I’LL
LOVE YOU BEYOND THE DEATH
Nota dell’autrice
Salve a tutti! Scusate
l’inizio monco, innanzitutto: questo
è un estratto di una fanfic che avrei dovuto pubblicare
questo natale, ma che
non sono riuscita a finire…
Questa parte, però, mi
piaceva troppo per non farla leggere
a qualcuno…molto probabilmente non è nulla di
speciale, ma qui su EFPfanfic ho
trovato solo uno scritto su Italia e HRE.
Buona Lettura in ogni caso J
P.S. il titolo significa : ti
vorrò bene oltre la morte
Situazione: Siamo a casa di America,
Natale. Le nazioni e i
loro presidenti sono tutti riuniti.
Germania e Italia stanno parlando del
loro passato quando…
-Guarda!-
Ludwig prese il foglietto che gli
porgeva Italia. Solo ora
si accorgeva che era in realtà un pezzetto di tela, un
piccolo dipinto ad olio.
Seppur fosse minuscolo, era stato
fatto con gran maestria,
ed era probabilmente opera dello stesso Feliciano.
Sullo sfondo stavano un ragazzo e una
ragazza: lui con un
paio di occhialini pinc-nez sul naso appuntito e
un’espressione computa in
volto, lei lo abbracciava, i capelli castani cosparsi di fiori e tirati
indietro da una cuffietta bianca.
Davanti, c’erano due
bambini. Uno sembrava un maschio,
eppure indossava un vestitone con un’ampia gonna e un
fazzoletto in testa, da
cui spuntavano ciuffetti ramati.
Il tedesco sorrise, riconoscendo il
ragazzo che ora gli
stava vicino in quel fagotto sorridente, dal viso a luna piena.
I suoi occhi si spostarono
sull’ultima figura, che gli
rispose con uno sguardo identico, dello stesso azzurro.
Questo era evidentemente un bambino,
dalla pelle lattea e i
capelli corti e biondi, che contrastavano stranamente con il vestito e
il
tricorno con cui l’aveva ritratto Italia, entrambi neri.
Lo fissò, sentendosi
tuttavia a disagio.
Quel viso gli era in qualche modo
famigliare…
-Ehi, Italia- gli fece –
Chi è questo bambino?- disse
indicandoglielo.
Il ragazzo sorrise – se
possibile – più del solito:
-Era un mio grande amico, gli volevo
molto bene…-
-Era?- Ludwig lo guardò
con curiosità.
L’altro annuì,
negli occhi una strana malinconia.
-Sì…un giorno
è andato via, e non è più
tornato…- sollevò i
suoi occhi dorati su di lui, aprendoli poco a poco –Sai, era
piuttosto famoso e
potente, una volta…si chiamava Sacro Romano Impero-
Ludwig alzò di scatto la
testa.
-E..ehi, dotsu…tutto a
posto?- Italia lo guardò preoccupato,
notando l’espressione sconvolta che si era dipinta sul viso
dell’amico.
Il tedesco avrebbe voluto
rispondergli, ma una fitta gli
spaccò in due la testa. Di nuovo. Esattamente come al suono
di quel nome, che,
pure, aveva già sentito molte volte e letto nei libri di
storia.
Il dolore ritornò ancora e
ancora, facendogli chiudere gli
occhi in una smorfia di dolore.
Feliciano lo guardava preoccupato,
gli occhi ormai
completamente spalancati e spaventati.
Un gemito uscì dalle
labbra del tedesco, e Italia gli si
fece vicino, sorreggendolo.
Tuttavia, il tedesco lo
scostò e si allontanò traballante,
dirigendosi verso gli scaloni che portavano al piano superiore.
Una serie di parole sconnesse
giunsero alle orecchie di
Feliciano, pronunciate a fatica:
-Sto
bene…Italia…r-ritorna a cena…io
va-vado in camera…-
Le scale si allargavano
pericolosamente davanti agli occhi
vacui del ragazzo, come se fossero di caramello fuso, mentre lui si
aggrappava
faticosamente al corrimano di marmo.
Il freddo della pietra gli si
irradiò per il braccio,
calmandolo un po’, ma senza cancellargli il dolore alla
testa. Lentamente,
alcune immagini sfocate stavano emergendo dai recessi del suo cervello,
ballandogli impazzite davanti.
Quando sentì (o vide?)
sotto i suoi piedi la soffice
moquette rossa del corridoio superiore si lasciò scivolare
lentamente a terra,
rannicchiandosi contro il muro.
Sudori freddi gli inzuppavano la
camicia, che ormai gli
aderiva come una seconda pelle alla schiena, e gli facevano cadere i
capelli
biondi sulla fronte.
Rabbrividì: un paio di
occhi di un cupo rosso rubino gli
erano apparsi davanti, fissandolo insistentemente.
Poi un altro paio e un altro e un
altro cominciarono a
guardarlo, tetri, facendogli chiudere di nuovo gli occhi.
Germania, dalla posizione semi-seduta
in cui era scivolato,
si trovò d’incanto sdraiato sulla moquette,
accasciato su un fianco.
E lì, inerme, le immagini
lo sommersero, senza lasciargli
via di scampo.
Feliciano corse impazzito su per le
scale.
Da quando Ludwig era salito
traballando come un pulcino
ferito, aveva già avvisato America del malore del suo ospite
e il primo
ministro tedesco; così, mentre tutte le nazioni si
guardavano preoccupate,
Alfred stava preparando un’improbabile cassetta del pronto
soccorso (cercando
di vestire Arthur da crocerossina) e la M. controllava lo stato
finanziario
della Germania (vedendo nel crollo del ragazzo un possibile pericolo
all’economia tedesca).
Italia sperava segretamente di
trovare nella sua camera un
Germania già completamente ristabilito, anche seccato del
fatto che lo stesse
già cercando e avesse messo in allarme tutti per lui.
Ma le sue speranze si spezzarono come
il suo cuore quando
vide il ragazzo disteso per terra, che respirava a fatica, ansimando.
Si gettò vicino a lui,
scuotendolo per il colletto della
camicia, chiamandolo per nome.
Alle sue urla, accorsero subito
Lovino e Antonio, che
trovarono Feliciano con il tedesco in grembo, le lacrime del suo volto
che si
mescolavano a quelle che, in sogno, versava anche Germania.
Ludwig si trovò a
fluttuare in una strana dimensione dai
colori soffusi: intorno a lui pareva esserci come un campo di
battaglia, grigio
come tanti corvi ammassati su un unico albero.
L’aria era satura
dell’odore di polvere da sparo, che gli
irritava la gola e gli occhi.
Senza sapere perché,
iniziò a farsi strada tra le macerie, i
cannoni e i corpi di soldati che giacevano qui e là, come
giocattoli
dimenticati, lo sguardo attirato da una figurina in lontananza.
Poco a poco, la figura divenne
più nitida, emergendo dalla
polvere scura, rivelandogli un bambino dagli occhi azzurri.
Germania aumentò la foga
nel districarsi dal fango che gli
serrava i piedi, correndo verso di lui.
Sentiva quasi un vago senso di
minaccia nel cuore, sapeva
che DOVEVA proteggere Sacro Romano Impero, quella potente nazione che
ora stava
piangendo rannicchiata a terra, come un bambino qualsiasi.
Improvvisamente, un’ombra
si materializzò alle spalle del
piccolo, che continuava a singhiozzare senza accorgersi di nulla.
Un ragazzo pallido dagli occhi rossi
gli strinse rapido un
fazzoletto sulla bocca, probabilmente imbevuto di sonnifero, facendolo
addormentare velocemente e portandolo via con sé, come una
bambola.
Ludwig si sentì svanire
ancora, trasportato in un altro
ricordo, appena dopo aver visto gli occhi del bambino rivoltarsi un
attimo
terrorizzati verso Prussia, e, l’attimo successivo, la sua
testa ciondolare
sulla sua spalla.
Lovino guardò sgomento il
fratellino singhiozzare.
A fatica, Spagna lo separò
da Germania, che si caricò sulle
spalle gracili e trascinò verso la sua camera.
L’italiano maggiore
aprì la porta facendo tintinnare la
chiave argentata nella serratura, poi prese il tedesco per i piedi
mentre
l’amico lo teneva per le ascelle, e lo trasportò
sul suo letto, dove lo fece
ricadere pesantemente.
Mentre Spagna si massaggiava le
braccia doloranti, Lovino si
voltò verso il fratello, che li aveva seguiti imbambolato.
Decise di mostrarsi gentile per una
volta.
-Felì- disse dolcemente,
chiamandolo con il soprannome
–Rimani qui ad aspettare il
dottore…cioè, Alfred, ok?-
Feliciano continuò a
guardare il vuoto, ignorandolo.
-Vedrai…si…si
tratta solo di un po’ di influenza…o di
stanchezza al massimo-
Il ragazzo faceva del suo meglio per
dimostrarsi
ragionevole, ma un sussurro proruppe dalle labbra esangui del fratello,
bloccando i suoi balbettii:
-È colpa mia se Doitsu sta
male…-
-Cosa dici Felì?- gli
chiese l’altro –Il mangia pa…Germania
sta male, ok, ma non per colpa tua!-
-Sì invece…-
Feliciano tirò su col naso. Sollevò gli occhi
su di lui. Il suo sguardo inchiodò Lovino, che lo
giudicò troppo vacuo,
isterico per essere quello del suo fratellino.
-Ma io NON VOLEVO, DAVVERO,
CAVOLO!!!- urlò il ragazzo
–IO…VOLEVO SOLO FARGLI VEDERE SACRO ROMANO
IMPERO…LA MIA VECCHIA CASA!-
Feliciano estrasse dal taschino della
camicia una piccola
tela sgualcita e prese a guardarla ossessivamente, senza nemmeno
vederla sul
serio.
Lovino gliela agguantò,
ignorando le sue proteste. Non
voleva che rimuginasse.
La guardò distrattamente.
Poi ancora, con attenzione. E
ancora.
C’era qualcosa che
l’aveva colpito…una sorta di campanello
gli trillava insistente nelle orecchie.
Il suo sguardo saettò sul
viso contratto del tedesco, e poi
si diede mentalmente dell’idiota.
Come aveva potuto non pensarci?
Un nuovo ricordo prese forma attorno
Ludwig.
Si trovò in una camera
buia e piccola, che ricordava forse
una cella, attraverso la quale filtrava un solitario raggio di luce,
che
proveniva da una piccola finestrella.
Un lettino era addossato ad una delle
quattro pareti grigie,
vicino ad un comodino traballante; tra il groviglio di coperte che vi
figurava,
riposava placido il bambino dagli occhi azzurri, rannicchiato su un
fianco.
Germania gli si avvicinò,
ascoltandone il respiro fioco, poi
si voltò. Delle voci in lontananza si stavano avvicinando.
Si guardò freneticamente
in torno in cerca di un
nascondiglio, ma, oltre il letto e il comodino non vi erano altri
mobili.
Una chiave girò nella
toppa della porta, e due figure si delinearono
sulla soglia della camera.
La prima, era un vecchietto gracile e
dalla pelle chiara,
intessuta da un fitto reticolo di vene azzurrine, con una capigliatura
scomposta e bianca in testa. La seconda, altri non era che Prussia.
Germania li fissò
sgomento, ma i due non diedero segno di
vederlo, anzi, gli passarono letteralmente attraverso, andando al
capezzale del
bambino.
Il vecchio posò sul
comodino una borsa di pelle, da cui
estrasse uno stetoscopio.
Prussia scostò le coperte
da Sacro Romano Impero, e tese le
mani verso di lui.
Germania lo guardò
preoccupato, ma lo stato sollevò con
dolcezza il bambino dal letto, prendendolo in braccio e sollevandogli
delicatamente la camicia da notte dal petto.
Il dottore (e chi altri avrebbe
potuto essere il vecchio?)
gli posò lo stetoscopio sulla pelle diafana, da cui
spuntavano delle costole
sottili, come quelle di un uccellino.
Dopo aver posato lo strumento,
procedette ad una rapida
visita, controllandogli le orecchie e la gola; tutto si svolgeva con la
rapidità e la sicurezza di un gesto svolto abitualmente, e
il bambino dava
segno di volersi svegliare.
Germania si riscosse quando Prussia
rivestì il piccolo e lo
rimise a letto, rimboccandogli goffamente le coperte. Gli
accarezzò i capelli
un momento, poi seguì il dottore fuori dalla camera, mentre
quest’ultimo
indossava una zimarra scura, preparandosi a lasciare la dimora.
Germania attraversò come
un fantasma la porta della camera e
li andò dietro, origliando il loro discorso.
-Come sta dottore?- chiese Prussia
pacatamente
L’uomo si strinse nelle
spalle –Sta bene. È una fortuna che
voi nazioni non abbiate la necessità di mangiare
regolarmente come noi umani.
Altrimenti sarebbe già passato a miglior vita-
Prussia sospirò:
-È l’unico modo per impedirgli di sparire.
Ufficialmente, non esiste più dal 1806, ossia
l’anno scorso- Raddrizzò le
spalle –Un giorno crescerà, dottore,
sarà libero, forse ritornerà una nazione
forte…ma per ora, solo il sonno lo può salvare-
-È un suo parente?
È per questo che tiene così tanto a lui?-
chiese il dottore incuriosito
-Più o meno- Prussia
sorrise amaramente –Alla lontana,
forse. Ma no. Non è per questo…potrebbe farmi
comodo salvare una
nazione…potrebbe proteggermi quando e se
diventerò debole, capisce?-
Il vecchio annuì: -Una
sorta di…figlio adottivo, giusto?-
-Una specie- Prussica lo
guidò verso una porta di quercia,
che aprì, rivelando all’esterno un cupo cielo
invernale, in cui turbinavano
sparuti fiocchi di neve –Quanto le devo per la visita?-
Il vecchio sorrise, accentuando le
rughe del viso –Ora che
so il motivo del suo…diciamo,
“salvataggio”, non le chiederò
più niente…mi
basterà vedere, un giorno, il bambino diventare un
uomo…diventare come lei-
Germania ebbe un moto di affetto
verso l’uomo.
E non sapeva nemmeno
perché…
-Felì- Lovino
sollevò gli occhi dalla tela –Vieni un attimo
qui-
Feliciano gli si avvicinò,
stravolto dallo sfogo di pochi
attimi prima.
-Guarda bene Sacro Romano Impero. Non
ti ricorda qualcuno?-
disse, piazzandogli davanti il dipinto.
Il ragazzo si asciugò gli
occhi, ormai rossi, con la manica
della camicia, poi lo osservò.
-Chi mi dovrebbe ricordare?- chiese,
incuriosito suo
malgrado.
Lovino levò gli occhi al
cielo. Feliciano era sempre
Feliciano.
-Ti do un aiuto…occhi
azzurri…capelli biondi…muso lungo…chi
mai potrebbe essere?- fece ironicamente.
Felì ci pensò
un attimo, poi esclamò esultante: -Doitsu!- e
prese a guardare adorante il suo vecchio amico d’infanzia,
con le lacrime che
ricominciarono a rigargli le guance.
-Ti prego non piangere di nuovo!-
esclamò esasperato il
fratello –Non capisci? Potrebbero essere parenti! Forse,
addirittura,
fratelli!!!-
Il ragazzo aspettò che le
sue parole facessero l’effetto
sperato.
-Doitsu me l’avrebbe detto-
disse cocciutamente Feliciano.
-E se non lo ricordasse? Se qualcosa,
come il ritratto di
Impero, glielo avesse fatto tornare alla memoria solo ora? Pensaci,
Felì!!!-
Feliciano lo guardò
–Sarebbe figo…-
-Già, anche
perché potrebbe dirti che fine ha fatto il tuo
caro, vecchio amico- disse Lovino, con un sorrisetto furbo.
Prussia salutò
l’uomo con un cenno della mano, mentre
l’altro si allontanava per un vialetto alberato, poi si
ritirò in casa,
chiudendosi la porta alle spalle.
Germania lo seguì
attraverso i corridoi bui di casa sua,
fino a ritornare nella cameretta di Sacro Romano Impero.
Il ragazzo prese da un angolino uno
sgabello, che trascinò
vicino al letto del bimbo, e lì si sedette, con la testa tra
le mani e i gomiti
puntati sulle ginocchia.
Improvvisamente, il tempo parve come
accelerare: Prussia si
levò di scattò dalla sedia e uscì
velocemente dalla stanza, come in un film
mandato in onda al doppio della velocità.
La camera divenne più
luminosa, poi più buia, poi ritornò
inondata dalla luce del sole, che, dalla finestrella, riusciva a
vederlo mentre
sorgeva e tramontava impazzito.
In pochi secondi, passarono quelli
che dovevano essere anni.
Il bambino perse le sue sembianze
paffute, e si allungò,
smagrendo, diventando prima un pallido e allampanato adolescente, e poi
un
giovane dai muscoli asciutti.
I suoi tratti assunsero un aspetto un
po’ spigoloso e
severo, mentre i capelli rimasero di un biondo chiaro.
Ludwig si avvicinò
lentamente al letto, mentre il tempo si
stabilizzava.
Tra i cuscini e le coperte giaceva
una sua copia, che
dormiva un sonno ora agitato.
Germania lo fissò
impietrito, mentre il suo alter ego apriva
lentamente gli occhi, d’un azzurro intenso.
Si sollevò faticosamente a
sedere, stiracchiando le membra
indolenzite.
La porta si aprì e il
ragazzo socchiuse gli occhi,
disabituati ormai alla luce.
Sul viso di Prussia si dipinse
un’espressione sorpresa e poi
di pura gioia, come un bambino davanti ad un regalo gradito ed inatteso
il
mattino di Natale.
-Buongiorno Germania- disse, con voce
rotta dall’emozione.
Ludwig spalancò gli occhi,
trovandosi disteso su un soffice
lettone in una
camera enorme, arredata
con dubbio gusto (quello di Alfred).
Si sentiva molto spossato, ed ebbe
quasi la tentazione di
rimettersi a dormire.
Chiuse un attimo gli occhi, e le
ultime immagini gli
scorsero davanti: il suo addestramento con Prussia, i giochi con il
piccolo
Feliciano (vestito da cameriera), e poi la guerra che aveva combattuto
insieme
a lui, da grandi.
Come aveva fatto pochi secondi prima
(o secoli?) lui stesso
in un’altra vita, si alzò, sbadigliando
sonoramente.
Lovino e Feliciano sentirono il
sangue gelarsi nelle vene.
Avevano sentito qualcuno sbadigliare alle loro spalle. E Antonio era
uscito
dalla stanza una manciata di secondi prima.
Felì si voltò
per primo, e urlò di gioia, saltando addosso a
un Germania piuttosto intontito.
Lovino sorrise, poi uscì
silenziosamente dalla camera,
decidendo di lasciare il fratello solo con le risposte che, forse,
avrebbe
trovato.
Feliciano strinse Ludwig,
abbracciandolo con foga, piangendo
e ridendo allo stesso tempo.
-Mi hai fatto prendere uno spavento
colossale, Doitsu!!!-
esclamò.
Germania fissò quel
ragazzo più basso di lui di otto
centimetri che lo teneva stretto con sorpresa.
Quante ore erano passate dal suo
svenimento?
-Ehi, Italia, calmati…sto
bene, ora-
Feliciano sollevò il viso
su di lui:
-Ma che ti è successo? Sei
crollato davanti a camera tua e
io…io…mi sono preoccupato…-
Germania squadrò quel viso
dall’aria distrutta, di un
pallore inusuale, troppo vicino al suo. Si districò
dall’abbraccio con
gentilezza, facendo sedere Italia vicino a lui.
-Stai tranquillo
Ita…Feliciano. Ora sto davvero bene-
Germania sorrise.
Italia lo guardò sorpreso.
-Io…ho ricordato cose
che…avrei perso per sempre, se non
fosse stato per te- il ragazzo arrossì, guardando da
un’altra parte.
Feliciano pensò al
fratello e le sue ipotesi. Possibile che
potesse avere ragione?
-Cosa hai ricordato, Doitsu?-
Ludwig sorrise allegro, rivolgendo su
di lui lo sguardo.
-Che una volta pensavo fossi una
bambina…e quanto dipingevi
bene-
Italia sentì una sorta di
affanno al cuore, ma piacevole,
diverso da quello che aveva provato di fronte al ragazzo svenuto.
-Noi ci conoscevamo già
quando scoppiò la Prima Guerra
Mondiale…ma forse, allora mi chiamavi Sacro Romano Impero-
Feliciano gli si gettò
addosso di nuovo, ma questa volta
Germania rispose all’abbraccio.
Un ultimo ricordò gli
balenò nella mente, e lo fece
sorridere, mentre una lacrima, ma piccola, faceva capolino nei suoi
occhi di
solito così gelidi.
Sacro Romano Impero si
voltò verso Italia, sventolando la mano.
Non lo preoccupava più
partire per la guerra, o stare
separato da lui. Il cielo risplendeva quella mattina, e, un giorno,
sarebbe
tornato.
-Non importa quanti secoli
passeranno. Ti amerò sempre più
di chiunque altro al mondo-.
E per una volta, l’affetto
tra due amici aveva davvero
superato ogni tempo, ogni spazio.
Aveva sconfitto la morte di una
nazione.
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