WE ARE JUST ASH IN A JAR
– till the end 2.
I medici uscirono dalla
stanza molto più lentamente di come ci erano entrati. Nessuno alzò la tenda.
Uno di loro venne verso
i signori Granger; era inespressivo, come tutti i
medici quando devono dire qualcosa di importante.
Harry e Luna erano
lontani da loro, ma li fissarono mentre parlavano.
Il medico gesticolò
pacatamente con le mani, tenendo una cartella in mano.
La signora Granger scoppiò a piangere.
Il signor Granger chiuse piano gli occhi e l’abbracciò.
Harry aveva la nausea.
Il medico se ne andò
senza guardarli.
I signori Granger si abbracciavano piangendo.
Luna prese il viso di
Harry tra le mani costringendolo a guardarla, come se dovesse dire qualcosa.
Eppure non disse nulla,
ma si limitò a guardarlo negli occhi.
Come se fossero rimasti
solo loro due al mondo, si guardarono per un tempo infinito, come se quella
fosse l’ultima occasione per farlo.
“Ce l’ha fatta”, disse
il signor Granger a bassa voce, come se non riuscisse
a parlare, “il cuore ha ripreso a battere. Ce l’ha fatta.”
Luna gli sorrise
guardandolo negli occhi.
Ron si risvegliò che era
steso sul letto. La luce al neon non dava alcuna indicazione su che ora fosse,
ma a giudicare dal silenzio che avvolgeva l’ospedale doveva essere tarda notte.
Harry e Luna dividevano
la stessa sedia vicino al muro. Erano mezzi addormentati; a Luna scendeva anche
un po’ di bava dall’angolo della bocca.
Harry si accorse quasi
subito che Ron era sveglio e si mise dritto sulla schiena.
“Ti ho tirato su io da
per terra”, gli disse, “sei pesante come un sacco di cacca.”
Ron non disse nulla.
Harry lo squadrò.
“Ron”, gli disse, “puoi
anche smettere di fare quella faccia. Si è svegliata.”
Draco Malfoy
detestava l’odore di sporco e malato che circondava gli ospedali.
Odiava la miseria e le
faccette afflitte che si aggiravano attorno a lui.
Nonostante ciò, Harry
Potter lo vide ogni giorno, ogni singolo giorno in quella sala d’aspetto. Era
sempre sveglio, sempre; a volte si chiedeva se ci fosse un momento, di notte o
di giorno, in cui chiudesse le palpebre, anche solo per un attimo.
Non che si facesse
mancare niente: si comportava da principino come sempre. Tinker
era praticamente sempre lì per portargli cuscini per farlo stare comodo; non
che si mettesse mai comodo, anzi: sembrava costantemente sull’attenti.
I Weasley,
specie Arthur, lo guardavano con estremo sospetto e non gli si avvicinavano
mai; ma avevano smesso di lamentarsi della sua presenza.
Per il resto, lui se ne
stava lì, senza rivolgere né lo sguardo né la parola a nessuno, senza mostrare
il minimo segno di stanchezza o di compatimento; la cosa assurda era che era
proprio davanti alla vetrata da cui si vedeva Ginny,
ma non la guardava mai. Perlopiù se ne stava lì a piluccare quello che Tinker gli preparava da mangiare e a leggere un libro o il
giornale. Harry era abbastanza sicuro che in tutto quel tempo non avesse mai
parlato se non per dare qualche ordine in modo gelido a Tinker.
Harry non aveva comunque
la minima intenzione di avvicinarlo. Lui aveva fatto il suo dovere; fosse stato
per Harry, Malfoy avrebbe potuto anche sparire per
sempre dalla sua esistenza. Ma Ginny aveva rischiato
la vita per quello lì. Continuava a chiedersi la ragione.
A vederlo così, con
quell’espressione sprezzante costantemente stampata in faccia, sembrava che
rimanesse per costrizione.
Ad ogni modo, si
avvicinava il giorno in cui l’avrebbero processato e quindi portato via
dall’ospedale anche di forza.
Ginny doveva, doveva svegliarsi prima di allora.
Doveva.
La prima cosa che sentì Hermione quando si svegliò fu il gorgoglio del proprio
stomaco. Poco poetico, ma tipico.
Poi vide sua madre che
l’abbracciava e la baciava su tutta la faccia e il padre che faceva lo stesso.
“Hermione, tu non sai… non sai… ho avuto così tanta
paura…”, diceva sua madre.
“Urgh…”,
farfugliò. Sentiva la bocca impastata come se avesse mangiato colla.
“Non ti sforzare. Ti
porto qualcosa da mangiare? Qualcosa di liquido così lo stomaco non fa fatica.”
Hermione si sentiva girare la
testa da tutte quelle parole.
Il padre, con gli occhi
lucidi, uscì per andare ad avvertire i medici.
Hermione respirò profondamente.
“Ci hai fatto spaventare
così tanto.”
Hermione sorrise un po’. Si
sentiva debolissima.
“Gli…
gli altri…”, mormorò, sentendo il cuore battere due
battiti in più del dovuto.
“Non ti agitare”, disse
subito la madre, che a gestire queste situazioni non era mai stata brava,
“stanno tutti bene”. Non le disse di Ginny. O di chi
era caduto durante la battaglia.
Hermione sorrise un po’ di più,
chiudendo gli occhi. Stavano tutti bene… stavano
tutti bene.
Riaprendo le palpebre si
accorse per la prima volta della pila altissima di fogli gialli che inondava il
comodino vicino al suo letto.
“Cos’è?”
Elizabeth Granger assomigliava molto alla figlia. Non era né dolce,
né romantica né sognatrice; preferiva le cose concrete, amava essere diretta e
piangeva solo per le cose gravi. Non era fragile ma era insicura. Ai gesti
simbolici preferiva la concretezza.
Eppure, niente le aveva
mai toccato il cuore come tutti quei post-it che si erano accumulati nella
stanza di sua figlia, giorno dopo giorno. Non li aveva letti, ma non era
necessario farlo per capire quanto un’azione così, volendo, sciocca, fosse
incredibilmente importante.
“Posta per te”, disse
alla figlia, cercando di mantenere un tono distaccato, “i tuoi amici erano
molto preoccupati per te.”
Non intendeva fare il
nome di Ron Weasley, non ancora. Era strano, ma aveva
paura di agitarla soltanto nominandolo.
Hermione allungò la mano sul
comodino sentendo i muscoli delle braccia indolenziti. Prese un post-it piegato
in due e lo lesse.
There
is a house built out of stone
Wooden floors, walls and window sills
Tables and chairs worn by all of the dust
This is a place where I don't feel alone
This is a place where I feel at home
Fissò
il foglietto stringendolo forte tra le dita.
Un
giorno stavano bevendo la cioccolata calda con la panna montata in Kensington Street.
Finalmente stai un po’ zitta. A
cosa devo questo piacere?
… stavo ascoltando questa canzone.
Mh.
E’ bello il testo, no?
Non è il mio genere.
Il tuo genere…
tipo lo sbattere di una pentola contro un’altra.
So che mi rispetti ma non
dimostrarmelo continuamente. Comunque, troppo melensa. Di quando in qua sei
così melensa?
Non c’è niente di melenso in una
canzone che parla di casa.
Lui
aveva riso abbassando gli occhi azzurri sulla tazza di cioccolato fumante.
Forse è vero.
Hermione
prese e lesse un altro post-it. E poi un altro, e un altro, e un altro…
Erano
pensieri, citazioni, pezzi di canzoni, appunti, liste, cose da fare,
barzellette, definizioni del dizionario, recensioni di film che avevano visto,
piccole cronache di una giornata…
Hermione,
come sua madre, non era né dolce, né romantica né sognatrice.
Preferiva le cose
concrete, amava essere diretta e piangeva solo per le cose gravi. Non era
fragile ma era insicura.
Ma dovette chiudere gli
occhi per qualche minuto per impedirsi di versare anche solo una lacrima di
fronte alla madre che l’aveva vista piangere altre volte, negli ultimi anni, la
maggior parte per un solo, unico motivo.
La verità era che le
azioni concrete erano molto più importanti di questi gesti simbolici, che non
sarebbero certo stati cento, duecento post-it scritti con una calligrafia
orribile a scioglierle il cuore o a farle dimenticare.
Ma era anche vero che se
‘concreto’ era qualcosa che si potesse toccare, respirare, assaggiare…
beh; allora, niente di veramente importante era concreto.
Non le ci vollero più di
tre ore, durante le quali fu visitata, nutrita, tenuta a stretto controllo da
sua madre e visitata da Harry e Luna a più riprese, per terminare di leggere i
post-it.
Aprì l’ultimo, o meglio
il primo in ordine cronologico; una parte di lei sapeva già cosa c’era scritto.
Lo lesse e, ora che per
un momento era sola, si permise di stringerlo in una mano affondando una
lacrima nel cuscino.
Ginny Weasley
aprì gli occhi.
Si sentiva strana.
Come se le mancasse
qualcosa.
Si guardò intorno. Era
in una stanza d’ospedale. Non sentiva odori. Provò a toccare le lenzuola che le
coprivano il ventre. Non riusciva ad avvertirne la ruvidezza.
Non aveva freddo, né
caldo; non sentiva alcun rumore.
Scese dal letto, un po’
spaventata. Nella stanza non c’era nessuno, solo oleandri senza profumo.
Si guardò le mani e le
braccia. Erano intatte; non capiva perché non sentiva nulla.
Guardò il letto e
sussultò, ma non sentì la sua voce urlare.
Per un attimo non
riconobbe la ragazza con i capelli corti stesa sul letto come se stessa. Se ne
accorse solo dopo averla guardata attentamente.
Provò a dire qualcosa;
nessun suono uscì dalla sua bocca.
Provò a toccare il
braccio del suo corpo, ma non avvertì niente, come se toccasse aria.
Si guardò di nuovo
intorno. Aveva la sensazione terribile di non respirare; eppure non ne sentiva
neanche il bisogno. Era la cosa più strana che avesse mai sentito.
Pensò di essere morta;
eppure qualcosa le diceva che ancora non lo era.
Guardò davanti a sé:
c’era una vetrata che dava su un corridoio.
Vide sua madre e suo
padre che parlavano e bevevano caffè da bicchieri di carta. Vide Harry con le
stampelle, che li salutava con espressione seria.
Li chiamò con tutte le
sue forze ma loro non si voltarono.
Poi vide Malfoy.
Se ne stava seduto con
la sua solita espressione impassibile. Era più pallido che mai; anche le labbra
non si riconoscevano più in mezzo a tutto quel bianco. I capelli biondi erano
perfettamente pettinati; leggeva un libro di quattrocento pagine.
Ginny posò la mano sul vetro,
senza ovviamente sentirlo, fissando Draco con tutte
le sue forze. Provò a chiamarlo ma, come immaginava, fu inutile. Lui non alzava lo sguardo.
Rimase a guardarlo per
un tempo che le parse infinito. Forse pochi minuti, forse ore, forse giorni.
Ogni tanto lui voltava
pagina, ma non alzava mai lo sguardo.
Alza quel maledetto sguardo, pensava Ginny tutto
il tempo.
Era strano. Normalmente
si sarebbe fatta prendere dal panico dato che nessuno la vedeva o la sentiva.
Tuttavia, era calma. Era
come se avesse tutto il tempo del mondo.
L’unica sensazione che
provava, era rabbia.
Dunque, non era morto.
Era lei che si trovava
in quella specie di limbo infernale.
E lui se ne stava lì come se nulla fosse. Probabilmente si sentiva
anche molto magnanimo solo per il fatto di starsene lì seduto davanti alla
stanza dove lei se ne stava bellamente tra la vita e la morte.
Gli fece una smorfia
attraverso il vetro, ma lui continuava a leggere.
Che legame si era creato
tra loro. Erano maghi e lui non riusciva nemmeno a sentire la sua presenza. Harry l’avrebbe fatto.
Eppure, accanto alla
rabbia, sentì dentro di sé o a quello che rimaneva di sé, una sensazione di
calore. Era vivo. Era vivo e non riusciva a distogliere lo sguardo da lui. Come
sempre.
Forse, era proprio così
che doveva andare. Se l’era scavata da sola, la fossa. Non era forse stata lei
a pensare, anche solo inconsciamente, ‘io darei la vita per lui’?
Ecco, era stata subito servita. Su un piatto d’argento.
Il fatto che lui se ne
stesse al suo capezzale non la colpiva proprio per niente. Ormai lo conosceva
abbastanza per capire che dentro quell’involucro ghiacciato c’era uno straccio
di umanità, seppur piccolo, che gli provocava di quando in quando brevi sprazzi
di sensi di colpa. Ed era per questo che se ne stava lì.
Quello che pochi mesi
prima avrebbe scambiato per… affetto non era altro che pura normalità di essere umano. Beh, non
voleva certo la sua umanità, dopo avere ricevuto soprattutto merda proprio da
lui.
Glielo disse ad alta
voce.
All’improvviso, lui alzò
lo sguardo e la guardò dritto negli occhi, o almeno lei ebbe questa sensazione.
Ginny sussultò. Si
guardarono.
Un profumo intenso di
oleandri bianchi le penetrò le narici.
Venerdì mattina Ginny Weasley si svegliò.
Lo venne a sapere
praticamente mezzo ospedale: d’altronde, era l’ultima degli ‘eroi’ che avevano
combattuto nella battaglia contro Voldemort a
svegliarsi.
Sua madre quasi ebbe un
attacco isterico quando vide che le sue palpebre si aprivano.
Ginny non si sentiva né
particolarmente bene né particolarmente male; era come se avesse dormito molto
ma anche molto poco. E poi continuava ad avere la sensazione che le mancasse
qualcosa.
La sala d’attesa si
riempì di medici e di parenti, anche non suoi. Un’infermiera chiuse la tenda
davanti alla vetrata per evitare di dare spettacolo.
Ginny fu visitata a lungo
prima di vedere i suoi genitori. I medici non avevano espressioni particolarmente
incoraggianti, anche se le sorridevano. Le ascoltarono tutte le pulsazioni
possibili, le dissero di stare tranquilla, le diedero delle medicine. Ma lei
colse degli sguardi preoccupati e non capiva perché.
Non si ricordava
moltissimo della sua esperienza extrasensoriale, in realtà. Aveva più che altro
la sensazione di essere andata molto vicino alla morte. Poi aveva in testa la
presenza di Malfoy aldilà del vetro, ma non disse
nulla a nessuno perché forse se l’era sognato.
La prima cosa che sperò
fu che non se lo fosse sognato.
Mentre prendeva le
medicine sentì le voci dei suoi genitori e del medico attutite dalla porta.
Sentì sua madre singhiozzare. Poteva essere una cosa grave oppure no, sua madre
piangeva sempre.
Ovviamente venne
inondata di baci anche se alla signora Weasley fu
intimato di non mettere la figlia sotto stress.
“Ginny,
non puoi immaginare quanto noi, tutti noi fossimo preoccupati”, le disse sua
madre quando si calmò, “si erano svegliati tutti… e
io pensavo…”
Sua madre tacque e lo
sguardo di Ginny cadde su suo padre, che la guardava
serio, senza parlare.
“Che cos’hanno detto i
medici?”, chiese lei, con la voce roca dopo tanto tempo che non parlava.
Arthur Weasley avrebbe preferito non parlarne ora; ma guardò sua
figlia. Scarna, con i capelli da ragazzino ma gli occhi sempre così determinati
da incutere quasi timore. Era forte come una roccia, lei.
“Ginny,
forse non è il caso di parlarne adesso”, buttò lì.
“E’ il caso se fai
quella faccia”.
Il fatto di essere stata
in coma non l’aveva ammorbidita per niente.
Arthur sospirò.
“Non c’è modo di dirtela
in modo tenero, ma l’importante è che non ti agit…”
“Vai, parla, papà.”
Lui la guardò.
“Non hai più poteri”,
disse, tutto d’un fiato, “per il momento, almeno”.
Ginny lo fissò.
“Che significa?”,
chiese, e poi tossì. Ma lo sapeva benissimo.
Ecco cosa sentiva che le
mancava.
“Non è detto che non li
recuperi”, si affrettò a dire la signora Weasley,
lanciando un’occhiataccia al marito, “ma sei stata investita dall’incantesimo di… Voldemort con più potenza
degli altri. A te i poteri non sono ancora tornati…
ma torneranno.”
Ginny sbatté le palpebre.
“Quindi ora… non ho
alcun potere?”
I suoi genitori
tacquero.
“Non posso fare niente?”
Ancora silenzio.
Non aveva bisogno di
risposte. Ma elaborare la cosa non era facile.
“Sono…
praticamente babbana.”
Questo sì, era un duro
colpo.
“Li riavrai, i tuoi
poteri”, disse subito suo padre, riacquisendo un po’ di ottimismo, “vedrai. E se… beh, e se non succederà… non
importerà.”
Importava, invece,
importava moltissimo.
Ginny chiuse gli occhi. Non
avvertiva niente scorrere dentro di sé.
Nessuna magia.
Le autorità vennero a
prendere Malfoy nel momento esatto in cui Ginny Weasley fu dichiarata fuori
pericolo.
Lei l’aveva vista aprire
gli occhi; solo un attimo prima aveva alzato lo sguardo dal libro per chissà
quale motivo, e lei aveva aperto gli occhi.
Subito dopo
un’infermiera aveva chiuso la tenda.
Ovviamente tutti nella
sala d’aspetto furono presi da un attacco di stupidità acuta. Persino Tinker saltava e piangeva di gioia, finché Draco non lo zittì con un calcio.
Improvvisamente si
sentiva stanco. Chissà da quanto tempo non dormiva? Non se lo ricordava più.
Era in uno stato abbastanza catatonico, come se fosse stato ibernato fino ad
allora.
Harry vide per primo due
omoni grossi entrare nella sala d’aspetto e dirigersi verso Malfoy.
Draco non fece una piega e li
trattò come se fossero suoi servitori. Non oppose alcuna resistenza, non
rivolse più lo sguardo alla stanza, non sorrise, come se non ci fosse nulla da festeggiare.
Harry ebbe quasi voglia
di chiedere se poteva rimanere quel tanto che bastava per…
beh, farle visita.
Ma prima ancora che
potesse dire qualcosa, Malfoy e i due del Ministero
se ne andarono senza la minima esitazione, e Tinker
dietro di loro.
Tutti non facevano che
chiedere a Ron perché non fosse subito corso a fare visita a Hermione.
Ormai era fuori pericolo
da un giorno e tutti i Weasley, Harry e Luna erano
andati a farle gli auguri, a portarle i fiori, i cioccolatini iperproteici e le
patatine fritte di straforo.
Eppure, se avesse
voluto, Ron avrebbe potuto farsi mettere sulla sedia a rotelle e farsi portare
da lei.
“Ma quanto sei
stronzo?”, gli disse Harry all’ora di cena, mentre Ron beveva la zuppa facendo
un rumore sgradevole, “giuro, io non ti capisco.”
Ron lo guardò. Aveva
acquistato molto più colore e le lentiggini sul naso splendevano come stelline.
“Non posso andarci in questo stato. Devo prima rimettermi in
forze.”
Harry lo fissò come se
fosse deficiente.
“Credo che le interessi
di più che tu ti faccia vedere
piuttosto che del tuo aspetto fisico. Ci stai facendo una pessima figura. Dopo
tutta quella scena del post-it, eri l’idolo di tutti e adesso sei calato di millemila punti. Si aspettavano che ti saresti…
precipitato.”
Ron gli porse la
scodella della zuppa.
“Ancora”, disse,
“comunque, no. L’importante è che ora stia bene, no? Non intendo fare niente di
teatrale.”
Era vero.
Ora che sapeva che Hermione era fuori pericolo, si sentiva improvvisamente
rinato. Non sapeva se erano i medicinali – probabilmente no -, ma si sentiva in
gran forma. Nonostante ciò, ancora non riusciva a muovere il braccio e per
camminare aveva bisogno o delle stampelle o della sedia a rotelle.
Non aveva certo bisogno
di farsi vedere miseramente ferito per perdere ancora di più la faccia con Hermione.
Sì, forse era un
atteggiamento assurdo e anche incredibilmente infantile.
Anzi, probabilmente non
era per quello che non andava a fare visita a Hermione.
Forse la verità era che
si era cagato talmente sotto quando aveva creduto che morisse che aveva capito
quanto la cosa fosse seria.
Nel senso: ora aveva la certezza che lei era la persona più
importante al mondo per lui. Il che la metteva, nei suoi confronti, in una
posizione di estrema forza. Non che non fosse sempre stata la donna
dominatrice, ma ora anche lui ne era cosciente.
E, beh…
ora che lo aveva realizzato, non era sicuro di poter sopportare uno sguardo di
pena da parte sua.
Quindi, faceva quello
che faceva sempre quando c’era un problema: procrastinava.
“Fossi in lei ti
riempirei di botte”, gli disse Harry, riempiendogli la scodella in malo modo.
Ron riprese a mangiare.
Non era pronto per
vederla; e non era per i gesti incredibilmente romantici.
Che, tradotto,
significava che se la stava ancora facendo sotto.
Hermione rilesse parecchie volte
i post-it di Ron, ma più li leggeva, più si innervosiva.
Ancora di più la
innervosiva il fatto che non si facesse vedere.
Eh, beh, certo, non
poteva aspettarsi mica un gesto carino. Solo quell’ammasso di pezzi di carta.
Vigliacco.
Ogni volta che si apriva
la porta sussultava, ed ogni volta non era lui.
Ovvio. Razza di
deficiente.
L’infermiera le servì la
cena su un vassoio.
“Allora, qualche notizia
dal tuo ragazzo?”
Hermione la fulminò con lo
sguardo.
“Prego?”
“Quello alto alto con i
capelli rossi. Il tuo ragazzo. E’ venuto a farti visita, finalmente?”
Hermione la fissò, gelida.
“Quello non è il mio ragazzo. Lungi da me. Mai
più. Mai più nella vita!”
L’infermiera si sforzò
di sorriderle e fuggì.
Hermione divorò la zuppa che due
o tre fagioli caddero per terra.
Se lui pensava che lei
avrebbe ceduto e sarebbe andata lei, se lo scordava.
Non avrebbe ceduto.
Ron guardò il muro che
separava la sua stanza da quella di Hermione.
Le gambe non gli
facevano più tanto male. Era fisicamente in grado di andare da lei.
No. Non ancora. Troppa
ansia.
Hermione fissava il muro che
separava la sua stanza da quella di Ron.
Si chiese come diavolo
avrebbe giustificato tutto ciò. Lei cominciava a sentirsi malissimo, comunque,
e anche vagamente tendente al pianto.
Nonostante avesse avuto
più volte la tentazione di bruciarli, rileggeva i post-it costantemente.
Il fisioterapista aiutò
Ron a scendere dal letto e lo informò che presto sarebbe stato dimesso e
avrebbe cominciato le sessioni di fisioterapia al braccio.
Harry lo fissava.
“Stai meglio di me
adesso.”
Ma non c’era modo di
convincerlo.
“Signorina Granger, lei ha una capacità di ripresa straordinaria”, le
disse il medico, chiudendo la sua cartella, “solo due giorni fa ha avuto un
arresto cardiaco, eppure si guardi adesso, com’è in forze.”
In effetti, la rabbia le
aveva dato le energie che le servivano per riprendersi.
“Non ci vorrà molto
prima che venga dimessa”, disse il medico, “però non si strapazzi”.
Quando uscì dalla porta,
la signora Granger le sorrise.
“Non è fantast…”
“Basta! E va bene.”
Prima che sua madre
potesse fermarla, Hermione, con il camicie bianco dei
malati, scese dal letto e si diresse verso la porta.
Ron stava facendo il sudoku, senza grandi risultati, quando si aprì la porta.
“Spero che tu mi abbia
portato quel dolce con dentro le mandorle, Linda”, disse, senza alzare lo
sguardo dal giornale.
“Tu, tu stai facendo il sudoku”,
disse Hermione, avvicinandosi al suo letto a passo
spedito (a dire il vero non stava benissimo e si sentiva un po’ girare la
testa, ma non l’avrebbe di certo ammesso).
Il giornale gli cadde di
mano.
Hermione era più magra e pallida
e debilitata del solito, ma le guance erano rosa, i capelli scuri erano folti e
indistricabili come al solito, gli occhi vivi – e,
nel caso specifico, furiosi – come sempre li aveva visti.
“N-no”,
disse Ron, anche se non si ricordava nemmeno la domanda – gli aveva fatto una
domanda?
Cominciò a sentire le
orecchie ribollire. Questo lo
prendeva alla sprovvista.
Hermione si sedette nella prima
sedia che riuscì a prendere, per fermare i giramenti di testa.
Finalmente riuscì a
metterlo bene a fuoco. La guardava con quella sua solita faccia da scemo, gli
occhi azzurri sbarrati. Eppure non poté fare a meno di pensare, per un momento
soltanto, a quanto anche solo il suo profumo – di cui la stanza era pieno – le
fosse mancato… prima, durante, dopo la battaglia.
“Ho avuto un arresto
cardiaco. Ti è capitato di sentirlo dire?”
“S-sì”,
farfugliò Ron, “ma…”
“Dopo tutte le scene… e quei post-it… non che la
cosa mi interessi, ma ti è passato per l’anticamera del cervello che non
dovessi essere io a venirti a vedere
– che poi, guardati, stai meglio di un bambino – ma che mi aspettassi…”
“Ecco, ma…”
“Non ho veramente
parole. Come devo interpretare la cosa? E io poi, ovviamente, vengo qui e mi
aspetto anche che tu mi dica qualcosa di sensato! Ovviamente sono sempre io ad
aspettarmi qualcosa di sensato. Ovviamente…”
Ron si ricordò che aveva
promesso di smetterla di fare il bambino.
Così fece la prima cosa
che pensò un Uomo avrebbe fatto: buttò il sudoku a
terra, scese dal letto con quell’orrendo pigiama coi maialini che gli aveva
regalato sua madre, si chinò su di lei e l’abbracciò, zittendola.
Calò il silenzio nella
stanza per qualche secondo.
Hermione aveva la testa
appoggiata al suo petto. Lui aveva
quell’orrendo pigiama coi maialini che gli aveva regalato la signor Weasley. Ma quel profumo così familiare…
“Non pensare di fregarmi
così”, disse lei, la voce attutita dalla stoffa del pigiama di lui. Si sentiva
un gran caldo alla faccia e fu contenta che lui non la potesse vedere.
“Mi dispiace, Hermione, ma mi sentivo troppo brutto per venire a farti
visita”, le disse inspirando forte tra i suoi capelli.
“Ma se sei sempre
brutto”, mentì lei.
Lui accusò il colpo,
sentendosi un pochino colpito nell’ego, ma non disse niente.
Aveva in mente un sacco
di cose da dirle ma improvvisamente gli mancavano le parole. Sapeva di averla
irritata da morire portandola a essere lei a venire da lui.
Ma del resto era sempre
stato così. Era lei che lo aiutava a fare le cose intelligenti.
“Forse un giorno ti dirò
che me la sono fatta sotto quando ho creduto che tu stessi per morire, e che ho
pensato che sarei morto volentieri al posto tuo, e che il pensiero di averti fatto… male e non potermi scusare per i prossimi quindici
milioni di anni mi faceva venire la nausea.”
Il cuore di Hermione aumentò un po’ i battiti, ma lei non disse niente.
“E che scrivere sui
post-it era l’unico modo per farmi sentire un po’ meno inutile, e che non sarò
mai capace di dirti certe cose a voce. E che stavo malissimo all’idea che tu
non avessi più occasione di vergognarti di me e dirmi che sono scemo e
arrabbiarti anche se… ehi, certe volte non me lo merito… comunque. Un giorno queste cose te le dirò. Ma non
oggi, perché…”
… sono troppo in
imbarazzo, avrebbe voluto dire, ma era troppo da femminuccia.
“… perché non anch’io
non ho veramente parole.”
Hermione non disse niente per
molto tempo. Solo, quasi senza accorgersene, le sue braccia andarono a circondare
la schiena di Ron e lei si sentì mancare il respiro.
Perché niente di tutto
quello era certo solo poco prima, perché tutto avrebbe potuto essere diverso,
perché avrebbe potuto prendere mille strade e invece aveva preso quella, perché
la vita è troppo piena di possibilità e di occasioni e coincidenze e perché
quel momento, proprio quel momento in cui abbracciava il suo migliore amico
alto alto con il pigiama con i maialini, era frutto di un’incredibile
concatenazione di eventi, di possibilità, di occasioni e di coincidenze.
Così incredibile che non
poteva essere casuale, che non poteva essere senza significato, che per lei
aveva un significato.
Ron si abbassò a
guardarla, la fronte che toccava la sua. Hermione
arrossì; era tanto tempo che non si avvicinava così a quello sguardo azzurro.
“…Quante
volte dovrò vergognarmi di te?”
“Cercherò di limitarle
il più possibile.”
Ron faceva fatica a
respirare e quasi non si rese conto di quanto le stesse stringendo forte le
spalle, così sottili sotto le sue mani.
Se pensava che solo
alcune ore prima lei era stata dietro un muro, o anche più lontana, chissà
dove, si dava del deficiente da solo.
“Approfitti del fatto
che di fronte alle cose gravi le altre cose diventano meno importanti”, disse Hermione, non sapendo dove trovava la testardaggine di
parlare ancora, “ma poi quando tutto tornerà a posto tu tornerai come prima e
io anche e non ci sopporteremo…”
Ron sorrise.
“Tanto non ci siamo mai
sopportati.”
Hermione aprì la bocca per dire
qualcosa ma non disse nulla.
Perché non le veniva più
in mente nulla da dire. Perfino i dolori e gli indolenzimenti ai muscoli erano
passati.
Ron la guardò.
Hermione lo guardò.
Oh, al diavolo.
Le labbra di Ron si
posarono sulle sue ed erano così morbide e calde che le sembrò di tornare a
casa dopo aver corso nel bel mezzo di una bufera.
Ecco perché era riuscita
a stare lontana da lui per tutto quel tempo. Il rancore le aveva fatto
dimenticare come fosse quando la baciava.
Ora
se lo ricordava.
I sat down on the street and took a look
at myself,
said, "Where you going, man? You know the world is headed for Hell
Say your goodbyes if you've got someone you can say goodbye to"
I believe the world is burning to the ground
Oh well, I guess we're gonna find out
Let's see how far we've come
Let's see how far we've come
Well I believe it all is coming to an end
Oh well, I guess we're gonna pretend
Let's see how far we've come
Let's see how far we've come
Due mesi dopo.
“Un po’ più a destra,
signorina Weasley. Ecco, sì. Signor Potter, potrebbe…? Perfetto, sì! Ragazzi e ragazze alternati.
Fantastico! Sorridete un po’… signor Weasley,
potrebbe smetterla di ridere?”
Ron sbuffò con aria
tormentata. Si tirò indietro i capelli con la mano sinistra.
“Che fastidio, sempre la
stampa… dovrebbero pagarmi.”
“Chi sarebbe disposto a
pagare te per una fotografia sulla
Gazzetta?”, disse Hermione facendo una smorfia, “al
massimo Harry o Luna o Ginny.”
“Ahia”, fece Harry,
“qualcuno mi ha pestato il piede.”
Luna distolse lo
sguardo, “io non sono stata!”
“Mi si sta informicolendo
il braccio”, si lamentò Ginny sistemandosi il foulard
sopra i capelli corti.
“Almeno tu lo senti il
braccio”, piagnucolò Ron agitando flebilmente il braccio destro.
“Ma piantala.”
Il fotografo della
Gazzetta sollevò la testa dalla macchina fotografica, con espressione
esasperata.
“Signori, vi prego,
vorrei riuscire a fare una fotografia decente entro oggi”, disse a denti
stretti.
Tutti cercarono di
mantenersi seri.
Ogni sforzo fu inutile;
la foto che uscì sull’edizione della Gazzetta del Profeta del giorno successivo
vedeva Luna con gli occhi storti, Harry con gli occhiali appannati per chissà
quale motivo, Ginny che si sistemava la fascia per
l’ennesima volta, Hermione che guardava male Ron e
Ron che agitava il suo braccino ferito. Ed era la versione migliore.
Nonostante ciò, anche a
distanza di due mesi dalla battaglia gli ‘Eroi’, come li avevano soprannominati
i media, erano richiestissimi dai giornali e fioccavano le interviste su di
loro.
Rispetto ai primi giorni
la loro ‘fama’ si era affievolita ma l’ego di Ron ci avrebbe messo molto più
tempo a sgonfiarsi. Se ne andava in giro con gli occhiali da sole convinto che
se li avesse tolti le masse lo avrebbero riconosciuto e osannato.
Alla fine del deludentissimo servizio fotografico, che si era tenuto
nell’ingresso dell’edificio del Ministero della Magia, i ragazzi si
rilassarono. A vederli adesso sembravano molto più in forma rispetto a poche
settimane prima: il braccio di Ron, checché ne dicesse lui stesso, era in via
di completa guarigione; le cicatrici di Hermione,
oggetto di mille e più paranoie, sarebbero presto sparite e aveva preso peso a
forza di mangiare a casa dei Weasley (“Hermione, mangia che ti devi ristabilire” era una frase che
avrebbe sentito anche quando fosse stata in ottima forma); Harry non aveva più
bisogno delle stampelle e aveva perfino ripreso a giocare a Quidditch
qualche volta; Luna era perfettamente in forma come al solito. L’unica che non
aveva l’aria molto più sana era Ginny, che sembrava
ancora uno scricciolo, anche se la sua carnagione aveva un colorito molto più
roseo.
I suoi poteri non erano
ancora tornati. Nessuno lo sapeva tranne i suoi amici e la sua famiglia.
Era strano fare tutto
come una babbana. Teletrasportarsi appoggiandosi a
qualcun altro; lavare i propri vestiti a mano; riordinare la propria camera
senza la bacchetta. Poi si sentiva scema con quei capelli.
Tutti i giorni comprava
la Gazzetta del Profeta; ma non per vedere se stessa o la sua intervista.
Saltava subito alle pagine di un processo che si dilungava ormai da
sessantasette giorni.
“Ron, ma che ore sono?”,
chiese Hermione.
“Ma boh. Undici?”
Hermione spalancò gli occhi.
“Dovevamo essere a casa
alle dieci e mezza!”
Ron sbatté le palpebre.
“Ah, già…”
“Come ‘ah, già’? Quello
già ci odia…”
Hermione ultimamente aveva i
nervi a fior di pelle, come se non fosse già abbastanza indisponente di per sé.
Era solo perché il mese prima Ron aveva scoperto che la casa, di cui prima
della battaglia aveva dato alla vendita, poteva essere recuperata. Questo aveva
spedito Hermione in un delirio burocratico da cui
forse non sarebbe uscita mai più: convinta che loro stessero antipatici al
proprietario con il loro tira-e-molla, adesso ogni
volta che si incontravano per firmare le carte per la rivendita cominciava a sudare
circa sei ore prima dell’appuntamento.
La decisione di tentare
nuovamente la strada della convivenza dopo così poco tempo da quando si erano
rimessi insieme era stata frutto di lunghissime, lunghissime ponderazioni
(almeno da parte di Hermione; a Ron erano bastati
circa due secondi e mezzo). Quello che Hermione aveva
capito era che: uno, doveva accettare il fatto di essere quasi
imperdonabilmente innamorata di Ron. A questo, per quanto volesse, non c’era
modo di sfuggire. Due: Ron era innamorato di lei, a detta sua, anche se lei non
capiva proprio perché. Tre: erano entrambi persone piene di difetti e vagamente
psicolabili. Lei – anche se non lo avrebbe mai ammesso – aveva qualche mania di
controllo… vabbé, qualcuna
di troppo. Lui nessuna. Lei era insicura, lui anche di più. Dopo tutti quegli
anni era il caso di accettare il fatto che non sarebbero mai andati d’accordo.
Che lui era vanesio e vanitoso e che lei doveva imparare a stringere il
guinzaglio quando doveva, ma non stringerlo troppo.
Di ferite aperte ce
n’erano ancora. Quando baciava Ron si sentiva meglio che in qualsiasi altro
posto al mondo; ma questo non cancellava il pensiero che lui aveva baciato
anche qualcun’altra, e si chiedeva se l’aveva fatto allo stesso modo… ma quando aveva deciso che non ce la poteva fare a
stare senza di lui aveva accettato di convivere con questi pensieri.
Non era detto che tutto
fosse perduto. Non era detto.
E voleva scoprire
com’era il seguito.
Quanto a Ron, non c’era
molto da discutere, per lui, né liste da fare: la sua unica ragione per
convivere con lei era, beh, lei stessa. E come si era sentito quando aveva
pensato di perderla. Quello non l’avrebbe dimenticato mai.
Quella sera, Hermione portò a casa uno scatolone di libri.
“Prima tornata.”
Ron lanciò uno sguardo
alla stanza. C’erano talmente tanti scatoloni che non si vedevano le pareti.
“Hai mica pensato di
lasciare qualcosa a casa dei tuoi?”
“Ho lasciato la maggior
parte a casa dei miei. E… ma cosa sono questi?”, Hermione sgranò gli occhi, raccogliendo un pezzo di stoffa
da terra, “calzini?”
“Ah, già, me li sono
tolti quando sono tornato, mi davano fastidio”, disse Ron distrattamente,
mentre guardava le istruzioni della televisione come se stesse leggendo un
manuale in arabo.
Hermione glieli mise sotto il naso
e lui si ritrasse.
“Te li faccio mangiare i
tuoi calzini. Nel caso non te ne fossi accorto, non sono tua madre né la tua
geisha e non raccoglierò la tua sporcizia dicendoti ‘bravo’, quindi vedi di non
lasciarla in giro.”
Ron sospirò pesantemente
e si mise i calzini in tasca.
“Vedrai che presto ti
abituerai a fare la mogliettina amorevole”, disse a bassa voce.
“Che hai detto?”, lo
fulminò lei.
“Niente.”
Rimasero in silenzio.
Lei prese il cappotto e se lo infilò.
Ron alzò gli occhi dalle
istruzioni.
“Ma dove vai?”
“Come dove vado? A casa.
Cioè, a casa dei miei.”
“Ah”, Ron la guardò come
un cagnolino bastonato, “ma ci hanno portato tutti i mobili”.
Hermione ricambiò lo sguardo,
sbattendo le palpebre.
“Eh, e allora?”, chiese,
infilandosi i guanti.
Ron fece un’espressione
addolorata, ma lei rimase impassibile.
“Pensavo che potessimo
inaugurare la casa.”
“Ronald, non possiamo inaugurare la casa. Non è ancora
ufficialmente nostra, ci daranno le copie definitive delle chiavi domani. I
mobili ce li hanno portati solo perché io li ho pregati di lasciarci portare
avanti col lavoro, ma non siamo autorizzati a dormire qui.”
Ron gattonò verso di lei
e le afferrò il lembo dei jeans mentre lei si abbottonava il cappotto.
“Non se ne accorgeranno maiiiii”, piagnucolò Ron.
Okay, era un attimo
infantile. Le sue promesse di diventare uomo a volte tentennavano un po’, come
ora. Oh, insomma.
“E’ una questione di
principio”, fece Hermione, muovendo il piede per
scrollarsi Ron di dosso.
Era una questione di principio; ma soprattutto aveva una paura folle.
Non di Ron – ovviamente, a chi poteva fare paura quello – ma più che altro di
se stessa.
Ultimamente, come non le
capitava da molto, ogni volta che Ron la toccava, anche casualmente, o la
guardava, anche solo sorridendo, si sentiva un po’ strana. Quando Ron la
baciava, voleva baciarlo di più.
Immaginava fosse
normale, perfino per lei. Ma aveva il terrore.
Ormai aveva creato in Ron un’aspettativa tale che probabilmente sarebbe stata
in ogni caso una delusione e il solo pensiero le faceva diventare il viso di
una tonalità rosso-viola.
Ron la guardò,
completamente ignaro del film che Hermione si stava
facendo. Ormai era talmente abituato a rispettare certi limiti, con Hermione, che in realtà la cosa non gli era nemmeno passata
per la testa per quella sera… okay, forse un pochino,
ma senza troppa paranoia. Gli sarebbe bastato stare un po’ a dormire con lei
dopo tanto tempo. Svegliarsi – o meglio, essere svegliato – con il suono di lei
che si lavava i denti e gli intimava di fare lo stesso.
Hermione sospirò.
“E sia.”
Ron gongolò, anche se un
po’ stupito di aver raggiunto il risultato sperato così in fretta.
Hermione si tolse il cappotto, i
guanti e le scarpe e guardò l’ora.
“Però domani mi devo
alzare presto per andare all’apprendistato”, disse, andando in bagno per
mettersi il pigiama con l’inquietudine che le agitava lo stomaco.
Ron si sentiva un po’
strano. In realtà non si era preparato all’evenienza che Hermione
rimanesse davvero. Si mise in piedi e
guardò il salotto con un sospiro; c’era un tale casino che non aveva voglia di
mettere in ordine nemmeno con la magia.
Trascinò i piedi nudi
fino alla camera da letto e si fermò sulla soglia. Quel giorno avevano portato
il letto. Era un normale letto a due piazze – ovviamente erano già state messe
le lenzuola con la magia – ma gli incuteva un gran timore. In effetti loro due
in tutto quel tempo avevano dormito insieme solo per qualche ora, magari su un
divano; ma quel letto era loro. La signora Granger
non sarebbe venuta a scrollarli dal sonno gridando come un’isterica (forse).
Ron si buttò sul letto
com’era, con la tuta da ginnastica, e annusò il cuscino come un bambino.
Era quasi in dormiveglia
quando sentì il materasso piegarsi alle sue spalle; sentì Hermione
puntare la sveglia, togliersi l’orologio da polso e slegarsi i capelli. Poi la
sentì mettersi sotto le coperte con un brivido di freddo mal trattenuto e
spegnere la luce.
Non avevano chiuso le
persiane e la luce della luna e della città filtravano dalla finestra creando
una bella penombra.
Ron sbadigliò sentendosi
meno agitato. Ma sì, avrebbe dormito e pace.
Si voltò verso di lei e
nella penombra la vide con le palpebre chiuse. La guardò per qualche attimo e
senza accorgersene le si avvicinò un pochino.
“Oddio, ma che è?”, tirò
subito indietro le gambe dopo aver sentito qualcosa di gelido contro la
caviglia.
Hermione aprì gli occhi.
“Eh?”
“Ma erano i tuoi piedi,
quelli?”
Hermione lo fissò.
“Senti, non è colpa mia
se ho i piedi freddi. E’ perché non faccio attività sportiva.”
“Dio, non sai che paura,
pensavo ci fosse un animale”, non poté finire la frase che Hermione
lo colpì poco delicatamente al petto.
Ron rise e
istintivamente intrecciò le proprie gambe con quelle di Hermione.
Lei si sentì improvvisamente avvampare.
“Spero almeno che tu ti
sia depilata le gambe. Non vorrei essere ferito stile carta vetrata nel bel
mezzo della notte.”
Hermione si innervosì (ma si
chiese davvero se si era depilata). Ron rise ancora e si abbassò sotto le
lenzuola per prendere il polpaccio di Hermione, sollevare
un lembo del pigiama e sfiorarle la caviglia con la mano.
“Apparentemente l’hai
fatto”, disse, “allora avevi architettato tutto!”
“Se non la pianti di
molestarmi me ne vado a dormire in uno scatolone. E’ già l’una di notte, santo
cielo”, fece Hermione con tono esasperato.
Okay, in realtà non era
affatto esasperata e non aveva affatto sonno. Le mani grandi e calde di Ron le
circondarono la vita ed era talmente vicina a lui che sentiva il battito del
suo cuore e il suo respiro regolare.
Mai, mai nella vita si
era sentita così al sicuro.
I capelli di Ron le
solleticarono il naso e lei sollevò il viso. Lui le diede un bacio sulle
labbra. Respirarono. Lui la baciò ancora, stavolta socchiudendo la bocca. Il
cuore di Hermione andava a mille, tanto che per un
attimo pensò che le sarebbe venuto un altro arresto cardiaco.
Gli mise una mano sul
collo e lui le si avvicinò ancora, baciandola sulla mandibola. La sua mano andò
inconsciamente verso i suoi fianchi.
“Allora devo fidarmi di
quei post-it?”, bisbigliò Hermione in un momento in
cui riprendevano fiato. Lo vide aprire gli occhi nella penombra. Come facevano
a essere così chiari anche al buio?
“Assolutamente”, disse
lui facendole il solletico nella schiena. Lei rise.
E si fidò. Perché Ron
non scriveva mai, meno che mai quello che pensava o quello che provava, eppure
l’aveva fatto.
E si conoscevano da
talmente tanto tempo che entrambi sapevano cosa significava.
Draco Malfoy
era detenuto nel carcere di Azkaban, che aveva subito
delle trasformazioni dopo la fuga dei Dissennatori.
Lì si trovavano praticamente tutti quelli che erano in attesa di condanna certa
per collaborazione con il Signore Oscuro.
I giornali seguivano
molto ogni processo, specie quello di Bellatrix Lestrange, che aveva tentato di suicidarsi tre volte nella
sua cella. Più in sordina quello del giovane Malfoy,
contro cui sostanzialmente c’erano tutte le prove e i testimoni del mondo, con
i più l’accusa di aver ucciso due babbani. I Mangiamorte si rimbalzavano la colpa a vicenda nella
speranza di ottenere delle abbreviazioni della pena e in molti testimoniarono
contro Malfoy, definendolo ‘uno dei principali
sostenitori e collaboratori di Lord Voldemort,
assieme con Bellatrix e Rodolphus
Lestrange’.
Dicevano che l’avrebbero
condannato all’ergastolo; ma la famiglia Malfoy aveva
abbastanza soldi da permettersi un avvocato che gli facesse accordare la minore
pena possibile. Si trattava comunque di circa vent’anni.
Ginny cercava articoli su di
lui praticamente ogni mattina mentre faceva colazione; raramente non ne
trovava.
Più di una volta aveva
avuto la tentazione, se non quasi il bisogno, di parlargli durante le ore di
visita. Ma ogni volta si rendeva contro che, senza poteri, avrebbe dovuto
chiedere a qualcuno di accompagnarla ad Azkaban. E
non sapeva proprio a chi chiedere un favore del genere.
E poi, in fondo, dato
che lui era effettivamente rimasto ad aspettare che lei si svegliasse in
ospedale, avrebbe anche potuto degnarsi di scriverle. Il suo indirizzo lo
sapeva.
Ma in due mesi, due dannatissimi e lunghissimi mesi, non
arrivò proprio niente nella sua posta. Era come se non si conoscessero affatto.
Non la considerava una casualità; più un’intimazione.
In realtà, avrebbe
dovuto immaginare che non sarebbe bastato andare avanti con la propria vita,
evitando di guardare il Marchio Nero che rimaneva lì all’altezza dell’inguine.
I giornali erano venuti a sapere della ‘spia dell’Ordine’ e presto era stata
inserita nel gruppo di ‘Eroi’ anche se non era minimamente la sua intenzione.
Si chiese se ogni tanto Malfoy leggeva la Gazzetta; quel giorno la foto dei cinque
eroi troneggiava in prima pagina.
Quello stesso giorno il
destino, o meglio, gli ufficiali del Ministero, bussarono per l’ennesima volta
alla sua porta.
Come le aveva detto suo
padre, probabilmente sarebbe stata chiamata a testimoniare. Lei non ci aveva
creduto più di tanto. Invece, a quanto pareva, qualcuno tra i Mangiamorte aveva parlato di ‘relazioni’ intrecciate tra
‘il signor Malfoy e la signorina Weasley’.
“Ovviamente la sua
immagine non ne sarà assolutamente danneggiata”, disse uno degli ufficiali
bevendo il tè nel salotto della Tana. Ginny si
tormentava una ciocca di capelli, “quindi è necessaria la sua partecipazione,
onde evitare che possa essere… diciamo…
‘accusata’ di qualche cosa. Meglio togliersi il problema. La sua famiglia ha un
avvocato?”
E così, non dovette
nemmeno fare lo sforzo di andare a Azkaban: l’udienza
si sarebbe tenuta nel tribunale del Ministero della Magia.
Non aveva mai avuto a
che fare con l’ambiente dei tribunali, ma già sapeva che lo detestava. Il suo
avvocato, un amico del Ministero di suo padre, non faceva che tartassarla, e
quando gli ufficiali le facevano delle domande spesso rispondeva lui per lei.
La cosa le dava un tale fastidio che ad un certo punto smise di tentare di
parlare e si estraniò.
Prima di uscire di casa,
quella mattina, dopo aver assicurato a tutti che non c’era affatto bisogno che
fosse accompagnata, le fu fatta una predica, per l’ennesima volta, su quello
che poteva dire e quello che non poteva dire.
Il che era assurdo visto
che le avevano assicurato che la sua testimonianza non sarebbe stata poi così
importante nel complesso del processo. In realtà sospettava che, qualsiasi cosa
avesse detto, sarebbe stata analizzata nei minimi dettagli.
Inutile dire che, mentre
usava la passaporta per arrivare al Ministero, si
sentiva il cuore in gola e le viscere che si strizzavano. Insomma, non belle
sensazioni. C’era anche una parte di lei che si sentiva frivola, perché la sua
agitazione non derivava affatto dal fatto di testimoniare ad un processo che
sarebbe stato sbattuto sul giornale il giorno dopo.
Si chiese se l’avrebbe
incontrato prima – se l’avesse incontrato che gli avrebbe detto? – immaginava
il suo sguardo, come se lo vedesse ora, mentre camminava verso il suo avvocato
al centro dell’ingresso del Ministero.
Gelido e distaccato,
come sempre. Anche se ormai non la ingannava più.
Il suo avvocato la guidò
parlando tantissimo attraverso scale e corridoi. Ginny
vide il suo riflesso in una porta a vetri: era pallida e aveva l’espressione
più terrorizzata di quando non si sentisse. Quei capelli corti erano orribili e
sua madre l’aveva costretta a mettersi il vestito nero dei funerali.
“Mi raccomando, non si
lasci trasportare nelle risposte, stia molto attenta a ciò che dice, misuri
ogni singola parola”, stava ciarlando il signor… come
diavolo si chiamava? Beh, insomma, l’avvocato, spingendo la porta a vetri.
Dentro all’aula c’erano
tantissime persone, più di quante non avesse immaginato. C’era perfino un
giornalista. La fecero sedere nelle panchine del pubblico, qualcuno le disse
che l’avrebbero chiamata ‘loro’.
Improvvisamente si sentì
incredibilmente sola. Lì sulla panchina fredda mentre tutti parlavano, alcuni
discutevano; lei fissava la sedia dove sarebbe stata chiamata a testimoniare.
Non se l’era mai
chiesto: cos’avrebbe detto?
“Ecco che entra la
difesa”, bisbigliò qualcuno; il giornalista scattò una fotografia col flash.
Draco ne era certo; nemmeno
il suo avvocato l’avrebbe difeso, se avesse potuto. Il fatto era che lo pagava
ogni mese più di quanto guadagnasse in un anno di processi, ed era abbastanza
viscido da sorpassare sulla sua evidente colpevolezza.
Ormai conosceva
quell’aula di tribunale come le sue tasche; si sedeva sempre alla panchina
della difesa, stava lì a giocherellare con la penna senza prestare molta
attenzione a quello che dicevano intorno a lui. A volte testimoniava
rispondendo a monosillabi. Non leggeva mai il giornale.
Era quasi comico che in
carcere non sentisse minimamente la differenza rispetto a quando stava a Malfoy Manor, o al castello di
Lord Voldemort. In fondo era sempre stato in
prigionia in entrambi i posti.
In fondo, ad Azkaban le comodità per lui non mancavano: bastava avere
una manciata di soldi da mettere in tasca a qualcuno che avesse autorità, e ti
ritrovavi in una stanza singola ampia e tinteggiata, dove ti portavano i pasti
in camera e avevi un sacco di libri da leggere. Non aveva praticamente contatti
con il resto dei prigionieri; sempre grazie a qualche mancia riusciva a fare
un’ora d’aria solitaria, quando gli altri in genere erano già rientrati in
cella. La sua vita ora consisteva sostanzialmente in mangiare, dormire,
camminare. Praticamente quello che aveva sempre fatto. Gli mancava un po’ il
sesso, quello sì, ma per ora resisteva.
Quella mattina, come
ogni altra mattina da due mesi, bevve il caffè senza zucchero, mise la camicia
e la cravatta. Venne puntualmente prelevato dalla sua stanza e trasportato
dalle guardie fino al Ministero, in silenzio. Lì incontrò il suo avvocato, con
cui scambiò a dir tanto due parole, e insieme andarono verso la porta a vetri
che ormai conosceva bene.
Sì, sapeva che quel
giorno Ginny Weasley
avrebbe testimoniato. Sì, era curioso di vederla. Ma più che altro curioso,
nient’altro. Non moriva all’idea di non vederla né era agitato all’idea di
farlo. Per lui due mesi erano praticamente un’eternità e lei era un ricordo
lontano.
Ecco, queste convinzioni
crollarono nel momento esatto in cui entrò in tribunale.
Ginny lo guardò tentando di
fare un’espressione impassibile, ma non ci riuscì, come sempre.
Lui le lanciò uno
sguardo veloce – lei piegò la testa come per salutarlo – lui distolse lo
sguardo e sedendosi al suo posto le voltò le spalle.
Quei capelli così corti
le stavano malissimo; ma tutto sommato non era più così brutta come quando era
in coma. Anzi, si era ripresa piuttosto bene, insomma.
Malfoy sbuffò; qualcosa dentro
di lui si era involontariamente mosso. O era il caffè o lei aveva ufficialmente
un potere su di lui.
Possibile che si sentisse
perfettamente bene quando era in carcere da solo, con una pena di minimo
vent’anni sulla testa, con una vita praticamente buttata nel cesso, ma si
sentisse una merda nel momento esatto in cui incrociava il suo sguardo?
Bene, se così doveva
essere, non l’avrebbe guardata affatto.
“Entra il giudice.”
Ginny disse quello che si
sentì di dire. Più di una volta il suo avvocato le lanciò delle occhiatacce,
soprattutto quando le chiesero se considerava Draco Malfoy una persona socialmente pericolosa e lei rispose
seria di no. Qualcuno rise nel pubblico e lei si morse le labbra per non
ridere.
Il giudice la odiò
profondamente. Forse perché praticamente ogni volta che parlava rispondeva
ironicamente e faceva ridere tutti. Ovviamente le chiesero se avesse avuto una
relazione con Malfoy. Lei fece un lungo silenzio
teatrale durante il quale tutti sembrarono trattenere il respiro.
Malfoy la guardò come se fosse
deficiente.
“… sì”, disse alla fine,
“sarà anche per questo che posso dire che il signor Malfoy
è totalmente incapace di provare sentimenti umani di natura. Magari non è
nemmeno colpa sua.”
Tutti risero, tranne
l’avvocato di Ginny.
“Signorina Weasley, un processo non
è un gioco o uno show”, sbraitò lui quando l’udienza fu tolta, “poteva
rimetterci anche la sua innocenza con quelle risposte. Ringrazi che ormai la
sua immagine è abbastanza solida grazie ai suoi amici e difficilmente la
processerebbero.”
Ginny roteò gli occhi facendo
attenzione che non la vedesse. Aveva ben altro a cui pensare. Ad esempio, era
stata una sua impressione o perfino Draco aveva sorriso – anche solo per un momento, anche solo
di soppiatto?
A volte, durante
l’udienza, aveva l’impressione che lui fosse leggermente più umano del solito.
Non si illudeva che dopo tutto quello che era successo le cose potessero cambiare… che potesse, tipo, vivere una vita normale. Era
appurato che le cose non sarebbero mai state normali.
“Senta, avvocato”, lo
interruppe Ginny, senza ascoltarlo minimamente,
“pensa che ci sarebbe modo di parlare con Malfoy
prima che venga portato ad Azkaban?”
Non sapeva da dove le
venisse tutto quel coraggio. Forse era la burrobirra
che aveva bevuto per colazione – per darsi forza – che cominciava a fare
effetto, o forse poco a poco tornava ad essere l’impulsiva che sfortunatamente
per lei era sempre stata.
L’avvocato la guardò
inorridito.
“Non mi sembra proprio il caso”, farfugliò, “l’ultima
cosa che vogliamo è che si pensi che lei sia ancora in rapporti con…”
Ginny lo tirò per la giacca,
vedendo che Malfoy se ne stava andando dall’aula –
ovviamente, senza rivolgerle il minimo sguardo – accompagnato dalle guardie.
“Si sbrighi, si
sbrighi”, disse, “è pagato o no?”
“Ma…”
“Hop!”
L’avvocato, molto
tristemente e sudando anche un po’, le passò davanti e con mille esitazioni
andò a fermare le guardie ai due lati di Malfoy.
Ginny li vide parlare per
qualche secondo, gesticolare. Dopo un po’ Malfoy la
guardò, inarcando le sopracciglia con la sua espressione, che nella varietà di
combinazioni dei suoi due muscoli del viso veniva catalogata sotto ‘ironica
sorpresa’.
Dopo altri cinque
minuti, l’avvocato, che ormai sudava da ogni poro, tornò verso di lei.
“Va bene, ma solo dieci
minuti”, disse asciugandosi la fronte con un fazzoletto, “le ripeto che non è
una buona idea…”
Forse l’avvocato senza nome
aveva ragione. Ma in quel momento le sembrava un’ottima idea.
Passò prima in bagno
cercando di appiattirsi i capelli. Sembrava Pippicalzelunghe
senza codini.
Oh, beh, pazienza.
Le fu indicata una
stanza che veniva usata come saletta ristoro. Prese il respiro ed entrò.
Malfoy alzò lo sguardo, seduto
all’unico tavolo della stanza.
Era una sua impressione
o sembrava cresciuto?
“Guarda guarda chi muore
dalla voglia di vedermi”, disse con un sorrisetto.
Era una sua impressione.
Ginny si sedette davanti a lui
dall’altro capo del tavolo, nervosa ma decisa a nasconderlo.
“A proposito di morte”,
disse sbattendo le ciglia, “volevo proprio farti le mie congratulazioni per la
tua non-morte. Sai, durante la battaglia…”
“Ah, anch’io ti faccio
le mie congratulazioni per la tua non-morte, ma soprattutto per il tuo
non-coma”, replicò lui, “avevi dato a tutti l’illusione che finalmente ti
saresti tolta dalle palle”.
Ginny fece una smorfia. Non
se l’era proprio immaginata così, la conversazione.
Draco la guardò negli occhi e
lei fece veramente fatica a reggere il suo sguardo. Diavolo, era fuori
allenamento.
“Ho saputo che sei
diventata babbana”, ghignò.
Ginny avvampò. Questo era un
po’ il suo punto debole. Era molto suscettibile al riguardo.
“Non sono diventata babbana”, disse
lei, “ho momentaneamente perso…”
“… sei diventata babbana. Come ci si sente, inutili?”, la interruppe lui.
Improvvisamente Draco aveva una gran voglia di offenderla. Perché l’aveva
costretto a vederla da vicino? Perché diavolo non lo lasciava in pace? Stava
diventando quasi inquietante. Prima lo inseguiva tra i Mangiamorte.
Poi lo inseguiva in tribunale. Il tutto per non dirgli niente di interessante
ma soprattutto per non dargliela praticamente mai.
Era praticamente una stalker. Avrebbe fatto mettere un ordine di restrizione su
di lei, pensò.
“Abbastanza, grazie”,
fece Ginny, ironica, “e al pensiero che uscirai di
prigione quando avrai passato i quarant’anni come ci si sente? Impotenti?”
Draco sorrise. Diamine, aveva
dimenticato quanto fosse divertente.
“Tutt’altro”, rispose,
“dubito che mi ci sentirò mai.”
“Come no, la speranza è
l’ultima a morire”.
Si guardarono, in
silenzio.
“Cinque minuti”, disse
qualcuno da fuori.
Improvvisamente, senza
alcun preavviso, Ginny fu colta da un attacco di
panico. Non si ricordava nemmeno più perché aveva voluto fare questa cosa.
Cioè, ora diceva due
cazzate, lui l’avrebbe guardata male, lei se ne sarebbe andata arrabbiata, e
poi? Tornava a casa e… preparava da mangiare?
Insomma, continuava la sua vita come se nulla fosse?
“Come mai non mi
rinfacci che sei stato lì durante il mio coma?”, non avrebbe voluto dirlo, ma
le uscì spontaneo.
Lui scrollò le spalle,
annoiato.
“Tra tutte le cose che
potrei rinfacciarti, questa non mi sembra efficace”, tagliò corto.
Ginny sospirò, abbassando lo
sguardo. Poi lo rialzò. Decise di dire tutto quello che le passava per la
testa. In fondo, non sapeva se avrebbe avuto un’altra occasione per parlargli.
“Quindi sono la persona
più importante per te?”
Draco la fissò, gelido.
“Prego?”
“Sai, l’incantesimo
durante la battaglia, la tua teatrale non-morte, la mia…
si vedevano morte solo le persone più importanti.”
Lui tacque, guardandola
dritto negli occhi.
“Non risponderò a questa
domanda senza il mio avvocato”, disse con una smorfia infastidita.
Dio, era proprio
antipatico come la merda. Però lei si sentì… un po’… contenta, per la prima volta da molto
tempo.
Tacquero ancora per un
po’.
Ginny alzò di nuovo lo
sguardo.
“Sai che quando uscirai
di prigione sarò una donna di mezz’età, presumibilmente con marito e prole a
seguito?”
Draco rise.
“Non mi aspetto niente
di meglio da te”, replicò.
“Ridi pure. Ma
probabilmente tu sembrerai più vecchio di quello che sarai e anche grasso.”
“Spero di no. Ad Azkaban c’è anche una palestra. Non avendo un cazzo da fare
tutto il giorno è più probabile che mi dia al body-building.”
Ginny, anche se non voleva,
scoppiò a ridere.
Draco la guardò.
“Non fare troppi figli,
o il sangue dei Weasley non si estinguerà mai.”
Il sorriso di Ginny si affievolì.
Non le piacevano affatto
quei discorsi, anche se li aveva iniziati lei.
La verità è che non la
faceva per niente ridere il pensiero di se stessa con un marito e con dei figli
mentre Malfoy faceva body-building, o quel che era.
Non le piaceva per
niente. Era stupido, forse, ma era così.
Qualcuno aprì la porta e
una delle guardie infilò la testa dentro.
“Dobbiamo andare”,
disse.
Malfoy si alzò, aggiustandosi
la giacca.
Ginny si sollevò
faticosamente.
“Sei consapevole di
avermi fatto perdere tempo per niente, Weasley?”
“Come se non avessi
davanti a te tutto il tempo del mondo”.
Draco rise. Non rideva mai
come una persona normale, nel senso, sinceramente – però era già la seconda
volta che lo vedeva perlomeno ridacchiare. Cosa che al tempo dei Mangiamorte era impensabile.
Le piaceva. Forse poco a
poco sarebbe riuscito a smuovere anche il resto dei muscoli della faccia.
Malfoy si girò e si diresse
verso la porta.
Ginny trattenne il respiro.
No, va bene, non ce la
poteva fare.
Lo seguì, gli si parò
davanti, gli afferrò un lembo della cravatta.
“Guarda che se pensi che
ti aspetterò ti sbagli di grosso”, gli bisbigliò minacciosamente, “guarda che
anche se sono una donna ho comunque intenzione di scopare come un riccio. Non
farò e disferò la tela in tua attesa”.
Draco inarcò le sopracciglia
sentendo l’atmosfera che si faceva leggermente elettrica. Perfino la guardia
tossì e socchiuse la porta rendendosene conto.
“La tela?”
“Lascia perdere. Voglio
dire, se credi che farò la donna del focolare pensando al tempo che fu, ti
sbagli.”
“Oh, lo so che sei una
donna moderna.”
“Fanculo.”
Draco ghignò.
Le afferrò con entrambe
le mani i polsi delle braccia. Riconosceva quelle ossa come se fossero le sue.
Ginny non allentò la presa
sulla sua cravatta. Poteva sentire il profumo di acqua di colonia sulla sua
camicia.
“Non ti agitare, Weasley”, le sussurrò, “vedrai che al momento giusto verrò
a rovinare il tuo matrimonio come tu hai fatto col mio. Magari anche prima di
quanto pensi, col mio avvocato strapagato: sai, c’è anche la buona condotta…”
Ginny lasciò la presa della
cravatta.
“Il tuo matrimonio era
una farsa. Non l’ho rovinato io.”
Draco la fissò ironico.
“Continua a crederlo, Ginny Weasley”, disse lasciandole
i polsi e allontanandosi da lei con un po’ di sforzo, “ma la verità è che sei
passata al lato oscuro molto tempo fa, e ormai ci sei dentro. Non credo che
abbiamo ancora finito di rovinarci la vita a vicenda.”
Le lanciò un ultimo
sguardo grigio, questa volta divertito.
Ginny lo guardò uscire dalla
stanza e girare l’angolo scortato dalle guardie.
Rimase in quella stanza
per qualche minuto.
Si sentiva svuotata
completamente, ma in senso buono. Nel modo in cui ti senti subito dopo aver
fatto l’amore un po’ violentemente, ecco.
Non credo che abbiamo ancora finito di rovinarci la vita a
vicenda.
Ma senti questo stronzo.
Spero che marcisca in quella sua fottutissima cella lussuosa, pensò Ginny.
Poi però, senza
accorgersene, sorrise.
Il Marchio Nero era
ancora sulla sua pelle, e probabilmente non se ne sarebbe mai andato.
Forse era vero che lei
era passata al lato oscuro molto tempo prima. Aveva venduto la sua anima al
diavolo la prima volta che aveva desiderato di baciare Draco
Malfoy.
E adesso…
beh, ormai il patto era stretto.
Se inferno doveva
essere, tanto valeva prepararsi a bruciare.
I don't know how to begin
'Cause the story has been
told before
I will sing along I suppose
I guess it's just how it goes
And now those sprangs in the air
I don't go down anywhere
I guess it's just how it goes
The stories have all been
told before
But if you don't char
The light won't hit your eye
And the moon won't rise
Before it's time
But I don't know how it will
end
With all those records playin'
I guess it's just how it goes
The stories have all been
told before
I guess it's just how it goes
The stories have all been
told before
I guess it's just how it
goes...
**
Oops, so che avevo ditto VIGILIA XD Vabbè, è che non
avevo ancora scritto i ‘ringraziamenti’ (cioè questi) XD Sorry!
Ad ogni modo, prima di tutto, Buon Natale!
E così finisce anche
questa fan fiction, pubblicata per la prima volta nel Marzo 2006… nel bel mezzo
della mia gioventù – adesso sono quasi quattro anni più vecchia! Argh! Inutile dire che terminarla se da una parte mi dà
soddisfazione come tutte le cose terminate con impegno, dall’altra mi mette un
po’ di nostalgia… se penso che quando scrivevo non
avevo ancora idea di come sarebbe finito Harry Potter mi sembra così strano!
Immagino sia proprio il bello dei libri, che al contrario dei film ti
accompagnano per un periodo della tua vita.
Ma cosa sto dicendo, che
c’entra?! Volevo solo ringraziare tuttissimi per le
recensioni ricevute per l’ultimo capitolo in particolare, in tutta la fan
fiction in generale. Le vostre osservazioni sono sempre costruttive e
intelligenti, alcune mi sono rimaste impresse mentre scrivevo – anche se di
solito faccio di testa mia, anche inconsapevolmente, alcuni vostri commenti mi
hanno influenzato molto nel stilare il finale…
immagino di non poter accontentare tutti, quindi ho cercato di scrivere quello
che la storia richiedeva come finale,
come i fanwriter sapranno ci sono momenti in cui i
personaggi e il racconto assumono vita propria. Alcune cose sono state lasciate
in sospeso volutamente, forse perché trovo che, come diceva Penelope Cruz in Vicky Cristina Barcelona “only unfulfilled love can be romantic” (l’amore romantico è
quello che resta inappagato), e io sostituirei qui ‘love’ con ‘i racconti’ (XD).
Che dire? Vi ringrazio
tutti, dal primo all’ultimo. Senza i vostri commenti incoraggianti non sarei
mai riuscita a portare avanti un ‘progetto’ così intricato, né a trovare la
forza di continuare a scrivere. Dopotutto un racconto esiste solo se esistono
lettori che lo leggono – almeno secondo me XD
Grazie, grazie, grazie. Le
canzoni che mi hanno accompagnata mentre scrivevo – come forse già dissi non
riesco a scrivere senza una musica ispirante – per molte delle quali devo
ringraziare Cri che me le ha fatte conoscere quando mi lamentavo “voglio una
canzone ispiranteeeeee” - mi ricorderanno questa fic ogni volta che le riascolterò. Questa fan fiction è
stata un rifugio dove sfogare sentimenti che non sarei mai stata in grado di
sfogare altrove; e spero che lo sia stata anche un po’ per voi, per quei minuti
che ci vogliono a leggere una storia e a staccare un po’ dallo stress della
vita reale.
Forse questa fan fiction
avrebbe potuto essere scritta da qualcun altro che non fossi io, ma non sarebbe
mai stata scritta senza di voi e il vostro sostegno, su questo non ho dubbi.
Vi auguro un buon
Natale, un buon Capodanno, buone feste in generale, ma soprattutto che possiate
provare tante emozioni che vi facciano arrivare a fine giornata, o alla fine di
questo 2009, pensando che ‘è questa la vita che voglio vivere’. Penso sia il
migliore augurio che possa fare!
Come regalino vi lascio
la compilation di tuuuutta la fan fiction, ovviamente
per me fondamentale XD Nel caso vogliate farvi un giro su youtube!
Grazie a tutti.
Miwako, aka
Jo
Here without you
– Three Doors Down
Here I am
– Marion Raven
He’s simple, he’s dumb, he’s the pilot – Grandaddy
No one – Aly&Aj
Vienna
– Billie Joel
Kiss from a rose –
Seal
Erase and rewind –
The Cardigans
Spaccacuore
– Samuele Bersani
Every me, every you
– Placebo
Glittering cloud
– Imogen Heap
All you wanted
– Michelle Branch
If I ever feel better
– Phoenix
Puppet –
Yael Naim
Turn and turn again
– All Thieves
To build a home
– Cinematic Orchestra
The story
– Norah Jones
How far we’ve come
– Matchbox Twenty