Bacio
di mezzanotte
(She
will be loved)
Inverno.
Un freddo inverno. Inizio dicembre.
Stoppai
James Morrison che mi cantava nelle orecchie Get to you e mi fermai ansimando
su una panchina ghiacciata. Faceva un freddo cane ma la corsa mi aveva sufficientemente
scaldato. Osservai il mio respiro condensarsi in pallide nuvolette davanti ai
miei occhi, ricordavano anelli di fumo.
Mi
ritrovai a pensare a come era stato difficile smettere di fumare. Papà me lo
aveva sempre detto, e io allora, da adolescente ribelle quale ero, non gli
avevo dato ascolto: fumare è male, è un orribile vizio e smettere è quasi
impossibile. Quante volte me lo doveva aver ripetuto? Avevo perso il conto.
Eppure io avevo smesso. Grazie a cerotti alla nicotina, dolci ed una volontà di
ferro, ero riuscito a togliermi quell’orrenda dipendenza!
Posai
la testa sulle ginocchia cercando di riprendere fiato: era come se nei polmoni
al posto dell’aria ci fosse del fuoco. Terribile, assurdamente doloroso.
Lentamente le fiamma si spensero e il cuore tornò a battere ad un ritmo più
accettabile. Un rumore mi fece alzare lo sguardo, e il mio cuore si fermò:
guardai la ragazza che faceva jogging, venendomi incontro a passo veloce. Senza
accorgermene avevo smesso di respirare, per poterle prestare tutta
l’attenzione possibile. Non appena fu più vicina però, ripresi aria. Non
era tanto alta, mi arrivava giusto alla spalla, i capelli legati in una coda di
cavallo, in questo poteva sembrare proprio lei, ma indossava una tuta rosa
sgargiante, no, impossibile, lei non lo avrebbe mai fatto: aveva una vera
avversione per tutto ciò che era anche solo vagamente rosato. Tentai di
ignorare la delusione che, come personificata, mi si era seduta affianco, mi
aveva dato un pugno nello stomaco e poi se ne era andata ridendo di me…
Non era lei. Ancora una volta non era lei. Mi poggiai allo schienale della
panchina e buttai la testa all’indietro con un sospiro.
Dodici.
E
con questa eravamo a dodici nell’ultima settimana: dodici volte che il
cuore mi si era fermato, l’aria bloccata nei polmoni e la vista
appannata. Ma per niente. Scherzi della mente, o forse del cuore dovrei dire:
perché ciò che desideravo con tutto il cuore era vedere lei. Per ben dodici
volte mi era sembrato che fosse così e invece no… Chiusi ancora una volta
gli occhi sperando che almeno questa volta non succedesse. Invano. Eccola.
La
marea mi investì. Ed ero di nuovo perso nei ricordi. Irrimediabilmente.
Sapevo
che non era salutare, me lo avevano detto in tanti che mi facevo solo del male
ricordando. Non potevo farci niente però. Chiamatelo masochismo, chiamatela
sindrome del surfista impazzito ma io non potevo voltare le spalle a
quell’onda: stava arrivando per me e non potevo assolutamente cercare di
evitarla.
Correvo. Correvo con lei.
Lei che continuava solo grazie alla sua
forza di volontà, erano passati solo sei minuti ma già era esausta.
Non voleva dare a vedere che non ce la
faceva più, ma io la conoscevo troppo bene. Continuai ad osservarla divertito.
Un rivolo di sudore le scendeva lungo la tempia e il respiro le era diventato
sconnesso. Per me quei sei minuti non erano niente. Soprattutto visto che avevo
adattato la mia falcata alla sua… e normalmente nello stesso tempo io
avrei percorso almeno un chilometro in più. Ma non mi importava, non me ne
importava niente. Ero con lei. Solo questo era importante. Quando con la mano
si scostò dal viso una ciocca di capelli ribelle non ce la feci più. Mi fermai
di colpo, la presi per mano e la attirai impaziente a me.
Lei. A meno di un respiro da me. Mi
guardò sorpresa. Con quei suoi grandi occhi da cucciolo. E io sorrisi.
Innamorato perso sorrisi. Che potevo
fare altrimenti? Lei era lì con me. Tra le mie braccia. Solo mia. E mi
sorrideva. La strinsi a me ancora più forte e la baciai. Eravamo entrambi
sudati. Lei era esausta, io solo un po’ stanco. Le strinsi i fianchi e la
sollevai un po’. Lei mi passò allora le braccia attorno al collo. Ci
staccammo un attimo per guardarci negli occhi. E mi persi nei suoi. Fu lei
questa volta ad attirarmi di nuovo a sé, donandomi un altro dei suoi preziosi
baci. E poi un altro, e un altro ancora, finché non ci dimenticammo
completamente di dov’eravamo. Chi se ne importava, in fondo? Eravamo nel
bel mezzo della strada. Davanti a tutti, a tanti occhi curiosi e invidiosi. Ma
non importava. Non contava nient’altro che lei.
Lei fra le mie braccia. Lei mia.
Semplicemente lei.
Tornai
in me. Mi passai le mani sulla faccia. Nessuno meglio di me sapeva quanto era
doloroso immergersi nei ricordi: una sofferenza acuta, quasi fisica, che ti
abbatteva all’inizio e ancora di più, quando volutamente o meno cercavi
di liberartene, ti affibbiava il colpo di grazia, quello decisivo, il più
brutale di tutti.
Non
dovrebbe essere così: dovrebbe essere piacevole ricordare, ricordare i bei
momenti. Come quando apri un album di fotografie e sorridi rivedendoti,
divertito da quei pezzi di carta in grado di far tornare alla mente momenti
dimenticati. Ma quando hai perso ciò che rendeva belli i ricordi che fai? Non
ti rimane altro che piangere. Mi guardai attorno: il parco era completamente
deserto, la ragazza che mi era passata davanti era ormai solo un puntino
indistinto. Qualcosa mi rimbombava nelle orecchie, una canzone: non me ne ero
reso conto ma era ripartita la musica. Mi concentrai cercando di capire cosa
stessi ascoltando. Dopo un po’ la riconobbi: Talk you down, dei The
Script. “Cos if you go I go”
Mi
alzai e ricominciai a correre. Cercando
di dimenticare. O almeno di non ricordare…
*
-
Ilaria! Ti dai una mossa?-
Era
lì. Doveva essere lì. Com’ era possibile allora che non riuscissi a
trovarlo?
Mi
sentii chiamare ancora e mi voltai irritata verso la mia amica: stava facendo
gli occhi dolci al ragazzo che controllava i biglietti, dopo un po’
guardò l’orologio e impaziente si girò di nuovo verso di me.
-
Ila! Faremo tardi! Se mi fai perdere l’inizio del film me la
paghi…-
Era
inviperita, mi fissava con uno sguardo omicida che mi sentii libera di
ricambiare. Il ragazzo affianco a lei sorrise, accarezzandosi dietro il collo
con la mano e per qualche assurda ragione riuscì ad innervosirmi.
-
Veronica tesoro, hai visto anche tu che mettevo il biglietto in borsa, se la
smettessi di mettermi fretta, forse riuscirei a trovarlo!-
Lo
avevo bisbigliato, in quello che poteva somigliare benissimo ad un ringhio,
cercando al tempo stesso di evitare una scenata. Veronica in risposta alzò gli
occhi al cielo sbuffando, io continuai a frugare nella borsa e poi sollevai la
testa sentendomi osservata. Incrociai gli occhi del ragazzo in attesa: uno
sguardo che sembrava volesse farmi una radiografia. Lui subito mi sorrise
radioso e con voce che doveva sembrare suadente, disse:
- Andate dai: mi fido. Una ragazza così carina
non può assolutamente perdersi l’inizio del film-
Arrossii
sentendo quelle parole, completamente in imbarazzo e rimasi come pietrificata.
Fu Veronica ad afferrarmi il braccio trascinandomi in sala: era la numero due,
una delle più grandi. Salimmo veloci gli scalini, fino a raggiungere la nostra
fila e prendemmo posto. Le luci erano ancore accese. Presi una mentina dalla
borsa e ne passai una anche a Veronica. La vidi imbronciata e le chiesi
sottovoce cosa avesse. Lei rispose senza guardarmi, mantenendo il tono basso,
quasi cospiratorio:
-
Ti odio… e ti adoro-
Sospirai.
E non mi presi neanche la briga di chiederle come mai, sapevo che me lo avrebbe
detto comunque.
-
Vuoi sapere perché? Perché anche se mi sono strusciata con quel tipo per buoni
dieci minuti mentre tu cercavi quello stupido biglietto, lui a chi guarda? Chi
è che fa entrare senza controllare il biglietto? Te. Sempre te! Ti sembra
giusto?-
Mi
guardò con aria piccata, aspettandosi
una qualche risposta da parte mia. Io però non sapevo cosa dire: mi aveva presa
completamente in contropiede:
-
Ma scherzi? Tu sei la biondona con gli occhi blu! E poi devo ricordarti che sei
fidanzata?-
Erano
state le prime cose che mi erano venute in mente: il fatto che fosse bellissima
ed anche già occupata. Lei non sembrava d’accordo con me tuttavia, scosse
la testa fissandomi con aria drammatica:
-
Eppure sei sempre tu ad attirare i più carini… e poi lo sai che sto con
uno sfigato del cavolo che intendo mollare il prima possibile-
Feci
per ribattere ancora, cercando in tutti i modi di toglierle dalla testa quelle
assurde idee, sicura di poter demolire la sua tesi ma non ne ebbi il tempo: le
luci in sala si andarono affievolendo segno che il film stava per iniziare. Mi
avvicinai a Vero perciò decisa a concludere il discorso e le bisbigliai:
-
E si può sapere come mai mi adori?-
Capii
che sorrideva, quasi in imbarazzo, anche se non riuscivo a vederla per bene a
causa dell’illuminazione troppo scarsa. Confessò di botto, come per
togliersi un peso dallo stomaco, dopo aver preso un bel respiro:
-
Perché non ho comprato il biglietto e ho usato quello che avevi in borsa. Tanto
sapevo che il tizio ti avrebbe fatto passare comunque… hai troppo la
faccia da brava ragazza. Cosa che non sei peraltro, ma questo è un altro
discorso-
Le
sue parole mi colpirono e cercai di capire a cosa si stesse riferendo, ma non
conclusi niente perché la rabbia mi assalì inaspettata: ero furiosa eppure
dovevo aspettarmela una cosa del genere da lei. Avrei voluto… non so
nemmeno io cosa avrei voluto farle, ma non potevo fare proprio un bel niente
perché erano già iniziati i titoli di testa. Fu in quel momento che mi accorsi
di non sapere nemmeno che film stavamo per vedere e con voce il più possibile
adirata lo chiesi a Vero. Lei esitò prima di parlare e poi a voce bassissima
rispose:
-
Titanic-
La
rabbia scemò di colpo. Mi sentii svuotata.
No.
Di
nuovo no. Iniziai a prendermela con me stessa, per quanto sapessi che non
serviva a niente.
Perché
diamine ero così vulnerabile? Cercai di combattere ma fu inutile. Sprofondai,
totalmente persa in quel limbo. Quel dolorosissimo limbo che mi stringeva il
cuore e me lo stritolava senza alcuna pietà.
Ero stata io a convincerlo.
Glielo avevo chiesto con voce dolce,
facendomi piccola piccola contro il suo petto e
guardandolo negli occhi. Alla fine avevo vinto. Era venuto con me a vedere
Titanic. Mi aveva tenuto la mano per tutto il tempo, strusciando delicatamente
il pollice come per accarezzarmi. Durante il secondo tempo mi aveva fatto
sedere con lui. Sulle sue ginocchia. Avvolgendomi con le braccia. Baciandomi il
collo. Bisbigliandomi parole dolci. Ripetendo le battute di Di
Caprio nel mio orecchio. Ero stata ben attenta a non lasciarmi andare.
Ma all’ultimo avevo abbassato la
guardia ed ecco una lacrima scendermi lungo la guancia. Cercai di toglierla
velocemente con il dorso della mano, sperando che lui non l’avesse
notata. E invece l’aveva vista e non sorrideva più. Cercai di capire a
cosa stesse pensando ma non me ne diede il tempo. Mi fece girare e mi ritrovai
faccia a faccia con lui. Seduta a cavalcioni. Mi strinse. Forte. E mi guardò
con quei suoi bellissimi occhi verdi a cui proprio non sapevo resistere.
Sorrise dolcemente e mi baciò. Un bacio dolcissimo… mille volte più bello
di quello sullo schermo. Mi allontanai un attimo per riprendere fiato ma lui
impaziente mi riprese e…
Tornai
in me grazie a Veronica che mi scuoteva per la spalla. La fissai con gli occhi
lucidi, convinta che avesse capito tutto quello che stavo provando o che almeno
lo immaginasse e lei mi avvolse le spalle con un braccio. Posai la testa sulla
sua spalla avvilita, demoralizzata da me stessa e dal mio stupido
comportamento.
Vero
sbuffò ma con dolcezza. Accarezzandomi i capelli, mi avvicinò a sé ancora di
più:
-
Sei una stupida sai? E io lo sono ancora più di te: ci avrei scommesso che
andavi in crisi. Non dovevo portarti qui a vederlo. Se vuoi andiamo via-
Mi
rimisi a sedere sentendo quelle parole: non avevo alcuna intenzione di ispirare
compassione.
-
E perché mai? Non sono mica andata in crisi?-
Vero
mi fissò come se fossi pazza, e io quasi per ripicca cominciai a guardare il
film a testa alta. Era come se volessi dimostrare di aver ragione, dovevo provarle che si sbagliava. Anche se
sapevo benissimo che non era così, affatto: ero io ad essere nel torto,
chiunque lo avrebbe capito.
Potevo
fingere, però. Potevo mentire.
A
tutti forse ma non a me stessa: perché era vero e lo sapevo. Ero andata in
crisi. Ed ero ancora in piena crisi… Perché la colonna sonora del film
non mi aiutava, anzi mi aggrediva: terribile e dolorosa. Quelle poche,
evanescenti note, avevano il potere di farmi soffrire: facendomi ricordare con
crudeltà immane quello che più di tutto volevo dimenticare.
Lui.
*