eyes 1
Premessa (sì, ormai è un'abitudine):
Volevo
scrivere una storia con kisame e Itachi protagonisti da una vita: amare
tanto una coppia e non riuscire a scriverci è una tortura. Ho
scoperto che riuscire a non sconfinare nell'OOC è
complicatissimo, e che il risultato non è che sia dei migliori,
volevo dire tante cose ma molto ho dovuto tagliare.. Credo che di tutto
questo mi garbino soltanto un paio di scene.
Tuttavia, in
sede di giudizio è saltato fuori che è un lavoro migliore
di quanto credessi (ditemi, come faccio ad aver acchiappato il premio
dell'IC? XD). Ringrazio Rei Murai e Iaia86 per la valutazione a dir
poco lusinghiera, e ne approfitto per congratularmi con tutte le altre
partecipanti <3
Piccola nota ancora, anche se non so se passerà di qui (XD), ringrazio di tutto cuore meg89. Per fortuna che ci sei <3
Eyes – fumo di china
1]
Non andava bene.
Non andava bene per niente. Kami solo sapeva cosa ne sarebbe
scaturito.
Deidara si ravviò la chioma
bionda sulle spalle, fissando nervoso la coppia di studenti appena formata al
primo banco: no, non andava per niente bene che Kisame Hoshigaki fosse stato
costretto da un professore ormai stufo a sedersi accanto alla silenziosa figura
di Itachi Uchiha: uno, perché in quel modo metà della sua visuale della lavagna
andava beatamente a farsi fottere; due, e non meno importante, perché da quella
convivenza forzata non ne sarebbe nato un bel niente di buono, se lo sentiva.
Oh, se lo sentiva.
Quei due erano troppo diversi, ed
era bene che stessero seduti in punti diametralmente opposti della classe come
avevano giustamente fatto fino a quel momento: perché diavolo l’insegnante non
capiva, che per mantenere un minimo di salute mentale in entrambi era vitale
che non s’incontrassero?
Perché da un qualsivoglia tipo di
contatto, che fosse fisico, mentale o vocale, tra Kisame Hoshigaki e Itachi
Uchiha, potevano nascere due cose: o una carneficina, o un qualcosa che Deidara
si rifiutava categoricamente di definire.
Figlio di una delle più
importanti famiglie del borgo di Konoha, Itachi Uchiha era considerato a buon
ragione quello che si poteva tranquillamente definire genio. Nel senso più alto
del termine. La sua mente aveva un nonsochè di alieno, per i suoi coetanei, dal
momento che era in grado di giungere a una conclusione molto prima, molto
meglio e molto più approfonditamente dei suoi compagni: poco aiutava che i suoi
processi mentali fulminei, che mandavano in solluchero i professori di ogni
scuola frequentata, non fossero abbinati a un carattere aperto e socievole, che
avrebbe quantomeno aiutato la sua integrazione. Itachi non parlava. Né coi
ragazzi con cui frequentava scuola, né con eventuali conoscenti esterni, né
tantomeno con la famiglia: le sue sole funzioni vocali erano ridotte alle forme
minime di comunicazione per evitare fraintendimenti, o alle esaurienti
interrogazioni cui era sottoposto per regime scolastico.
Col passare degli anni attorno a
lui era fiorito un gran numero di superstizioni e di pregiudizi; e alla fine, i
ragazzi e le ragazze avevano deciso di comune accordo, dopo mille tentativi
andati a vuoto, di lasciar perdere l’idea di provare quantomeno ad instaurare
un rapporto socievole. Loro ignoravano lui, assistendo con muta soggezione ad
ogni sfoggio della sua cultura; lui ignorava loro, comportandosi come se
all’universo non esistesse altri che lui stesso, la lavagna e l’insegnante di
turno. Se lo facesse per boria o per altro, nessuno lo sapeva.
Kisame Hoshigaki, invece, aveva
una fama del tutto diversa. Il ragazzo difficile, dal carattere rissoso, più
inclinato a passare le sue giornate nelle strade dei quartieri dissestati
piuttosto che dedicarsi attivamente allo studio. Storia complessa e
problematica, con un’infanzia catalogata come delicata, il ragazzo aveva
sviluppato un interesse neanche tanto celato verso le armi bianche* e da
qualche tempo, era entrato a far parte di una banda di scavezzacollo
altrettanto scapestrati che si faceva chiamare i Sette Spadaccini. O, come li
definiva qualche maligno, i Sei più Uno, in quanto l’ultimo acquisto del
gruppetto non era nemmeno in odore di pubertà.
Nelle aule scolastiche, l’atteggiamento
di Kisame rasentava la schiva aggressività. Non concedeva amicizia a nessuno,
guatando l’aria come un cane rabbioso quando s’invadevano troppo i suoi spazi,
e aveva l’abitudine di fissare i suoi eventuali interlocutori con uno sguardo
tagliente da squalo, che faceva passare a tutti il desiderio di rivolgergli il
saluto. I professori avevano tentato più volte di convincerlo che, per il suo
bene, era assai più indicato trascorre qualche ora con un libro in mano invece
che in un vicolo oscuro a prendere contatti con la malavita; ma ogni sforzo era
risultato vano, giacché erano stati completamente snobbati, e se il ragazzo era
riuscito ad arrivare fin lì era dovuto semplicemente al fatto che l’intero
consiglio docenti era terrorizzato all’idea di cosa sarebbe accaduto
nell’ipotetica eventualità di una bocciatura.
Da queste premesse si poteva
facilmente dedurre perché la prima fila di banchi del lato destra fosse
occupata unicamente dalla genial persona di Itachi Uchiha; e perché invece
Kisame Hoshigaki trascorresse le ore di lezioni, quei giorni in cui risultava
presente, imbucato nell’ultimo banco in fondo a sinistra, incuneato tra il
davanzale della finestra e la parete di fondo.
Ma si sa, l’Umanità è
rappresentata da un’accozzaglia di anime inquiete. E dopo essersi lagnato per
quasi cinque anni per la condotta assolutamente inaccettabile, per il
rendimento che s’avvicinava pericolosamente allo zero e per l’attenzione
inesistente dello studente meno brillante di tutte le quinte, il professore di matematica,
tal Iruka Umino, aveva raggiunto il limitare della sua infinita pazienza:
trattenendo a stento una reazione isterica, aveva intimato a Kisame Hoshigaki
di fare armi e bagagli e di trasferirsi al desco immediatamente davanti alla
cattedra, chiosando che una migliore compagnia gli potesse giovare. Poco
importava che tutti gli altri ragazzi della classe fossero ammutoliti
inorriditi, poco importava se Itachi Uchiha avesse avuto, in quell’istante, la
prima reazione apparente della sua vita sollevando di scatto il capo con
un’occhiata tagliente da dietro le lenti trasparenti degli occhiali, poco
importava se Kisame stesso avesse manifestato il suo disappunto con un ringhio
feroce e una sequela di imprecazioni più o meno colorite nell’alzarsi in piedi:
il dado, ormai, era tratto, e Iruka Umino fu l’artefice della paventata
Apocalisse.
Con un tonfo secco, Kisame depositò lo zaino poco ricolmo
accanto alla sedia che avrebbe dovuto ospitare la sua persona durante l’orario
scolastico, e con stizza gettò un’occhiataccia al suo nuovo vicino. Itachi non
lo stava fissando, impegnato invece a mantenere fissa l’attenzione
sull’insegnante che, finalmente calmatosi, aveva ricominciato la lezione da
dove l’aveva abbandonata; così il giovane si concesse trenta secondi per
studiare approfonditamente quel viso che non aveva mai avuto occasione di
osservare così da vicino: la pelle chiarissima, pallida, talmente nivea da
sembrare a tratti traslucida, il naso proporzionato e sottile, e i capelli
serici e lunghi che incorniciavano il voto in una carezza d’ebano. Ma quello
che lo colpì maggiormente furono quegli occhi neri che si aprivano come due
pozzi di nero petrolio a fagocitare la luce esterna, brillando delicatamente al
chiarore mattutino filtrato dalle finestre: c’era un qualcosa di non ben
definito, forse nel colore o nella forma, che attirava l’attenzione impedendo
di distogliere immediatamente lo sguardo, e che pareva richiamare
insistentemente l’attenzione. Potevano dei normali bulbi oculari brillare in
quel modo, dietro a un paio di occhiali così spesso…?
-Hoshigaki-
Riscuotendosi dalla contemplazione, Kisame si accorse di
essersi sporto verso di lui per osservarlo meglio, invadendo di gran lunga
qualunque confine di cortesia una persona potesse avere. Itachi si era voltato
al suo indirizzo, permettendogli sì di avere una miglior visuale del suo viso,
ma rivolgendogli al contempo un’espressione di impassibilità statuaria che
avrebbe scoraggiato chiunque dal perseguire nella sua opera di disturbo
silenzioso. E come avrebbe fatto chiunque, anch’egli si voltò rapidamente,
prima che un insolito pensiero lo cogliesse.
-Uchiha. Tu….hai appena aperto bocca o mi sbaglio?-
-Hoshigaki- la voce di Itachi aveva un timbro basso, adatto
a qualcuno che non ne usufruisse abbastanza spesso, con una sfumatura fredda e
impersonale che aggrediva l’udito similmente a una sferzata di lame appuntite
–Stai zitto-
Punto sul vivo, Kisame reagì con rabbia, digrignando furioso
i denti: un’occhiata soltanto al professore impegnato a scribacchiare un
esercizio, e si chinò verso di lui strattonandolo per il davanti della divisa.
-Non osare dirmi
cosa devo fare, razza di secchioncello bastardo, chiaro?- sbraitò con foga,
tanto che l’intera classe sobbalzò e il professore si voltò immediatamente,
allarmato. Qualche metro più indietro, Deidara scosse la lunga chioma dorata.
Che aveva detto lui? Niente di buono, ed erano solo al primo contatto.
Purtroppo per lui, le cose non sarebbero procedute come
previsto.
Con diffidenza,
Kisame gettò un’occhiata al di sopra del gomito sinistro, tentando di sbirciare
nel quaderno aperto la fine ed elegante scrittura del compagno di banco. Non ne
era assolutamente certo, ma dal momento in cui il professore di letteratura si
era messo a riempire la lavagna di geroglifici complicati intimando loro di
copiarli pari pari, anche la penna di Itachi si era unita allo sfreghìo
convulso della tra scrittura, ma con un ritmo completamente diverso. Le iridi
scure saettavano rapide, da dietro le spesse lenti degli occhiali, seguendo l’andamento del gesso, ma la mano
trasmutava quello che leggevano in un andamento assente; a volerlo studiare con
attenzione, pareva anzi che non stesse seguendo affatto la costruzione del
periodo, lasciando spesso e volentieri delle zone bianche sul foglio. Perché
mai un secchione come Itachi avrebbe dovuto saltare di proposito intere frasi?
Probabilmente accorgendosi di
essere osservato, il soggetto delle sue supposizioni, spostò con decisione il
proprio taccuino lontano dalla sua vista, arricciando contrariato il naso al
suo indirizzo.
-Hoshigaki- sibilò – segui la
lezione-
-Non provare a farmi la
paternale, Uchiha, tu per primo te ne stai fregando- soffiò in risposta,
irritato
-Fatti gli affari tuoi e scrivi-
-Non osare dirmi cosa fare, razza
di…-
-Vedo qualcuno particolarmente
volenteroso di tradurre questa versione, uhn? Vuoi provare tu, Uchiha? Così
magari tu e Hoshigaki chiarite i dubbi che vi sono sorti-
La voce aspra e tagliente del
professore interruppe il piccolo litigio sul nascere, richiamandoli alla realtà
in un battibaleno: Kisame si raddrizzò immediatamente sulla propria sedia, come
se fosse stato punto da uno scorpione; Itachi diede un piccolo colpetto agli
occhiali per sistemarli meglio sul naso mentre si schiariva la voce, e concentrò
tutta la sua attenzione sulla lavagna, quasi avesse intenzione di inglobarla
nella sua mente con la sola imposizione della vista.
-Io…io ho quasi…- la voce, per
quanto ferma, si fermò quasi subito, allarmando non poco il vicino. Kisame gli
gettò immediatamente un’occhiata inquieta, e per poco non rimase a boccheggiare
come un pesce fuor d’acqua: Itachi tentava disperatamente di mettere a fuoco
qualcosa, battendo a più riprese le palpebre, arrivando quasi a tremare per lo
sforzo che impiegava nel farlo. Si mordeva il labbro inferiore, scorrendo
febbrile le righe, gettava un’occhiata al quaderno e di nuovo serrava gli occhi
a più riprese.
Itachi non vedeva quel che stava
leggendo.
Colto da un’irrazionale ondata di
panico, Kisame tornò a rivolgersi verso il professore in attesa e la lavagna
con un movimento secco del busto; e il suo cervello iniziò a scervellarsi
freneticamente su come rimediare all’essere stato colto alla sprovvista. Non
poteva essere vera una cosa del genere, non poteva stare capitando lì, in quel
momento, a quella persona in particolare. Itachi era perfetto, non poteva avere
un problema così grave in grado di tangerlo a tal punto. E il professore si
stava spazientendo, Itachi non riusciva ad arrivare in fondo alla frase, e le
sue dita iniziavano a battere furiosamente sul bordo del banco in preda a un
nervosismo crescente. Deglutì a vuoto, torturandosi le dita.
Itachi non vedeva quel che stava
leggendo. Però, poteva pur sempre ascoltare…
E il suo istinto decise per lui
sul comportamento da seguire.
-I have almost forgot the taste
of fears- mormorò pianissimo, attento a non farsi udire da nessun altro,
mantenendo contemporaneamente lo sguardo puntato sulle parole che, stampate sul
libro, parevano bruciargli sulle labbra.
Itachi interruppe istantaneamente
il suo disperato tentativo di completare la lettura, battendo le palpebre
un’ultima volta in un moto d’esitazione. Poi, con sicurezza, abbassò lo sguardo
-Ho quasi dimenticato il sapore
della paura-
- The time has been, my senses
would have cool’d- proseguì l’altro, cercando di nascondere il moto del suo
labiale all’insegnante
-C’è stato un tempo, in cui i
miei sensi sarebbero raggelati….-
-To hear a night-shriek, and my fell of hair-
-Nell’udire un grido nella notte,
e i miei capelli…-
-Would at a dismal treatise rouse and stir as
life were in’t-
-…si sarebbero rizzati come
animati da vita propria a un macabro racconto.-
-I have supp’d full with orrors-
-Sono sazio d’orrori…-
-Direness, familiar to my slaughterous
thoughts, cannot once start me-
-La ferocia, compagna di tutti i
miei pensieri di massacro, più non riesce a farmi trasalire-**
Un silenzio assoluto seguì il
termine della declamazione, lasciando molto tempo ai ragazzi raggelati dal
sentire la voce metallica impersonare alla perfezione il ruolo di Macbeth, di
ritrovare un minimo di calma, prima che il professore si considerasse
soddisfatto e riprendesse a scrivere serratamente. Kisame, riuscendo a stento a
controllare il tremore che gli attraversava le mani, strinse la matita talmente
energicamente da sbiancare le nocche, ordinandosi di non voltarsi, per nessuna
ragione e per nessun motivo, verso il viso che – di sicuro – lo stava finemente
analizzando.
-Hoshigaki- la voce di Itachi gli
arrivò smorzata, come se stesse facendo violenza a sé stessa per uscire dalle
labbra pallide – Perché l’hai fatto?-
-Non fare il coglione, Uchiha. E
scrivi, cazzo-
L’insegnante gettò al loro
indirizzo una nuova occhiataccia, cosicché Itachi parve voler desistere dal suo
intento, raddrizzandosi sulla sedia e riprendendo tra le dita affusolate la
penna nera; tuttavia, osservandolo di quando in quando con la coda
dell’occhio, avrebbe potuto giurare che sulle guance solitamente pallide faceva
nota di sé un’accennata nota di colore.
Constatare che, però, altrettanto
doveva essere per la propria pelle, Kisame non riuscì a tranquillizzarsi
minimamente.
*armi bianche: sono
considerate armi bianche tutte le armi dotate di lama, lunga o corta (quindi,
spade, pugnali, coltelli, kriss, ecc)
** Shakespeare:
Machbeth, atto V, scena quinta (traduzione by my prof XD)
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