasciando che mi accarezzasse come
quando ero un bambino: stavo assaporando per l’ultima volta
il piacere di essere solo un figlio. Suo figlio. Il mondo che mi
attendeva era l’ignoto. Una parte di me bramava immergersi in
quel buio, spinto dall’orgoglio del sangue puro che mi
scorreva nelle vene, l’altra parte non voleva andarsene,
lasciare volontariamente tutto quanto, allontanarmi da tutto
ciò che amavo. Come al solito mi sentivo diviso in due e
soffocavo dentro, nell’eterna lotta tra i precetti di mio
padre e quello che sentivo essere giusto per quelli come me, come noi.
Il silenzio ovattato fu interrotto: l’orologio del salone,
quello che Sile aveva tanto ammirato la notte passata lì a
Essex Street insieme con me, battè le 20,30. Era il momento:
il fatto che il tempo fosse stato segnato proprio da quel pendolo mi
sembrava un chiaro segno. Eravamo alla resa dei conti. Il cielo ormai
si era chiuso nel buio della notte e una miriade di fiocchi di neve
riprendeva a scendere soffocando tutti i suoni. Tutti, tranne le solite
voci che non riuscivo a far tacere nella mia mente. Mi alzai e ammirai
mia madre per quella che pensavo fosse l’ultima volta.
“Devo
andare…”
“Andare? Come sarebbe? Non
torni con me a Herrengton? Ci metto solo un momento a chiudere tutto,
tuo padre e tua sorella ci aspettano per il sabba…”
“Devo fare una cosa, vedere
una persona… Torno appena possibile…”
“Non andrai di nuovo da
Rodolphus Lestrange?”
Non risposi, non c’era bisogno di parlare… Mi
smaterializzai, sotto gli occhi allibiti e ancor più
preoccupati di mia madre. Lei forse lo sapeva già: quella
notte suo figlio doveva morire e al suo posto sarebbe rinato un uomo
nuovo.
*continua*
NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti,
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Valeria
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